Mentre buona parte del mondo si sforza di limitare la diffusione del coronavirus, alcuni Paesi provano a fare di testa loro, affrontando la pandemia attraverso la strategia della cosiddetta “immunità di gregge”. Il concetto che sta dietro a questo approccio è semplice: per far sì che il ciclo di contagio del virus si interrompa bisogna lasciare che un grosso numero di persone si infetti e sviluppi gli anticorpi per combatterlo naturalmente. I Paesi Bassi hanno scelto questa strategia, così come il Regno Unito, che poi ha fatto retromarcia non appena si è reso conto conto che avrebbe potuto significare la morte di 250mila persone.
Tuttavia, la strategia dell’immunità di gregge contro il coronavirus è stata criticata direttamente dall’Organizzazione mondiale della sanità, che ha invitato a un approccio più radicale. Anche diversi altri esperti hanno fatto notare che si tratta di un piano che, nella migliore delle ipotesi, è sperimentale, nella peggiore è pericoloso.
Alla luce di quanto detto, l’immunità di gregge può proteggerci dal coronavirus? Sono saggi i Paesi che la stanno adottando?
Prima di tutto, comprendiamo il concetto di immunità
Il nostro organismo combatte le malattie infettive come la COVID-19 attraverso il sistema immunitario: produciamo anticorpi in risposta agli agenti esterni, per affrontarli ed espellerli. Dopo aver vinto contro una malattia infettiva, conserviamo una sorta di “memoria” del virus che ci ha attaccati, in modo da combatterlo al meglio e in maniera più veloce in caso dovesse ripresentarsi.
Per questo motivo, una volta che abbiamo sviluppato la cosiddetta immunità a un determinato virus, è improbabile che la malattia a esso correlata ci faccia ammalare di nuovo. La teoria dell’immunità di gregge si basa quindi sull’idea che se molte persone si immunizzano al coronavirus contraendolo, questo a un certo punto non avrà più organismi “vergini” da infestare, e non avrà più modo di diffondersi.
Comprendere i numeri dell’immunità di gregge
L’immunità di gregge è una questione essenzialmente matematica. Si basa tutta sul tasso netto di riproduzione del virus in questione, ovvero su quante nuove infezioni è in grado di generare a partire dal contagio di un primo singolo individuo.
Se il tasso netto di riproduzione equivale a 1, ogni persona infetta potrà passare la malattia al massimo a un altro individuo. Più alto è il numero che indica il tasso di riproduzione netto del virus, più una malattia è considerata contagiosa. Allo stesso tempo, si capirà che per interrompere la diffusione di una malattia è necessario che il tasso di riproduzione del virus che la causa sia inferiore a 1. Il tasso netto di riproduzione di SARS-CoV-2 è stato calcolato tra il 2 e il 3.
Dunque, mano a mano che l’infezione si diffonde all’interno di una popolazione, il numero di persone nuove suscettibili a contrarla si riduce, perché i singoli individui sviluppano l’immunità al virus. Raggiungere l’immunità di gregge significa ridurre il numero di persone contagiabili fino al punto in cui il tasso di riproduzione del virus scende al di sotto di 1, impedendo l’ulteriore diffusione della malattia.
Nel caso del morbillo, il 95% delle persone deve immunizzarsi affinché l’infezione smetta di propagarsi; per il coronavirus, questa percentuale si aggira intorno al 40%, il risultato di un mio calcolo basato su un tasso netto di riproduzione di 2,6. Quindi, se circa il 60% delle persone si immunizza al SARS-CoV-2, questo smetterà di girare.
Bisogna specificare che in alcuni pazienti il virus ha contagiato la stessa persona due volte, ma i casi non sono stati verificati attraverso il meccanismo della peer-review nel mondo della ricerca, quindi per ora li accantoneremo.
Quindi l’immunità di gregge è un buon piano?
Detta così, potrebbe sembrare di sì. Ma l’assenza di un vaccino contro la malattia rende il tutto molto rischioso. Il miglior modo di sviluppare l’immunità di gregge, infatti, è proprio attraverso la profilassi vaccinale, che prevede la somministrazione di una dose indebolita del virus, in modo da permettere al nostro sistema immunitario di combatterlo facilmente, senza ammalarci ma sviluppando gli anticorpi specifici contro di esso.
Quando il vaccino non è disponibile e l’infezione si diffonde, è vero che alcune persone che contraggono la malattia in forma lieve si riprenderanno e si immunizzeranno. Ma è pericoloso e immorale affidarsi a questa strategia per combattere una pandemia. Prima di tutto, perché le conseguenze del coronavirus sulla salute nel medio e lungo termine non sono ancora note. In secondo luogo, perché anche coloro che devono affrontare una forma non grave della malattia restano perfettamente in grado di passarla a persone anziane o indebolite, che hanno un alto rischio di morire dopo aver contratto il virus.
Uno studio ha stimato che nel Regno Unito, per raggiungere l’immunità di gregge, il coronavirus dovrebbe contagiare 47 milioni di persone. Con una letalità pari a circa il 2,3% e il rischio di contrarre la COVID-19 in forma grave pari al 19%, questo significa che molte persone potrebbero morire e ancora di più avrebbero bisogno di cure intensive.
Cosa dovremmo fare quindi?
Facciamo finta che l’Australia e la Nuova Zelanda decidano di ricorrere all’immunità di gregge per contrastare la pandemia. Diciamo che, volendo fare una stima conservativa, il 10% delle persone si infetti – 500mila neozelandesi e 2,5 milioni di australiani. Nel giro di pochissimo, anche numeri del genere manderebbero al collasso il sistema sanitario dei due Paesi in questione.
La strategia sanitaria più sicura è quindi quella di prevenire la diffusione del virus sin dall’inizio, appiattendo la curva di moltiplicazione dei contagi in modo che gli ospedali non siano inondati di tanti casi contemporaneamente, e che il sistema sanitario abbia modo di gestire l’emergenza. Per questa ragione è così importante controllare gli spostamenti oltre confine, imporre l’autoisolamento, limitare gli assembramenti, tracciare i contatti avuti dai casi conclamati e porre in quarantena coloro che risultano positivi al virus. Potrebbe inoltre essere saggio iniziare a valutare lo stato di salute dei passeggeri in partenza dagli aeroporti, e, laddove necessario, fare loro un tampone.
Un altro aspetto fondamentale è convincere le persone a mantenere una buona igiene di sé e assicurarsi che disinfettanti, cibo, sapone e acqua siano sempre disponibili, oltre a garantire i servizi essenziali laddove servono. Questo è anche il momento di prenderci cura dei nostri anziani. Attraverso queste misure ci garantiamo la migliore possibilità di rimandare il coronavirus da dove è venuto il più presto possibile, riducendo il numero delle vittime.
Questo articolo è stato tradotto da The Conversation.
Arindam Basu è Professore associato di epidemiologia e salute ambientale all’Università di Canterbury.