Quando Radha Blank, la donna che ha scritto, diretto e interpretato The Forty-Year-Old Version, ha vinto il premio come miglior regia al Sundance Festival, la cosa è sembrata quasi ovvia. La sua pellicola riassume alla perfezione l’idea di opera che un evento del genere vuole valorizzare. Non solo perché si tratta di un film a basso budget girato in 21 giorni e senza attori professionisti, ma soprattutto perché rappresenta una critica all’establishment e in generale al mondo dell’industria culturale.
La trama di The Forty (che nel titolo cita la commedia The 40 Year-Old Virgin, 40 anni vergine) ricalca la vita di Radha Blank, che non a caso presta il suo nome e il suo volto alla protagonista: Radha è una donna afroamericana che sta per compiere quarant’anni e che in seguito a un debutto promettente nel mondo del teatro si è persa e non riesce più a riprendersi dalle delusioni patite, né a far ripartire la propria carriera, schiacciata da un mondo che non lascia spazio al racconto della sua esperienza, se non attraverso compromessi, stereotipi e cliché.
La storia del cinema afroamericano è piena di film che, proprio perché parlavano di persone nere senza ricorrere a luoghi comuni, sono stati ignorati. Guardando The Forty-Year-Old Version è impossibile non pensare per esempio a Losing Ground di Kathleen Collins, un film del 1982 che da molti viene considerato il primo lungometraggio diretto da una donna afroamericana, e per questo è stato a lungo dimenticato. Il paragone viene spontaneo, se non altro perché entrambe le pellicole toccano temi simili, in primis la difficoltà per un’artista nera di affermarsi in un mondo governato da maschi bianchi.
Come la protagonista di Losing Ground, la ricercatrice di filosofia Sara Rogers, anche Radha in The Forty rappresenta un’intellettuale con aspirazioni artistiche ed è stata creata da Blank, sceneggiatrice oltre che regista e attrice del film, a sua immagine, come una sorta di alter ego. Entrambi i personaggi provano a superare difficoltà di affermarsi sulla scena insegnando, e ci riescono bene: le lezioni di filosofia di Sara in Losing Ground sono coinvolgenti come quelle di recitazione di Radha in The Forty, elargite a un gruppo di studenti appartenenti a minoranze che vogliono riuscire in qualcosa che li faccia emergere. Radha dovrebbe far loro da guida e ne avrebbe tutte le capacità, se non fosse che è una donna sfiduciata per i fallimenti professionali cui è andata incontro dopo i promettenti esordi e forse il consiglio più sincero che dà ai ragazzi resta nella frase: “Non pensare che solo perché hai creato qualcosa la gente lo apprezzerà”.
La difficoltà maggiore di Radha è quella che hanno molti quarantenni: dover convivere con il peso delle aspettative non ripagate e delle speranze deluse. Se il problema per la protagonista di The Losing Ground quarant’anni fa era di dover sostenere quotidianamente il confronto con la carriera artistica del marito, per la quarantenne Radha la difficoltà maggiore è quella di riuscire a non farsi abbattere dalla sensazione di aver potuto fare di più col proprio talento e per un motivo o per l’altro non aver raggiunto i risultati sperati. A mostrarle l’origine della sua frustrazione è una delle ragazze a cui insegna. Radha, che era stata una delle più promettenti e premiate artiste sotto i trent’anni, non scrive infatti da quasi un decennio niente di importante, e sbarca il lunario con un laboratorio teatrale per “ragazzi difficili” ad Harlem.
In uno dei suoi racconti, Stephen King scriveva: “Sapete cos’è il talento? La dannazione dell’aspettativa” ed è proprio il dover accettare di non essere diventati quello che ci si era promessi il fardello più pesante che sembra portarsi dietro la generazione di Radha. Per come è stata cresciuta, la protagonista non concepisce infatti che si possa raggiungere la felicità senza una parallela realizzazione artistica e professionale. Lo si capisce quando, quasi alla fine del film, parla con il fratello di sua madre e la compatisce: secondo la prospettiva sfalsata di Radha è infatti come se la madre, rinunciando alle velleità artistiche per quei figli che lei considerava i suoi veri “capolavori”, avesse fallito nella sua esistenza.
La protagonista del film non vede alternative possibili. A un certo punto lo dice chiaro e tondo: “Voglio solo fare l’artista”, ma più passa il tempo e più questo progetto assume i contorni di un sogno o di una vera e propria utopia. Blank assomiglia proprio ai personaggi solitari e avviati alla deriva di 40 anni vergine. Al pari di questi, però, anche lei è in parte causa dei mali che l’affliggono. Radha è troppo orgogliosa per analizzare con umiltà i motivi che l’hanno portata a diventare, da giovane drammaturga incensata dalle riviste quale era, un’insegnante ritardataria, che vive sola e non ha nemmeno una vita sessuale soddisfacente. Radha si compiange e a tratti sembra quasi cercare il fallimento per poter avere così una scusa che giustifichi la sua stessa autocommiserazione.
Radha è ossessionata dal tempo che passa, da quello che sente di aver sprecato e che alla soglia dei quaranta non sembra poter recuperare. Questa percezione viene sostenuta in diverse maniere durante il film, come nella scena in cui una cameriera latinoamericana dice a favore di camera che “Le donne sopra i quarant’anni sono come il frutto che cade dall’albero perché gli insetti lo mangino”. In momenti come questo, la regista dà voce attraverso ad altri personaggi ai dubbi di Radha, sfondando la quarta parete e parlando direttamente allo spettatore. Uno stratagemma usato anche in Lola Darling, di Spike Lee, un film che a giudicare dalle apparenze ha influenzato molto la pellicola. Non a caso, proprio come Lola, anche The Forty è girato in bianco e nero. Una scelta stilistica che Blank ha difeso pubblicamente, pensandola come omaggio ai lavori iconici di altri registi newyorchesi che ha amato e da cui è stata ispirata, da John Cassavetes a Woody Allen, fino allo stesso Lee, ma anche Baumbach. I produttori hanno provato a scoraggiarla ma la regista è riuscita a convincerli, ottenendo ciò che voleva.
Prima di realizzare questo film, Radha Blank si è vista rifiutare almeno 12 opere teatrali già pronte, e spesso – per sua stessa ammissione – si è ritrovata disperata a piangere nelle lobby dei teatri. Se le si chiede il perché di tante difficoltà, Blank le imputa proprio al suo voler rinunciare agli stereotipi e ai cliché che i produttori le chiedevano di adottare nei suoi lavori: “Non scriverei mai la versione della vita nera che la maggioranza del pubblico apprezza. Non ho fatto mai ‘porno sulla povertà’. Non ho mostrato l’Africa dilaniata dalla guerra. Non ho fatto ritratti d’epoca in cui la gente ballava e cantava”. Prima di trovare qualcuno che scommettesse su di lei senza riserve Blank si è quindi sentita fare dai produttori la stessa domanda che viene fatta al suo alter ego nel film, la prima domanda che viene posta a qualunque artista, a maggior ragione se racconta l’esperienza di una minoranza: il tuo prodotto “È in grado di parlare a tutti?”. Questo interrogativo spesso nasconde la richiesta implicita di omologare il proprio lavoro a un singolo punto di vista ben definito, quello della maggioranza, e questo corrisponde spesso allo spegnersi della voce dell’autore e al conformismo, in nome delle vendite. Se non accetti questo compromesso vieni tagliato fuori.
Questo conflitto viene rappresentato nel film attraverso lo scontro tra Radha e il produttore J. Whitman, che la spinge verso una versione più edulcorata e adatta al pubblico bianco della sua opera, Harlem Ave. Come evidenzia Simran Hans sul Guardian, il film è “un commento acuto sui modi in cui le donne nere sono incoraggiate a distorcere la loro creatività per essere consumate dal pubblico bianco”. Anche in un’altra pellicola di Spike Lee, Bamboozled, succedeva una cosa simile. Il protagonista, un autore televisivo, stanco di vedersi rifiutare idee per programmi fruibili in primis da un pubblico afroamericano, protesta riesumando sulla sua rete i “minstrel show”, in cui i bianchi si pitturavano di nero per proporre una versione caricaturale degli afroamericani. La reazione esasperata di Radha alle imposizioni passivo-aggressive di Whitman, che vorrebbe una commedia con un “carattere bianco” per avvicinare più pubblico possibile, è ancora più estrema: gli si scaglia addosso cercando di strangolarlo. Alla fine, però, deve venire a compromessi con le pressioni dell’industria di cui vuole entrare a far parte. Whitman è infatti solo un ingranaggio di un sistema corrotto.
Scoraggiata dall’episodio dell’aggressione, Radha decide di provare a esprimersi con una forma d’arte che sia per sua natura più libera e indipendente dai condizionamenti esterni. Decide allora di riscattarsi attraverso il rap, ma fallisce anche in quel campo perché vorrebbe fare un mixtape centrato ancora una volta sulla sua esperienza di donna afroamericana artista e quarantenne. Il mondo dell’hip hop però non manifesta alcun interesse per questo tipo di racconto, e non ha spazio neanche per le donne. Paradossalmente Radha, che voleva usare la musica per esprimere sé stessa, anche per realizzarsi in quel settore dovrebbe fingersi ciò che non è, allo stesso modo del cinema. Può usare il gergo del ghetto, farsi le canne col suo beatmaker e provare a incarnare tutti i cliché del genere, ma non sarebbe autentica neanche in questa veste, sarebbe sempre una donna cresciuta nel quartiere di Williamsburg a Brooklyn, con dei genitori artisti che l’hanno fatta studiare.
Nelle scene in cui al centro c’è la musica il film abbatte le barriere tra cinema di finzione e documentario, proponendo qualcosa di simile a ciò che aveva provato già a fare uno dei primi registi afroamericani, William Greaves, in Symbiopsychotaxiplasm Take One: una pellicola sperimentale incentrata sulla storia di una troupe cinematografica che cerca di girare in presa diretta nella New York degli anni Sessanta. Film come questo, in qualche modo simili a The Forty-Year-Old Version, ai tempi ebbero sicuramente meno visibilità e fortuna dell’autobiografica opera prima di Radha Blank, ma senza certi esempi oggi non esisterebbe questa commedia, un lavoro che dimostra come sia possibile riuscire ad arrivare a tanti senza rinunciare alla propria identità e piegarsi ai luoghi comuni.
Radha Blank ha messo all’interno del suo personaggio tutte le frustrazioni di una generazione sedotta da grandi promesse e poi abbandonata a gestire da sola il peso delle disillusioni. Ha raccontato la difficoltà nel scegliere di accettare compromessi quando non ne si può farne a meno per riuscire comunque a esprimersi davanti a un pubblico. Gli artisti, ancora oggi, non sempre possono esprimersi come vorrebbero, e spesso sono costretti a scendere a compromessi non da poco: tra ciò di cui vorrebbero parlare, il modo in cui vorrebbero farlo, l’essere prodotti o pubblicati, e il tipo di successo e di introiti che desiderano. Il problema è che, rinunciando a punti di vista diversi, non solo si dimentica il valore etico dell’arte ma la si appiattisce e impoverisce, riducendo la visione stessa del pubblico. Per profitto, tanti vorrebbero raccontarci solo una storia ma non è detto che questa sia l’unica che valga la pena ascoltare e soprattutto non è detto che il pubblico non abbia voglia di ascoltarne altre, invece che sorbirsi il solito canone trito e ritrito.