Alcuni modi di dire li ritroviamo scolpiti nel nostro linguaggio senza nemmeno sapere bene perché, perdiamo quasi completamente traccia della fonte, li inglobiamo nel nostro pensiero in modo automatico, ereditario. Tante volte si legge o si sente di qualcuno che per dire “Non farci caso” cita erroneamente la Divina Commedia con nonchalance, giusto per far venire qualche capello bianco ai dantisti in ascolto con l’abusato “Non ti curar di loro ma guarda e passa” che, nella versione originale, dice “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. La lingua non è certo un’entità statica, prefabbricata, immobile nelle sue regole, e il modo in cui parliamo riflette ciò che pensiamo, la nostra Weltanschauung, per usare una di quelle celebri parole tedesche che racchiudono con sintesi chirurgica concetti a dir poco complessi. Noi italiani, che con la lingua abbiamo un rapporto piuttosto peculiare – grazie alla moltitudine di accenti, dialetti e varietà regionali che ci ritroviamo, ognuna delle quale stabilisce un’identità e un pensiero diversi – non abbiamo certo la capacità di sintesi teutonica, né la velocità sintattica anglosassone, ma sappiamo tutti, perfettamente, cosa sia una supercazzola. Non so dire se si tratti di una nostra specialità, sicuramente esisterà qualche altra lingua che consente giochi simili, ma prima ancora che una lingua serve un modo di pensare che consenta di partorire una diavoleria simile. La supercazzola è forse la quintessenza di una italianità per certi versi estinta, per molti altri no; è la traduzione pratica della definizione di Churchill sul fatto che perdiamo le partite di calcio come se fossimo in guerrae le guerre come se fossimo a una partita di calcio. È la locura di cui parlano gli sceneggiatori di Boris, è quel sottile sentimento di perenne presa in giro, mancanza di serietà e cazzoneria in qualsiasi cosa ci applichiamo, quel modo di vivere alla “E fattela una risata!”.
La pellicola che ha consacrato alla nazione il concetto di supercazzola è, ovviamente, Amici miei, il caposaldo della commedia all’italiana diretto da Mario Monicelli ma scritto da Pietro Germi. In realtà non è così ovvio sapere da dove viene questa parola che definisce la pratica sdoganata dai protagonisti del film, un gruppo di amici fiorentini adulti e vaccinati ma dediti con anima e corpo allo scherzo perenne: quando qualche anno fa Fabio Rovazzi ha usato una citazione del film cult di una generazione Ecce bombo, “Faccio cose vedo gente”, per esempio, nemmeno l’autore del pezzo sapeva che provenisse da là. E se da un lato perdere le tracce dell’origine di un’espressione di uso comune significa che è diventata talmente radicata nella quotidianità da non avere neanche più una matrice nota, dall’altro sconforta un po’ sapere che ci sono persone – probabilmente i più giovani – che non hanno visto film così importanti. Con la supercazzola immagino si possa fare un discorso analogo, anche perché è stata riutilizzata negli anni da personaggi come Teo Mammucari – era un suo sketch a Le Iene – diventando di fatto una pratica di uso comune a vantaggio di chi sa usare molto bene le parole al punto di inventarsene di sana pianta. Pare che il primo vero campione di supercazzola, prima ancora del Conte Mascetti di Ugo Tognazzi, fosse questo musicista palermitano, Corrado Lojacono, maestro di nonsense creato ad hoc per stordire il proprio interlocutore con una raffica di termini inesistenti: “Come fosse antani, la supercazzola con scappellamento a destra”, e il resto va da sé. Ma al di là di questo giochetto che si ripete per tutta la durata del film, primo di una saga iniziata il 10 agosto del 1975 – negli anni uscirono anche l’atto II e il III di Amici miei –, che basta da solo per consacrare la pellicola all’eternità, ci sono alcuni elementi che oggi vale la pena analizzare con un filtro più contemporaneo e critico, specialmente per capire il milieu in cui nasce un’opera del genere e il relativo successo decennale.
La trama di Amici miei è piuttosto semplice, e come tanti film di quegli anni ruota attorno a poche regole imbattibili: una scrittura fitta, brillante – non a caso frutto dell’immaginazione di Germi, regista simbolo di quegli anni, per alcuni anche inventore del genere – e un cast molto curato. Tutto il resto è di secondaria importanza, dal momento che non ci sono chissà quali scenografie o effetti speciali, ma solo un intreccio di episodi che si intersecano con uno spostamento di focus da personaggio a personaggio. C’è Ugo Tognazzi con la sua nobiltà decaduta, il Conte Mascetti, finito in miseria ma ancora saldamente attaccato al suo retaggio; c’è Rambaldo Melandri, interpretato da Gastone Moschin, un architetto romantico in cerca della donna della sua vita; c’è Philippe Noiret nei panni di Giorgio Perozzi, un giornalista odiato da moglie e figlio per la sua condotta infantile; c’è Alfeo Sassaroli, il primario interpretato da Adolfo Celi che si aggiunge alla comitiva dopo una delle loro scorribande, dette le zingarate; e poi c’è Guido Necchi, interpretato da Duilio Del Prete, proprietario del luogo per eccellenza dove si riuniscono gli amici, il tempio della nullafacenza e della goliardia maschile: il bar. Ognuno di loro scappa da qualcosa, chi dalla miseria, chi dall’amore, chi dalla routine, ma tutti fuggono da un elemento centrale del racconto, nonché del presente, ossia la noia. La noia della famiglia borghese, dell’impiego fisso, la noia del matrimonio e della paternità, la noia di un mondo schematico fatto di nascita, lavoro, riproduzione, morte. L’unico modo per ingannare questo eterno ritorno del quotidiano è inventarsi qualcosa di stupido, infantile, insensato e palesemente inutile, un puro divertimento demenziale che coinvolge gli amici nel momento del bisogno. Cosa si fa oggi? Non si lavora, si va a fare una zingarata, ci si imbuca a una festa in casa di aristocratici, si fa credere a un anziano pensionato spilorcio che è diventato parte di una missione criminale contro la mafia marsigliese.
La supercazzola del Conte Mascetti diventa così il manifesto poetico di una gang di disgraziati, annoiati al punto da non trovare nessun senso nella loro esistenza se non attraverso la banalità della risata. La famosa scena alla stazione di Firenze, quando per consolare il Melandri dall’ennesima delusione amorosa vanno tutti a dare schiaffi a chi parte sporgendosi dal treno, è un altro momento iconico del film, tanto da essere stata ripresa anche in chiave tragica da Ugo Fantozzi. Ma la vita di questi uomini borghesi, abbienti professionisti o scialacquatori di patrimoni, viziati e in preda all’horror vacui dell’esistenza umana, è un leitmotiv del cinema di quegli anni che non a caso aveva intercettato un sentimento che di certo non si è estinto, anzi, forse si è acuito nella baraonda postmoderna e tardocapitalista in cui ci ritroviamo. Così come I Vitelloni di Fellini, del 1953, che racconta la nullafacenza di un gruppo di amici pavidi e buoni a nulla, il famoso gesto dell’ombrello di Sordi ai lavoratori, l’immobilismo mammone e pigro di ragazzi che non trovano senso nel presente se non nel non fare assolutamente nulla, incapaci persino di scappare. Tema che probabilmente trova la sua espressione più cruda, cinica e disillusa in La grande abbuffata di Marco Ferreri, che con Amici miei condivide non solo parte del cast – ci sono sia Tognazzi che Noiret, e originariamente anche Mastroianni avrebbe dovuto essere in entrambi i film –, ma anche questo senso angosciante di nulla che opprime.
Se nel film di Monicelli la morte ricopre un ruolo centrale ma comunque parziale, senza fare spoiler di un film che nel 2020 avrebbero dovuto vedere tutti ma non si sa mai, in quello di Ferreri questa spinta verso il vuoto diventa un suicidio di massa. Un sacrificio collettivo alla noia, all’opulenza, alla disperazione che deriva dall’avere tutto, senza sentirsi padroni di nulla, l’agio che si deforma fino a diventare un demone di cui è impossibile liberarsi se non con la morte. Gli amici di una vita non si vedono per fare scherzi e ingannare il tempo ma per saziarsi fino a morire in uno stato di tracotanza luculliana: tale è l’eccesso di abbondanza da diventare stucchevole e nauseabondo. Con Amici miei la soluzione a questo senso occidentale, consumistico, materialista e opulento di noia viene sublimato con una risata sciocca, in La grande abbuffata, come dice il titolo stesso, in un auto-soffocamento prestabilito e organizzato da un gruppo di uomini che incarnano alla perfezione lo spirito del tempo in cui si trovano. Uomini che, impossibile negarlo, sono attaccati a una forma patriarcale nel senso più obsoleto e stanco del termine: le protagoniste femminili di questi film sono infatti solo marginali, funzionali alla trama ma non centrali. Una caratteristica di queste pellicole che, a mio avviso, serve per noi che le guardiamo oggi non tanto a fare chissà quale revisionismo sterile e superficiale, quanto per comprendere un sistema sociale al collasso; non a caso sono uomini, non a caso sono uomini borghesi, assuefatti, annoiati.
Amici miei è uno di quei film che se da un lato ha avuto la sua eredità più che consolidata, tra remake, citazioni e frasi diventate di uso comune e personaggi diventati anche icone di un certo bomberismo internettiano, dall’altro serve proprio a stimolare quel fastidio e quella ripugnanza per qualcosa che non è finito, ma che sta cambiando, perlomeno da alcuni punti di vista. Proprio quel gruppo di uomini che maltrattano le mogli, che vivono liberi da qualsiasi dovere, spadroneggiano per le vie della città con prepotenza, insolenza e ironia costante – creando quell’atmosfera comica che lo rende così divertente proprio perché immorale – è la metafora perfetta della stortura che sta alla base della nostra società, dove c’è chi ha fin troppo spazio nelle sue giornate da dedicare agli scherzi e chi non ha nemmeno il tempo di accorgersi che sta vivendo. Perché per quante supercazzole si possano fare, per quanti scherzi si possano inventare, alla fine, gli amici delle zingarate si ritrovano ancora una volta annoiati, stanchi, consapevoli della loro fondamentale e insolubile inutilità. Vittime della supercazzola che ha inflitto loro l’esistenza stessa – “Con scappellamento a destra”, sia chiaro.