Zelensky ha proposto 10 punti sensati per la pace. Putin ha risposto con 100 missili. - THE VISION

Al G20 di Bali è successo un po’ di tutto. È come se in due giorni fossero stati condensati nove mesi – un parto – di attacchi, accuse, trattative, gaffe, speranze, timori e intrighi internazionali. Una tragicommedia iniziata con Lavrov dato per ricoverato in ospedale, che in realtà era tranquillo, in bermuda, su una terrazza di un albergo di lusso a preparare i suoi discorsi; e terminata con un’esplosione in Polonia, territorio Nato, che per un inconsueto effetto matrioska ha generato un G7 all’interno di un G20. In mezzo ci sono state strette di mano significative, come quella tra Joe Biden e Xi-Jinping, con la promessa di una “concorrenza leale senza conflitti”; frasi più che ambigue, come quella di Meloni in cui ha fatto un pasticcio linguistico e concettuale su salute e libertà; e condanne parziali a una nazione, la Russia, che non è nemmeno stata citata. La sensazione è che si sia discusso della guerra del Peloponneso senza avere né Sparta né Atene al tavolo, se non attraverso rappresentanti o interventi a distanza. Per motivi diversi, Zelensky e Putin non erano fisicamente presenti, eppure sono stati ugualmente i protagonisti di una quarantott’ore a tratti delirante.

È vero, i due liocorni non si sono fatti vedere a Bali, ma si sono fatti sentire eccome. Quando Zelensky ha preso la parola apparendo sullo schermo ci saremmo aspettati una prova di forza dopo i territori recentemente riconquistati dall’esercito ucraino, un messaggio quasi spavaldo per rivendicare le difficoltà di una Russia costretta a sempre più frequenti ritirate. Così non è stato. L’unica stoccata è quando ha parlato di G19; per il resto è passato subito al sodo spiegando come questo sia il momento giusto per la cessazione delle ostilità. E, in effetti, lo è davvero: non poteva esserlo nei mesi scorsi, con l’Ucraina con la testa sott’acqua, mentre adesso, con l’arretramento russo e con l’esercito ucraino che sta riconquistando i suoi feudi, Zelensky può trattare da una posizione più vantaggiosa. Ha così stilato i suoi dieci punti per la pace, un manifesto più che ragionevole in cui viene richiesta semplicemente l’indipendenza e la dignità del suo popolo. Come risposta, Lavrov ha definito “irrealistiche” le sue proposte e Putin, a migliaia di chilometri di distanza, ha premuto il pulsante. Quasi cento missili sono caduti nelle principali città ucraine, causando altra morte e distruzione.

Vladimir Putin
Sergei Lavrov

Chiunque abbia letto i dieci punti di Zelensky, che adesso elencheremo, non può che averli considerati non solo sensati, ma naturali per un Paese invaso. Sbagliamo però a considerare Putin e la sua cricca come un insieme di interlocutori ordinari. Putin, i suoi scagnozzi e l’oligarghia russa vanno analizzati come se fossimo di fronte, e lo siamo, a una comunità pervasa da una vena paranoide. Loro sono realmente convinti che la Nato volesse bombardarli, che quattro nazistelli ucraini fossero pronti a ricostituire il Terzo Reich, e quelle che noi occidentali consideriamo manie di persecuzione fanno parte invece del loro modo di essere e di pensare, da buoni figli del KGB sospettosi di tutto e inclini alla distruzione del nemico. Sembra davvero di essere di fronte a un diffuso disturbo paranoide della personalità, tra i cui sintomi il DSM cita: “sospetti non realistici di venir sfruttati o danneggiati”, “prevalenza di rancore verso gli altri”, “sentimento ingiustificato di venire attaccati e tendenza a reagire”, “fraintendimento delle parole altrui”. E se Putin alle parole per la pace di Zelensky ha risposto sganciando cento missili sui cieli ucraini, è perché quelle parole, appunto, non le ha capite.

Eppure erano molto chiare, come un elenco della spesa su cui però è scritto nero su bianco il destino dell’intero pianeta. Punto primo: “Sicurezza nucleare”. Stop alle minacce russe, che vanno avanti da mesi, sulle armi di distruzione di massa. Si passa poi alla “Sicurezza del cibo” e alla “Sicurezza energetica”. Zelensky ha chiesto che le esportazioni di cibo per la popolazione ucraina siano sbloccate senza l’ostruzionismo di Mosca e che quest’ultima smetta di bombardare le centrali elettriche lasciando moltissime zone del Paese al buio e senza energia, con l’inverno alle porte. Ha chiesto inoltre la liberazione dei prigionieri (anzi, uno scambio equo) e, nel quinto punto, l’attuazione della Carta delle Nazioni Unite, ovvero ristabilire i confini ufficializzati dalla comunità internazionale e riavere i territori sottratti dai russi con la forza e con referendum farlocchi. Nei punti successivi parla di “ritiro delle truppe russe e cessazione delle ostilità” e “giustizia”, ovvero che gli aggressori possano essere giudicati dai tribunali competenti per i crimini di guerra già approvati, contribuendo alla ricostruzione dell’Ucraina con un risarcimento economico. Anche il punto otto è ineccepibile: “Ecocidio e tutela dell’ambiente”, chiedendo ai russi di non causare disastri di dimensioni incalcolabili, come il bombardamento di una centrale nucleare. Gli ultimi due punti sono indirizzati anche al resto del mondo: “Prevenzione dell’escalation” e “Conferma della fine della guerra”. È un patto di garanzia, un modo per avere la certezza che gli altri Stati ufficializzino il termine delle ostilità, nell’ultimo caso, o che non intervengano a sostegno della Russia. Ogni riferimento a Cina, Iran o Corea del Nord non è puramente casuale.

Volodymyr Zelensky

Noi occidentali leggiamo questi punti e non ci troviamo nulla di sbagliato. Zelensky non chiede mica un pezzetto di San Pietroburgo o la distruzione della Russia. Non viene citato nemmeno un eventuale ingresso nella Nato. I vertici del Cremlino invece vedono in queste richieste una trappola, nonché una costrizione ad alzare una bandiera bianca che qualche ideologo russo assocerebbe ad alto tradimento, a una sconfitta intollerabile – e le parole di Dugin a riguardo sono state esplicative. Inoltre, Putin stesso sa che se Zelensky è arrivato a quest’apertura è perché adesso può permetterselo, avendo l’inerzia bellica dalla sua parte. È vero che il Cremlino continua a bombardare le città, ma fuori dalla rozzezza dei missili sta perdendo terreno sul campo di battaglia giorno dopo giorno. Tutto questo grazie al sostegno militare che l’Occidente ha offerto all’Ucraina. I “pacifinti” nostrani hanno contestato l’invio di armi, perché “non è così che si ottiene la pace”, come se i nostri partigiani avessero sconfitto “l’invasore” con le fionde e le cerbottane. Addirittura contestavano i tentativi ucraini di riconquistare gli stessi territori del Paese. Alessandro Orsini a settembre scriveva un articolo per Il Fatto Quotidiano dal titolo “A Kherson. La controffensiva ucraina è un fallimento: è ora che l’Ue lo dica”. Fino a qualche giorno fa dichiarava che a Kherson ci sarebbe stato un massacro per gli ucraini. Oggi, invece, a Kherson sventola di nuovo la bandiera ucraina e la gente è scesa per le strade a festeggiare la liberazione.

Alessandro Orsini

Era ovvio che un’Ucraina vessata, conquistata e senza una minima resistenza non avrebbe potuto trattare alle sue condizioni. Di conseguenza avrebbe cessato d’esistere. L’aiuto militare è servito non soltanto a resistere e a fronteggiare l’aggressore, ma a porsi in una condizione in cui il potere contrattuale è ben più favorevole. Altrimenti Zelensky non avrebbe mai aperto a una trattativa per la pace. Per tutti gli Orsini d’Italia dovevamo consegnare un Paese a un dittatore che intendeva prenderselo con la forza. E non solo il Donbass, visto che gli attacchi sono stati in tutto il Paese, Kiev compresa. L’intento – come svelato persino da Berlusconi – era quello di rimuovere il governo e mettere al suo posto dei fantocci manovrati dal Cremlino. Un precedente che il mondo intero non avrebbe potuto tollerare. E, nonostante tutti i nove mesi siano stati un gigantesco casus belli, la Nato non ha mai mosso un dito contro la Russia. Perché, checché ne dicano gli affetti da sindrome paranoide russi e italiani, la Nato non ha alcuna intenzione di dar vita a una terza guerra mondiale. Non ha nemmeno concesso la no-fly zone in Ucraina o l’ingresso dello Stato di Zelensky nell’organizzazione. Ma a quanto pare il Cremlino è diventato il set del sequel di Qualcuno volò sul nido del cuculo, e il mondo intero deve sottostare ai deliri di chi un giorno potrebbe svegliarsi sganciando l’atomica.

La due giorni di Bali lascerà certamente un’impronta nei mesi a venire, e adesso la curiosità più grande che ho è quella di assistere ai commenti dei filoputiniani sui dieci punti per la pace di Zelensky. Sarà grottesco assistere ai mezzi che inventeranno per andar contro a queste proposte assennate e legittime, facendo il gioco delle parti e mantenendo una posizione che ormai non possono più abbandonare, per non contraddire se stessi. Mentre scrivo questo articolo non sono ancora uscite le reazioni di Orsini, di Di Battista, di Travaglio e nemmeno dei veterocomunisti confusi. Probabilmente nemmeno loro si aspettavano questa mossa di Zelensky. Forse gli converrà parlar d’altro, scrivere un editoriale sul clima freddo ma non ancora freddissimo di novembre, sul fatto che non ci siano più le mezze stagioni o sulla maglietta di Montesano, perché appigli per criticare i punti di Zelensky, non c’è spazio per trovarne.

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