L’UE si fonda su pace e solidarietà, il nazionalismo di Polonia, Ungheria e altri Stati va fermato - THE VISION
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Siglato nell’omonima cittadina dei Paesi Bassi, il Trattato di Maastricht del 1992 entrò ufficialmente in vigore il primo novembre di 28 anni fa. La Commissione Europea diventava così operativa e ufficializzava la propria fondazione in una prospettiva di una sempre più ampia collaborazione in politica estera, sicurezza, giustizia e affari interni. Ancora oggi trovare delle linee d’indirizzo davvero condivise non è facile per tutti i Paesi fondatori e quelli che negli anni si sono uniti a quell’Unione che sembrava la migliore delle opportunità a loro disposizione. Alcuni si mostrano sempre più intolleranti verso i valori della cooperazione, rigettando la parziale cessione della sovranità dopo averla accettata per aderire all’Unione e calpestando diritti umani che dovrebbero essere assodati.

Alcuni capi stato posano per una foto di gruppo dopo aver stipulato il Trattato di Maastricht, 7 febbraio 1992

L’esempio più recente riguarda la Polonia, che a inizio ottobre ha sfidato l’unità stessa degli ordinamenti giuridici europei con una sentenza della sua Corte costituzionale che ha stabilito il primato del diritto nazionale su quello europeo, violando uno dei fondamenti dell’eguaglianza e della parità di trattamento tra gli Stati membri. Questo aggrava la spaccatura – di cui la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen si è detta molto preoccupata – tra il Paese e le regole comunitarie, in primo luogo lo Stato di diritto sancito dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea come uno dei principi fondanti dell’Ue, alla cui base ci sono l’esercizio dei pubblici poteri secondo la legge, il rispetto dei diritti fondamentali, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e l’indipendenza e l’imparzialità del potere giudiziario.

Ursula von der Leyen

Si tratta, però, solo dell’ultimo degli attacchi subiti dalla democrazia in Polonia: ripercorrendo la parabola del Paese degli ultimi anni, infatti, è chiaro come questa stia venendo erosa da quando al governo si trova il partito di destra Diritto e Giustizia. Dal 2015 è cresciuta l’influenza del potere esecutivo e legislativo su quello giudiziario, che dal 2017 è soggetto alle indagini della Sezione disciplinare della Corte suprema, un organismo con ampi poteri che indaga sugli errori giudiziari e di cui, dopo l’ordine provvisorio della Corte di giustizia europea di bloccarne le attività, il governo polacco ha annunciato l’abolizione. L’indipendenza della magistratura polacca è comunque molto compromessa, esposta a ripercussioni che vanno dalle multe al licenziamento nel caso esprima critiche alle riforme giudiziarie volute dal Parlamento e alle nomine pubbliche. Già nel 2016 il governo aveva approvato una legge che gli permette di scegliere direttamente i dirigenti dei mezzi d’informazione pubblici, possibilità poi estesa alle agenzie anticorruzione e altre istituzioni pubbliche. Ecco perché la recente sentenza della Corte costituzionale di Varsavia non solo nega la primazia del diritto europeo su quello nazionale, cardine della costruzione europea e del mercato unico, ma porta avanti una stretta autoritaria interna che minaccia la democrazia e sottrae di fatto i cittadini polacchi alla protezione dei tribunali europei.

Andrzej Duda, presidente della Polonia

Qualcosa di simile accade anche in altri Paesi dell’Europa centro-orientale, come l’Ungheria del nazionalista Viktor Orbàn. Nel Paese già nel 2018 il Parlamento europeo ha visto concrete minacce all’indipendenza della giustizia, alla libertà della stampa, alla protezione dei migranti, mentre le recenti “leggi schiavitù” hanno aumentato gli straordinari sul lavoro, triplicando i tempi per il pagamento ed escludendo i sindacati dalla contrattazione sui contratti lavorativi, prima di essere dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale. Quest’anno il governo ha approvato una legge contro la presunta “propaganda LGBTQ+”, definita da numerosi osservatori e legislatori come una grave violazione dei diritti umani.

Polonia e Ungheria sono i Paesi più popolosi ed economicamente rilevanti tra quelli che mostrano preoccupanti segni di insofferenza nei confronti dell’Ue e dei valori di cui è portatrice, ma non sono gli unici. Il rigurgito nazionalista che strizza l’occhio ai neofascismi, tra cattolicesimo intransigente, intolleranza verso la comunità LGBTQ e i cittadini stranieri e repressione dei diritti delle donne, ha riguardato in anni recenti anche altri Stati. A rischiare simili derive retrograde, per esempio, è stata la Slovacchia, oggi guidata dal liberale cattolico Eduard Heger, ma governata per anni da nazionalisti ed euroscettici, come l’ex presidente Peter Pellegrini – già vice del suo predecessore Robert Fico, dimessosi per lo scandalo dell’omicidio del giornalista Jan Kuciak. Anche la Repubblica Ceca – guidata dall’imprenditore populista Andrej Babiš non se la passa meglio: il Paese incorse già nel 2007 in una segnalazione per la violazione dei diritti dei bambini rom nell’accesso all’istruzione e nel 2014 in una procedura d’infrazione per la violazione della legislazione europea anti-discriminazione.

Andrej Babiš

Questi sono veri tradimenti dei valori europei, come il rispetto della dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo Stato di diritto, valori che alcuni governi oggi ignorano quotidianamente. Nonostante le minacce, questi Paesi non vogliono davvero uscire dall’Unione: l’esempio del Regno Unito mostra in quali difficoltà si incappa abbandonando l’Ue ed è ancora vivo il ricordo delle nuove libertà e garanzie di diritti acquisite con l’Unione, che ha velocizzato la radicale trasformazione socio-economica che ha trainato i Paesi dell’ex Blocco orientale fuori dall’immobilismo in cui la Cortina di Ferro li aveva relegati. Non a caso, per esempio, oltre l’80% dei polacchi è europeista e un referendum analogo a quello britannico non potrebbe avere lo stesso risultato. Anche se per avviare un’eventuale procedura di uscita dall’Unione basterebbe la decisione del governo. Resta il timore che, nel caso l’Ue decidesse di congelare i fondi del Recovery Fund e altri pacchetti destinati alla Polonia – per sbloccare i quali l’Europa chiede il reintegro dei giudici che in Polonia, a seguito dell’accresciuto controllo di esecutivo e legislativo sul potere giudiziario, sono stati licenziati –, il sentimento antieuropeista possa aumentare.

Viktor Orban

Quello che vogliono la Polonia e gli altri Paesi insofferenti all’Unione è in realtà cambiare le regole dall’interno delle istituzioni europee. Il governo polacco ora non vuole accettare vincoli legali all’esercizio del potere pubblico, negando così un principio fondamentale dello Stato di diritto. Dal canto suo l’Ue non ha strumenti legali per espellere uno Stato membro, oltre a non avere nessun interesse a perdere un altro componente dell’Unione. Gli strumenti che ha a disposizione sono stabiliti dallo stesso Trattato dell’Unione Europea, il cui articolo 7 prevede un meccanismo per prevenire le violazioni gravi dei valori comunitari – individuate tramite relazioni annuali sul sistema giudiziario, i programmi anticorruzione, il pluralismo dei media, il bilanciamento dei poteri –, attraverso la richiesta formale di giustificare la violazione e, se necessario, attraverso l’imposizione di un limite di tempo entro cui risolverla. Le vere e proprie sanzioni, come la sospensione dei diritti di voto nel Consiglio europeo, sono giustamente complesse e risultano quindi più efficaci gli strumenti finanziari, come appunto il blocco del Recovery Fund.

L’Ue non può che appigliarsi a questi strumenti per cercare di far rispettare i propri principi, alle proprie condizioni. L’accettazione e il rispetto dei suoi valori fondamentali sono condizioni imprescindibili per farne parte: una volta entrati, bisogna rispettare e garantire i diritti, accettando di cedere una quota della propria sovranità nazionale. È un compromesso: il migliore per garantire il funzionamento di un’istituzione che fin qui ha permesso, pur con tutti i suoi limiti e difetti, il raggiungimento di una condizione di pace e progresso economico e sociale per tutti gli Stati membri. Questi non possono, come stanno facendo Polonia e Ungheria, esprimere una visione retrograda, nazionalista e intollerante che è l’opposto dell’ideale a cui punta l’Europa nel sui futuro. A meno di 30 anni da Maastricht, non possiamo permettere che i valori su cui l’Ue fu fondata dalle macerie della seconda guerra mondiale siano negati da Paesi che si ricordano di essere membri dell’Unione solo per un mero calcolo economico e di convenienza.

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