Era il 1997 quando Frank Oz portò sul grande schermo In & Out. Commedia che si proponeva di scardinare i pregiudizi che una società patriarcale e maschilista nutriva nei confronti dell’omosessualità. Fra le scene cult, quella del test della virilità in cui il protagonista Howard, interpretato da Kevin Kline, cercava di assumere degli atteggiamenti mascolini seguendo i consigli di una cassetta audio: “Sei vestito in modo adeguatamente virile? […] Gli uomini non ballano. Lavorano, bevono, hanno la schiena a pezzi, ma non ballano. Trattieniti. Fai qualsiasi cosa ma non ballare. Sii uomo. Prendi a calci. Prendi a cazzotti. Morsica l’orecchio a qualcuno”.
Dall’uscita della pellicola sono passati oltre vent’anni. Eppure, ancora sopravvivono molte di quelle stesse costruzioni sociali che dipingono il “vero” maschio come rude nei modi, forte, aggressivo, spericolato e sicuro di sé. In questo quadro anche le emozioni vengono categorizzate: la tristezza, la gratitudine e la paura sono generalmente associate alla femminilità. Per essere mascolino, l’uomo deve maturare una completa inibizione dell’emotività e mostrarsi imperturbabile. Tali norme di genere però sono dannose, perché costringono molti uomini, e soprattutto ragazzi, a incasellarsi in un modello in cui spesso non si riconoscono e che, per essere sostenuto, necessita di grande sforzi: “Si diventa maschi rinunciando a molte cose, e questo fa sì che l’identità maschile sia di una parzialità disarmante e pericolosa”, afferma Franco La Cecla nel saggio Modi bruschi. Antropologia del maschio.
Questa idea venne affrontata anche dallo psichiatra austriaco Alfred Adler, allievo di Freud, il cui distacco dal maestro avvenne proprio per via delle divergenze sul concetto di “protesta virile”, ossia “la tendenza ad affermare le attitudini e gli atteggiamenti maschili del carattere e a rifiutare il ruolo femminile”. Secondo Adler, il fenomeno si verifica sia nell’uomo che nella donna ed è alimentato dal senso di inferiorità e dall’insoddisfazione per il proprio ruolo sessuale. Lo psichiatra rafforzò questa tesi nel saggio Ermafroditismo psichico del 1910, in cui sosteneva che la “rivendicazione maschile” iniziasse in età giovanile, quando “per paura di essere tenuti in scarsissimo conto” vengono nascoste le caratteristiche femminili attraverso enormi sforzi fisici e mentali.
A conclusioni simili è giunto nel 1998 Terrence Real, che ha mostrato come i genitori, pensando che esistano differenze intrinseche già in tenera età, tendano a comportarsi in maniera diversa con i figli maschi, proiettando su di loro l’idea della virilità. Questo meccanismo si aggrava più avanti, quando alla cosiddetta mascolinità tossica si affianca la ricerca dell’accettazione propria dell’adolescenza. A tal proposito, un’indagine della New York University ha rivelato che i giovani studenti americani hanno rapporti sessuali indesiderati per conformarsi alle aspettative di genere. Un partecipante, ad esempio, ha dichiarato che “Le donne possono scegliere se fare sesso o meno. Gli uomini no”.
I mezzi di comunicazione di massa hanno poi una forte influenza nel diffondere certi stereotipi, trasmettendo molti programmi e pubblicità dominati dall’odio, dalla violenza e dal sensazionalismo. Nella televisione, e nelle serie tv crime in particolare, gli uomini appaiono tormentati, anaffettivi, alcolizzati, disposti a tutto pur di accrescere il proprio prestigio personale e avere molte donne, che al contrario vengono spesso dipinte come prede, messe all’angolo, deboli e obbedienti. Come fanno notare gli autori del libro Cinema e culture delle differenze, il corpo femminile diventa “un contenitore vuoto che aspetta di essere significato dal desiderio maschile”.
A questa rappresentazione si è sottratta Gillette, che circa un anno fa ha messo in onda uno spot contro la mascolinità tossica e la violenza sulle donne. La pubblicità, intitolata “We Believe: the Best Men Can Be”, mostra scene di violenza fra giovani, molestie e abusi nei confronti delle donne, accompagnate dalla frase “Sono solo ragazzi”. Subito dopo, a queste si sostituisce una serie di azioni positive: immagini televisive del movimento femminista #MeToo, un padre che interviene contro il bullismo, dei ragazzi che difendono le donne da commenti inappropriati. Il video ha suscitato numerose polemiche, nonché le accuse del magazine statunitense di estrema destra The New American di de-mascolinizzare gli uomini. Piers Morgan, noto giornalista britannico, ha affermato che si tratta di “un patetico assalto alla virilità”.
Quello che forse Morgan ignora è che l’ideologia virile tradizionale ha pesanti ripercussioni anche sugli uomini. Uno studio, pubblicato sulla rivista Preventive Medicine, ha concluso che i soggetti con atteggiamenti mascolini sono poco disposti a sottoporsi alle terapie di un medico di sesso femminile perché lo considerano meno competente. Ma non solo: sono più reticenti nell’ammettere di avere problemi di salute e nell’accettare l’assistenza sanitaria. Più di frequente, rispetto alle donne, assumono comportamenti a rischio come praticare sport estremi o superare i limiti di velocità. Anche per questo, oltre che per questioni biologiche, riporta l’Huffington Post, hanno una aspettativa di vita minore.
Altre indagini, invece, mettono addirittura in correlazione la mascolinità tossica con il fenomeno suicidario. Come riporta Kaggle – community online di scienziati di proprietà di Google – la maggior parte dei suicidi occorsi negli ultimi 30 anni ha riguardato il sesso maschile. Numeri che trovano conferma anche dalle indagini dell’Oms, secondo cui la frequenza dei suicidi tra i maschi è quasi il doppio che tra le femmine, nonostante queste soffrano più frequentemente di depressione e malattie mentali. Una delle cause potrebbe proprio essere legata al ruolo che, ancora oggi, gli uomini si trovano a impersonare, cioè quello classico delle società patriarcali, in cui il successo viene giudicato solo in base al lavoro svolto e alle capacità economiche accumulate. Se l’uomo è più esposto al rischio suicidario, lo sarebbe perché, come fa notare la psichiatra Silvia Ronzitti in Suicidio e genere, “àncora la propria identità in un dominio competitivo di lavoro, dove uno dei possibili risultati può essere anche il licenziamento e la perdita economica”. A sostegno di questa tesi c’è uno studio riportato dalla BBC che ha rilevato che per ogni aumento dell’1% della disoccupazione si registra un aumento dello 0,79% del tasso di suicidi. Non bisogna dimenticare, inoltre, che gli uomini dispongono di minor sostegno sociale rispetto alle donne. A differenza di queste, nutrono maggiore insofferenza nel confrontarsi con le proprie fragilità e adottano più di frequente forme di evitamento – come la droga o l’alcool – che peggiorano la situazione. Non è un caso, perciò, che tra gli uomini il consumo di alcolici e di sostanze stupefacenti sia in forte aumento.
Anche le donne sono danneggiate dai comportamenti tossici maschili. Come rivelano gli ultimi dati Istat, i casi di femminicidio, stalking e molestie sono in aumento. Una donna su tre nel corso della sua vita ha subito una qualche forma di violenza, fisica o sessuale. A questa si affianca quella psicologica ed economica, cioè comportamenti di umiliazione, svalorizzazione, nonché di privazione nell’accesso alle disponibilità economiche proprie o della famiglia subiti dal partner attuale (26,4%) o dall’ex partner (46,1%).
Questi standard di virilità non possono essere accettati ancora a lungo. Molti uomini, nel tentativo di mostrarsi all’altezza, stanno uccidendo se stessi e inquinando la vita della propria partner, dei figli e degli amici. Azioni di sensibilizzazione come quella di Gillette, di AXE, di Sangu Dalle alla conferenza TED o la più recente degli “Hombres Tejedores” – uomini cileni che, per opporsi agli stereotipi di genere, si riuniscono nelle piazze e svolgono il lavoro storicamente considerato “femminile” della tessitura – possono certamente aiutare, stimolando una discussione. Al tempo stesso, però, non si può pensare che la questione sia di così semplice risoluzione.
Un ruolo centrale, sicuramente, deve essere assunto dalla scuola. Fino a oggi, l’istruzione non si è dimostrata capace di sconfiggere i cliché di genere, ma li ha alimentati attraverso antologie sessiste e arcaiche. Ha inoltre creduto che il proprio compito fosse soltanto quello di istruire, formando giovani affetti da analfabetismo emotivo, pieni di nozioni ma con scarsa empatia e spirito critico. Un’educazione davvero efficace deve invece affiancare, ai saperi tradizionali, l’importanza dei sentimenti e della gentilezza d’animo. La scuola è dunque chiamata ad assumersi la responsabilità di educare alla sensibilità attraverso un corpo docente che, oltre a conoscere le diverse materie, sia in grado di trasmetterle con una visione evoluta, che superi gli stereotipi di genere invece che contribuire a imporli, in un età particolarmente delicata. Ma, soprattutto, la scuola deve avere la lungimiranza necessaria per capire e far capire che le discipline umanistiche, come la letteratura, l’arte o la filosofia, tutt’altro dall’essere materie inutili o vezzi culturali, servono a porci non solo degli interrogativi, ma degli interrogativi corretti, prima che a fare delle interrogazioni, parafrasando D’Avenia. Anche progetti come quello del docente dell’Università d’Urbino Paolo Ercolani, che ha istituito dei corsi sui sentimenti nei licei del Piemonte e delle Marche, possono essere utili in tal senso. Spiegare l’importanza delle emozioni, ad esempio, restituendo ai giovani il diritto alla debolezza, vorrebbe dire accompagnarli per mano verso un futuro più equilibrato.