Non è un voto universitario a stabilire chi siamo o quanto valiamo. Dobbiamo imparare a capirlo. - THE VISION

A volte può capitare che, nonostante tante giornate di studio, il voto che si ottiene a un esame non sia quello sperato. In molti casi, però, questo avvenimento non porta solo un po’ di insoddisfazione, come sarebbe comprensibile, ma fa scaturire un vero e proprio senso di inadeguatezza, perché ci hanno insegnato a essere perfetti e poi perché l’università per la maggior parte degli studenti ha oggi un peso maggiore di tutti gli altri ambiti della loro esistenza. Questa è la società delle persone che vivono in una costante situazione di disagio e di competizione, creata da forze più grandi di loro che gli fanno credere che l’università venga prima del resto – addirittura prima della propria salute mentale.

Sui social, così come è sempre stato nella realtà, nascono spesso discussioni tra gli utenti in merito al valore di certi voti, magari in relazione al carico di studio. È “giusto” rifiutare un 28? Magari ritardando così il procedere del percorso? È più importante la media dei voti o il tempo che si consuma per ottenerla? Per il sistema, ormai da diversi anni, a differenza di un tempo, sono importanti entrambi, col risultato che gli studenti vivono con un perenne senso di pressione, alimentata anche dalle notizie sui giovani che si riescono a laureare prima del tempo facendo sempre più esami possibili. Queste narrazioni, però, pesano tra gli altri studenti che si sentono ancora più  pressati dalla necessità di concludere il loro percorso formativo al più presto possibile, quasi fosse una lotta alla sopravvivenza.

Le pubblicità che vediamo sono il chiaro esempio di come il sistema metta in risalto più i voti e il successo e meno gli studenti intesi come esseri umani composti da tante diverse caratteristiche e passioni. Pubblicità sulla falsa riga di “Davide prende due lauree contemporaneamente con il massimo dei voti” contribuiscono a porre standard irreali e basta mettersi nei panni di una persona un po’ più fragile, sensibile, o meno competitiva, per capire l’impatto che può avere questo tipo di narrazione e quanto possa danneggiare la salute mentale di una persona che per molte diverse ragioni non si sente all’altezza delle aspettative.

La paura del non laurearsi in tempo, di non avere il massimo dei voti su un pezzo di carta, di vedere un genitore deluso. Ma a volte il successo universitario non è tutto, soprattutto se è la propria salute mentale a farne le spese, come spesso accade. Inerente alla paura del non laurearsi in tempo c’è poi un’altro problema: l’essere fuori corso. Questo perché anche se sei fuori corso per la società sei un fallito. Essere fuori corso oggi, infatti, significa perdere lo status di studente e dover pagare molte più tasse. Purtroppo, la retta universitaria per gli studenti fuori corso può aumentare addirittura del 50% rispetto agli studenti che invece sono ancora in regola con gli esami. La legge in Italia stabilisce poi che per ogni anno fuori corso, a partire dal secondo per le triennali e dal terzo per le magistrali, si debba pagare una mora annuale. La maggiorazione può anche essere legata al reddito ISEE e proporzionata al reddito. L’ammontare della quota aggiuntiva da pagare va generalmente dai 100 ai 200-250 euro all’anno e corrisponde a una quota che va dal 10% al 50% delle tasse universitarie. È così che lo studio inizia a diventare una sfida sempre più difficile per chiunque voglia continuare il proprio percorso, ma che per diversi motivi – non sempre riconducibili alla sua volontà – si trovi in questa condizione sfavorevole.

L’universitario può essere una persona che a fine mese deve pagare l’affitto, e se finisce fuori corso, dovrà pagare molte più spese finendo in un baratro di ansia e sconfitta, che probabilmente gli farà perdere anche la voglia e l’energia necessaria per terminare gli studi. L’universitario, poi, può essere una persona che vive con i genitori, che sostengono le sue spese, e che quindi si ritroverà a sentirsi in colpa per qualcosa che ormai il sistema ha deciso funzionare così, penalizzando economicamente chi non è riuscito a stare al passo. Le motivazioni dello stress universitario poi sono spesso legate anche a famiglie difficili, che non accettano i fallimenti o le peculiarità dei propri figli. Se a tanti fattori si aggiunge anche una vita affettiva instabile, stress per gli esami, difficoltà a integrarsi, bullismo da parte di altri studenti e stress economico è comprensibile che per alcuni la capacità di concentrarsi sullo studio venga profondamente minata, con il successivo abbandono.

Almeno uno studente su dieci, infatti, abbandona gli studi prima della laurea. Per quanto riguarda i tassi di abbandono dell’università, variano in misura considerevole passando da una media del 15% al Sud al 9,6% nel Nord-Est. Se facciamo un confronto con gli altri Paesi europei, poi, vediamo come l’italia debba effettivamente intervenire per colmare il divario del numero degli studenti universitari: in Europa gli studenti universitari sono complessivamente 17,5 milioni, con la Germania che vanta un 17,9% di laureati, seguita dalla Francia (15%) e dalla Spagna (11,7%). L’Italia e la Polonia, invece, sono in fondo alle classifiche europee con percentuali del 10,8% e dell’8,5%. Questo dato è influenzato anche dal fatto che in italia i laureati faticano a trovare lavoro.

Questa cosa però viene vista dalla società come un fallimento, anche quando presa lucidamente e quando magari rappresenta la scelta migliore da prendere per il proprio benessere o il proprio futuro. L’università dovrebbe essere uno dei tanti modelli di istruzione e uno dei tanti possibili ambiti di cui si compone la nostra vita, ma per molti diventa una parte di sé o finisce per mangiarsi vivi i più fragili. Le ricadute sul futuro lavorativo, in questa fase formativa, vengono percepite con più chiarezza e urgenza, cosa che porta a un aumento della pressione rispetto ai risultati che si ottengono, a fronte di un mercato del lavoro sempre più saturo. Aumenta poi l’ansia di non sapere cosa fare dopo, di non sapere se quella intrapresa sia effettivamente la strada giusta o migliore. A volte ci troviamo di fronte a studenti che hanno scelto la strada universitaria solo perché spinti dalle convinzioni e dalle pressioni degli altri, in primis dagli stessi genitori. Ma le idee cambiano, così come i gusti e i punti di vista. Il problema è che nell’attuale società cambiare idea non viene visto in maniera positiva come una presa di coscienza ma come una macchia, un fallimento. Se all’inizio volevi diventare medico e intrapresi gli studi di medicina decidi che il percorso non fa per te, però, non sei per forza di cose un fallito, o un indeciso, ma, anzi, una persona che forse è sulla strada per trovare o ritrovare se stessa.

L’università vissuta con questo portato d’ansia, però, può portare a situazioni drammatiche. È il caso di uno studente di Pavia, iscritto a medicina in lingua inglese, che a luglio si è suicidato per paura di perdere una borsa di studio, o del recente caso, a Bologna, di uno studente fuorisede di origini abruzzesi che si è tolto la vita nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, gettandosi dal Pontelungo. Il ragazzo aveva detto a tutti di doversi laureare in quei giorni, ma gli accertamenti hanno dimostrato che in realtà era ancora molto indietro nel suo percorso di studi. Sempre a Bologna, un anno fa, un altro studente fuorisede, di 29 anni, si era tolto la vita poco prima della presunta cerimonia di laurea, lanciandosi dal ponte di Stalingrado, ancora a causa della vergogna per aver mentito riguardo al suo percorso accademico. Impossibile non pensare al romanzo di Emmanuel Carrère, L’avversario, dove l’autore racconta la storia di Jean-Claude Romand, che arrivò a macchiarsi di molti delitti dopo aver mentito a tutti per diciassette anni, affermando di essersi laureato in medicina e di lavorare come ricercatore per le Nazioni Unite a Ginevra, quando in realtà aveva interrotto i suoi studi al secondo anno, non avendo mai sostenuto l’esame necessario per accedere all’anno successivo. Anche in questo caso, i suoi comportamenti, sempre più violenti (contro gli altri ma stranamente non contro se stesso), furono attribuiti al desiderio di evitare la vergogna che sarebbe derivata dalla scoperta delle sue sempre più grandi bugie.

I dati ISTAT del 2021 tratteggiano uno scenario tragico e diffuso, con 500 suicidi compiuti in un anno da under 34, e 200 da giovani under 24, e il fallimento scolastico – insieme al bullismo – sembra essere tra le cause principali. Negli atenei italiani si sviluppano livelli di depressione e ansia decisamente alti, che spesso portano a gesti estremi. Eppure non se ne parla quasi mai e soprattutto non vengono presi provvedimenti a livello istituzionale, mentre in parallelo si continua a nutrire una narrazione distorta della meritocrazia. La struttura e l’organizzazione dei nostri atenei, infatti, non è assolutamente in linea con quello che dovrebbe essere il diritto allo studio. Questo diritto è spesso troppo teorico e in molti casi finisce per essere solo una parola senza reale significato. I manager didattici spesso non sono figure che indirizzano gli studenti, ma controllori di un sistema sempre più escludente, così tanti giovani si trovano disorientati senza sapere a chi chiedere consiglio o aiuto. Spesso i docenti contribuiscono a nutrire un’atmosfera tossica e profondamente triggerante, con comportamenti e approcci umilianti e irrispettosi. Ancora più disinteressate sono le segreterie universitarie, che non rispondono spesso alle domande poste dagli studenti, così come molti professori alle e-mail, e risultano spesso infastidite da tali domande, o non trattano gli studenti con rispetto e professionalità.

Purtroppo, per far fronte a questa situazione diffusa, non si sta facendo quasi nulla. Sul piano della salute mentale degli studenti, infatti, l’Italia è molto indietro. Nei Paesi anglosassoni lo studente è posto per certi aspetti al vertice del sistema universitario, mentre nelle facoltà italiane spesso non ci sono nemmeno centri di sostegno. Nella maggior parte dei casi non vengono offerti supporti psicologici all’interno dell’ateneo e non si sensibilizzano gli studenti rispetto alla possibilità di chiedere aiuto, rivolgendosi a spazi dedicati. Che comunque, in molti, senza programmi di sostegno, non potrebbero né permetterseli né chiedere ai propri genitori ulteriore denaro. Così si ritrovano soli, completamente abbandonati insieme alla loro ansia di soddisfare i diktat della società nella quale devono inserirsi.

Bisognerebbe spingere le nostre strutture accademiche a concentrarsi di più sugli studenti, intesi come persone a tutto tondo, e non solo sulle pratiche burocratiche, sensibilizzando anche i docenti a riguardo. È necessario offrire ammortizzatori sociali per gli studenti che incontrano delle difficoltà nel loro percorso e far sì che i trigger psicologici siano ridotti al minimo. Spesso, infatti, chi ricopre ruoli al vertice della gerarchia accademica, anche senza farlo apposta, attua comportamenti e dice cose che danneggiano le nuove generazioni molto più di quanto si possa pensare. Bisognerebbe sensibilizzare i professori a non infondere ansia, a non incutere timore, a non nutrire una competizione sfrenata e ad aiutare gli studenti in difficoltà, magari proprio quelli che non sembrano più avere voglia di andare avanti.

Dobbiamo sensibilizzare i media e il marketing a non trasmettere più il messaggio dell’università intesa come gara, come lotta per ottenere un posto nel mondo. È importante insegnare ai ragazzi sin da piccoli a capire l’importanza della salute mentale. Insegnare loro quanto un voto basso non sia sinonimo di vergogna o fallimento, ma di possibile crescita e sviluppo delle proprie conoscenze. Ma soprattutto che quel voto non ci rappresenta come persone e soprattutto non quantifica il nostro valore di esseri umani, perché frutto di un sistema che tutto è fuorché assoluto. Bisognerebbe sondare la salute mentale degli studenti iscritti, chiedendo loro come stanno, come si sentono e soprattutto se sentono il percorso intrapreso vicino ai loro desideri. Questo si potrebbe fare, per iniziare, anche con semplici questionari, simili a quelli che da anni vengono usati per valutare strutture e corsi di insegnamento. Sarebbe già qualcosa. L’università esiste grazie agli studenti che ci si iscrivono e che la popolano. È assurdo quindi che siano trattati in questo modo. I giovani spesso non si sentono ascoltati e capiti, e in questo anche l’informazione ci può aiutare. Anche perché è un sentimento che si riscontra sia tra chi ottiene ottimi risultati sia tra chi abbandona.

Lo studio dovrebbe liberare dall’ignoranza, ma i voti ci intrappolano. Non siamo un 18 o un 23, e nemmeno un 26 o un 30. Siamo studenti che vogliono studiare per conoscere e non per farsi la guerra calpestandosi a vicenda per avere un 110 e lode sul curriculum, che spesso peraltro non serve a niente. Se ti senti un impiastro perché hai una media bassa sappi che il problema non sei tu, ma il sistema che te lo ha fatto credere. In ogni caso, a prescindere da pagelle e libretti, domani sarai tu l’artefice del tuo futuro e del tuo successo, non i tuoi voti – a meno che tu non sia diventato così masochista da voler accedere a tutti i costi a un dottorato, magari senza borsa di studio, ma questa è un’altra storia.

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