Lo scorso martedì 15 giugno, l’Assemblea nazionale ungherese ha approvato una legge contro la “propaganda LGBTQ+” che vieta qualunque “promozione dell’omosessualità”. Promossa dal partito Fidesz del primo ministro Viktor Orbán, la legge ha ottenuto 157 voti a favore e 1 contrario, ed è passata nonostante il tentativo di boicottaggio dell’opposizione grazie al sostegno del partito di estrema destra Jobbik. Le norme costituenti prevedono che tutti i contenuti diffusi dai media che “propagandano o ritraggono l’omosessualità” siano mostrati solo alle persone maggiorenni, così come gli spot pubblicitari che parlano di “cambio di genere” o “rassegnazione del sesso”. Questi potranno inoltre essere trasmessi solamente dalle 22 alle 5 del mattino. La visione di film come Bridget Jones e Harry Potter o di serie tv come Friends sarà vietata ai minori di 18 anni, mentre alcuni libri saranno messi al bando. Già lo scorso gennaio il governo aveva costretto l’associazione queer Labrisz a inserire su un’antologia di favole, contenente anche stories LGBTQ+, un disclaimer che specificasse che il libro conteneva “comportamenti incoerenti con i tradizionali ruoli di genere” per “proteggere i consumatori”. La misura appena adottata istituisce poi un elenco di tutte le realtà che potranno organizzare ed eseguire corsi di educazione nelle scuole. Tra i criteri di idoneità ci sono l’aderenza all’identità costituzionale ungherese e ai valori cristiani.
La legge fa parte di un disegno più grande finalizzato alla criminalizzazione della pedofilia, e l’inserimento della norma anti LGBTQ+ ha sollevato molte critiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani, che vedono nel tentativo di Orbán di collegare identità di genere, orientamento sessuale e pedofilia, una strategia per acquisire più voti in vista delle elezioni generali del 2022. Il primo ministro ungherese ha infatti da tempo allineato la propria campagna elettorale alla prassi sovranista di individuare un capro espiatorio e, dopo aver attaccato i migranti, è passato all’attacco della comunità LGBTQ+, presentandosi come il difensore dei valori cristiani. Quest’immagine è però stata minata da alcuni recenti fatti di cronaca: l’ambasciatore ungherese in Perù Gábor Kaleta è stato sollevato dal proprio incarico per possesso di materiale pedopornografico; Zsolt Borkai, sindaco eletto nel partito Fidesz, si è ritrovato coinvolto in uno scandalo sessuale dopo la diffusione di un video che lo ritraeva durante un’orgia su uno yacht; l’eurodeputato ungherese József Szájer, fedelissimo di Orbán, è andato incontro a una sorte simile, essendo stato scoperto mentre lasciava un’orgia con altri ventiquattro uomini a Bruxelles.
Prima dell’approvazione, centinaia di persone hanno manifestato con bandiere arcobaleno davanti alla sede dell’Assemblea nazionale per protestare contro la violazione dei diritti umani che da tempo viene portata avanti nel Paese. La legge arriva infatti dopo la proposta di legge presentata a fine 2020 della ministra della Giustizia Judit Varga che vieta l’adozione alle coppie delle stesso sesso, consentendola solamente a quelle eterosessuali e ai single che riescono a ottenere un permesso speciale, e l’approvazione del divieto di riconoscimento legale delle persone trans e intersex, con valore anche retroattivo. Inoltre, il governo di Orbán aveva presentato nei mesi scorsi una modifica alla Costituzione secondo cui i bambini devono essere cresciuti seguendo “valori cristiani” e l’unica forma di famiglia esistente è quella “fondata sul matrimonio e sul rapporto tra genitori e figli, dove il padre è un uomo e la madre è una donna”.
Rispondendo alle critiche mosse dalle ong, il primo ministro ha scritto sul proprio sito che l’attuale campagna contro l’Ungheria è la dimostrazione di come la sinistra sia nemica della libertà di espressione “perché invece della libertà di parola, impone il politicamente corretto e il pensiero unico contro il pluralismo delle idee” e ha aggiunto che la libertà ungherese si concretizza anche nella difesa della famiglia e nel diritto di poter educare i bambini come si crede. “Il messaggio di questa nuova legge è chiaro: al governo non interessano i cittadini LGBTQ+ ed è vergognosamente disposto a sfruttarli per il proprio tornaconto politico”, ha commentato a The Vision Borbála Forrai, portavoce di Háttér Society, la più antica organizzazione LGBTQ+ ungherese. “Anche a costo di sacrificare i bambini più vulnerabili, perché questa misura è loro che ferisce di più. Vieta esattamente quei programmi educativi e quei corsi di formazione che potrebbero contrastare il pregiudizio e il bullismo, e supportare la salute mentale, il senso di identità e l’autostima dei più piccoli”.
Come ci spiega Matteo Winkler, professore associato e chair del comitato diversity di HEC Paris, la legge adottata dall’Ungheria si inserisce nel solco delle cosiddette leggi “no promo homo” o “don’t say gay”, spesso adottate più che dal Parlamento dalle amministrazioni locali negli Stati Uniti e in Inghilterra (come la famigerata Section 28 del Local Government Act del 1988), che vietano la “promozione dell’omosessualità”. Nella versione più recente, tali leggi, spiega Winkler, “concepiscono la tutela dei diritti umani come vera e propria limitazione della sovranità”. In particolar modo, quella di Orbán “è la prima vera legge anti-LGBTQ+ adottata da un Paese europeo, simile a quella federale firmata da Putin nel 2013”. Riguardo alla legittimità di questa legge, in contrasto coi valori dell’Unione Europea, Winkler richiama il caso “Bayev and others vs. Russia”: tra il 2006 e il 2008, la Duma regionale di Rayazan aveva adottato la “legge sulla protezione della moralità dei bambini” e quella “sui reati amministrativi”, che vietavano le attività volte a promuovere l’omosessualità. Contro tali disposizioni avevano manifestato in momenti differenti tre attivisti, con striscioni come “l’omosessualità è normale” e “sono fiero di essere omosessuale”; manifestazioni che hanno portato all’arresto dei tre e alla condanna al pagamento di un’ammenda. Valutando il ricorso promosso da tali attivisti, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che con quelle leggi la Russia aveva violato il diritto alla libertà di espressione e il divieto di discriminazione, respingendo le affermazioni del governo secondo cui le disposizioni legislative erano giustificate per proteggere la morale, la salute e i diritti degli altri, in particolare dei minori.
Nonostante questo precedente, la Commissione europea non è ancora intervenuta con la prontezza che ci si aspetterebbe nei riguardi della legge ungherese. Durante la conferenza stampa tenutasi il giorno dopo, il portavoce Christian Wigand ha dichiarato di non poter commentare la misura legislativa perché in fase di analisi, volta a capire in che modo violi i valori fondativi dell’Unione. Una posizione mantenuta anche dalla presidente Ursula von der Leyen 48 ore dopo. Eppure, come dimostra un articolo pubblicato sullo European Journal of Criminology, le conseguenze delle leggi anti-LGBTQ+ non provocano solo una stigmatizzazione astratta, ma interferiscono realmente nella vita delle persone appartenenti alla comunità. In questo caso, per esempio, con l’aumento del numero di aggressioni. Uno studio portato avanti dall’ente educativo americano GLSEN sull’impatto delle no promo homo laws adottate a partire dagli anni Settanta negli Stati Uniti, ha evidenziato come gli studenti LGBTQ+ che vivono in Stati con leggi stigmatizzanti ricevono meno sostegno a scuola, sia da parte di educatori che di altri studenti, e hanno meno accesso ai servizi sanitari scolastici pertinenti. Se si impedisce qualsiasi rappresentazione delle persone LGBTQ+, queste finiscono per sentirsi invisibili, incapaci di apprendere informazioni su se stesse e sulla propria comunità, e finiscono per sentirsi frustrate, stigmatizzate e far fatica ad accettarsi.
Attualmente, in Ungheria, secondo un sondaggio dell’Eurobarometro del 2019, il 53% delle persone ungheresi si trova in disaccordo con l’affermazione che non vi sia “nulla di sbagliato nelle relazioni tra persone dello stesso stesso”, mentre il 46% non ritiene che chi appartiene alla comunità LGBTQ+ debba avere gli stessi diritti degli altri. Da un report della European union agency for fundamental rights emerge poi che il 72% delle persone LGBTQ+ evita di tenere per mano pubblicamente il proprio partner, il 40% non frequenta determinate zone per paura di essere aggredito mentre il 49% ha subito discriminazioni. “Ciò che sta accadendo colpisce la comunità in due modi: da un lato sussiste l’effettiva perdita dei diritti – di adottare, identificarsi legalmente nel genere d’elezione e ora di imparare la ricchezza dei diversi orientamenti sessuali e identità di genere”, aggiunge Forrai. “Dall’altro c’è la campagna d’odio portata avanti dal governo, finanziata pubblicamente, che crea un ambiente ostile per la comunità LGBTQ+: sempre più persone soffrono di depressione o tentano il suicidio, anche a causa dell’aumento delle aggressioni verbali, mentre in molte stanno emigrando e lasciando il Paese”. Orbán non è il solo in Europa: in Polonia il partito di estrema destra PiS prosegue nell’attacco ai diritti umani, dopo l’istituzione delle free LGBTQ+ zones e l’entrata in vigore del divieto di aborto anche in caso di gravi malformazioni del feto.
Purtroppo, pur avendo definito l’Europa come una zona di libertà per le persone LGBTQ+, in contrasto con la realtà polacca, tutte le possibili iniziative adottabili dalla Commissione europea prevedono limiti o tempistiche troppo lunghe, come portare davanti alla Corte i Paesi in oggetto. Persino l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, con cui è possibile sospendere alcuni diritti, come quello di voto, di determinate nazioni nel momento in cui si accerta che queste violino apertamente i valori dell’Unione europea, richiede una unanimità difficile da raggiungere. L’auspicio, oltre alla richiesta che il governo ungherese ritiri la legge, è che si sviluppino nuovi interventi che agevolino l’applicazione e la tutela dei diritti democratici su cui si fonda l’Unione.
Ciò che accade in Ungheria non deve apparire come qualcosa di lontano dalla realtà italiana, per quel principio di prossimità per cui le violazioni dei diritti fondamentali ci colpiscono solo quando ci coinvolgono direttamente o sono condivise da personaggi famosi o influencer, perché la sua eco riverbera fino a noi. Mentre l’approvazione della legge contro l’omolesbobitransfobia, la misoginia e l’abilismo continua a essere ostacolata al Senato e l’Italia resta uno dei 7 Paesi su 24 a non garantire corsi di educazione sessuale, a inizio aprile il leader della Lega Matteo Salvini ha incontrato Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki, primo ministro della Polonia e rappresentante del partito Diritto e giustizia (PiS), per celebrare la loro alleanza e “costruire qualcosa di longevo”, creando un gruppo al Parlamento europeo che possa dare vita a un nuovo “rinascimento europeo” fondato su valori conservativi. Le stesse parole di Orbán sul fascismo della sinistra richiamano frasi che ci stiamo abituando ad ascoltare troppo facilmente, per esempio nei confronti del ddl Zan, dove si rimarca la necessità di “lasciare in pace i bambini”. Nel mese del Pride, questi avvenimenti ci ricordano che non è ora di smettere di lottare per i diritti della comunità LGBTQ+, né per l’Italia né per il resto d’Europa.