Sono sempre stata affascinata dagli sforzi che l’essere umano, in ogni epoca e luogo del mondo, ha fatto per costruire un’immagine tangibile del suo universo psicologico, dandogli forma e consistenza. È un automatismo che viene molto prima di qualsiasi razionalizzazione: tendiamo ad associare i nostri stati d’animo a elementi concreti della realtà, che ci sembra di poter maneggiare meglio – belve, combinazioni di colori, o parti del corpo per esempio. Lo facciamo per imparare a conoscere noi stessi, ma soprattutto perché cerchiamo di esprimere in maniera più vivida e chiara ciò che sentiamo. Se dovessi tracciare un mio personale bestiario dei sentimenti, non avrei dubbi sul fatto che la rabbia scatenatasi in Iran per la morte di Masha Amini corrisponda a un ruggito. I meccanismi della paura e del sospetto che culminano in episodi di discriminazione nei confronti delle minoranze si fanno strada nella nostra mente strisciando come serpenti. Il nervosismo che provo quando l’operatore di un call center, dopo minuti interminabili di chiamata, mi rimbalza all’ennesima lista d’attesa, invece, assomiglia più a un’infestazione di blatte.
Anche se preferiremmo essere dominati soltanto da emozioni positive o al limite tragiche – i leoni, per intenderci, che si battono con coraggio, protestano, sono simbolo della traduzione della forza in azioni concrete a favore degli altri – i meccanismi del capitalismo contemporaneo ci hanno abituato sempre di più a essere abitati da scarafaggi, vere e proprie tossine psichiche – come stress, irritazione, frustrazione, gelosia e invidia – che pur essendo altrettanto aggressive (al pari della rabbia) e potenzialmente deleterie per il nostro benessere, finiscono per logorarci in segreto. La filosofa sociale statunitense Sianne Ngai ha parlato di “ugly feelings” nel suo omonimo saggio del 2007: sentimenti che non sono motivati da accadimenti particolarmente terribili o scandalosi, ma da malfunzionamenti sistematici del nostro ambiente, che covano a lungo e a bassa intensità senza mai esplodere in una reazione, perché rischierebbero di far sembrare chi li prova una persona estremamente suscettibile, o comunque fragile. E in effetti molti di noi farebbero fatica a pensare qualcosa di diverso di fronte a qualcuno che scoppia a piangere fronte alla lentezza delle casse automatiche al supermercato, o all’ennesimo crash del sito di Trenitalia mentre sta cercando di selezionare l’orario di un biglietto. In realtà, probabilmente è successo a tutti di perdere la pazienza e dar libero sfogo alle nostre emozioni, sopraffatti da uno sconforto che forse è secondo solo a quello provato sul sito dell’università e dell’Inps, quando persi tra i loro gironi, la prospettiva di uscirne in tempi ragionevoli e con qualcosa di risolto o ottenuto sembra irrealizzabile – e per nessuna valida o logica ragione. La capacità di erosione di queste emozioni implosive rappresenta un elemento di disturbo che si insinua nello scorrere ordinario degli eventi e ci spinge a domandarci come mai quel fastidio ci risulti così insopportabile, a controllare che cosa sia rimasto inceppato nella relazione che abbiamo con il mondo, tanto da non farla fluire come vorremmo, e quindi a tentare di disincastrarlo.
Gli ugly feelings sono sentimenti che ci mettono inevitabilmente di fronte alla nostra fallibilità, e sono sicura non sia mai piaciuto a nessuno provarli, ma è più forte di noi, accade e basta. Negli anni recenti, però, mi pare che essi si siano come aggravati, facendosi più pervasivi e in un certo senso ancor più dolorosi, perché pur essendo parte integrante della nostra vita, ciascuno li percepisce ed esprime come un’esperienza esclusiva, soltanto sua, che quindi non entra mai a far parte del discorso sociale e politico. A causa del superomismo postmoderno della società della performance, che ha imposto un ordine gerarchico anche al nostro spettro emotivo e applicato uno stretto negazionismo a ogni declinazione della nostra vulnerabilità, continuiamo infatti a trattare queste sensazioni come cortocircuiti personali, appendici da nascondere. La mia impressione è che, dovendo rapportarci continuamente ad altri eventi ed emozioni molto più violente, finiamo per accusare la sproporzione tra le cause microscopiche che generano gli ugly feelings, e la sofferenza che essi ci provocano, reputandola eccessiva e identificandola con una nostra intima debolezza – quando invece, a spossarci, non è tanto l’entità dell’avvenimento, quanto la costanza con cui il sistema ci costringe ad affrontare questi atomi di frustrazione. Così, lasciandoli lavorare per accumulazione, la “sindrome da stress esistenziale” che ha invaso il nostro presente continua ad auto-alimentarsi, con conseguenze sempre più allarmanti per la nostra salute mentale.
I motivi per cui tendiamo a fare di questi sentimenti una questione solo personale, sono radicati nel contesto sociale in cui ci muoviamo. Da un lato, essi non rientrano nell’uso strumentale che abbiamo imparato a fare delle emozioni. Penso all’angoscia che scaturisce dal nostro voyeurismo social, all’ossessione di collezionare match su Tinder, o allo spaesamento che può capitarci di provare mentre attraversiamo quella sorta di worm-hole che è la soglia della vita adulta. Tutte queste esperienze disturbanti non sono comunque abbastanza potenti da arrivare a costruirci attorno l’epos con cui vorremo raccontarci e soprattutto non permettono di accreditarci come interessanti agli occhi degli altri, dato che il palinsesto delle nostre vite, per essere apprezzato dal suo pubblico, deve contenere almeno qualche trauma esasperato da piazzare al punto giusto, come con le stragi pulp e gli spargimenti di vernice vermiglia che completano il climax narrativo dei film di Tarantino.
Dall’altro lato, invece, il trattamento riservato agli ugly feelings riflette una delle storture più nocive del nostro tempo, in cui come ha scritto il sociologo tedesco Ulrich Beck nel suo saggio La società del rischio del 1986, siamo spinti a cercare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche” – anche se, come specifica lui stesso, trovare un’azione del singolo che lo metta al riparo dalle insidie di un intero orizzonte sociale è impossibile. In un contesto sempre più individualista, ci siamo abituati a cercare strategie di sopravvivenza e/o “terapie” che ci curino, sciogliendo i nostri nodi, a partire da ciò che sentiamo di poter controllare con più facilità, ovvero noi stessi, ed escludendo progressivamente le varie componenti della realtà esterna, perché essa sembra essere del tutto fuori dalla nostra portata. L’atmosfera collettiva di malessere viene così frantumata in pezzi sempre più piccoli e resa irriconoscibile, perché rimessa all’onere del singolo e ridotta all’ennesimo processo di medicalizzazione della nostra esperienza – in un’impasse che, spesso, coinvolge l’intera prospettiva in cui viene inquadrata la salute mentale. Questo atteggiamento, secondo Ngai, contribuisce a sigillare gli ugly feelings nel soggetto, togliendo loro lo status di “emozioni” per trasformarli in “infezioni”. L’unica differenza che rimane tra i due termini a quel punto riguarda per l’autrice il loro potere di contagio, che continuiamo a non attribuire a certi nostri sentimenti, ignorando il modo in cui si propagano tra chi ci circonda, la loro diffusione e soprattutto le possibilità di riconoscerli in qualcun altro e/o condividerli.
Leggendo Ngai, mi sono resa conto che è proprio il modo in cui guardiamo a questi stati d’animo, a distoglierci da un fraintendimento che invece sta a monte. A forza di tenere lo sguardo fisso su ciò che c’è da risolvere dentro noi stessi, infatti, abbiamo perso di vista tutto ciò che succede tra noi: non dentro il soggetto quindi, ma nella relazione che questo ha con la realtà in cui è immerso, e che quando non funziona, scatena tutte le frustrazioni di cui vorremmo liberarci. Questo punto di vista affonda nella dimensione del “rodimento”, del confronto con un sentimento negativo e prolungato, che crea una resistenza di cui non possiamo non accorgerci. Certe sensazioni spiacevoli, infatti, rappresentano il corrispettivo emozionale dell’attrito, e pur non permettendoci di agire, ci portano a rimuginare e riflettere sul nostro malessere, ripercorrendolo fino in fondo per andare a cercare le sue vere cause, che spesso non sono quelle che pensavamo. Non si tratta di scoperte immediate, ma di pensieri che prudono, prolungandosi a lungo, e generando un’interferenza.
Prendersi del tempo per riconsiderare i termini del problema o della relazione in cui siamo coinvolti può avere un forte valore politico – anche se indiretto di “critical productivity”, come la definisce Ngai, dunque indirizzato a fare buone “diagnosi”. Le invidie, angosce e insicurezze che abbiamo sempre reputato minori, nel momento in cui ci diamo la possibilità di ascoltarle, creano infatti un’apertura nel flusso di emozioni e stimoli a cui siamo costantemente sottoposti, costringendoci a un’interrogazione sistematica sul loro status oggettivo o soggettivo, sulle ragioni non individuali, ma sociali, che le determinano. Così, dietro alla FOMO, riemerge la performatività che ci è stata imposta anche nelle relazioni affettive; sotto alla fatica di usare le app di dating, compare l’ossessione sociale di piacere agli altri; e tra le inquietudini che ci attraversano quando pensiamo alla vita adulta, scopriamo un contesto che non ci ha dato gli strumenti per credere davvero nei desideri che formuliamo – in un nuovo quadro che ci permette di ricomporre la sproporzione tra cause ed effetti, per cui ci eravamo sentiti tanto fragili e inadeguati, quasi “malati”.
In quest’epoca di “stati nervosi”, dove da una parte le nostre emozioni vengono nutrite intensivamente per diventare materiale da content virali o combustibile per certa politica della diffidenza, ma dall’altra non sembrano più essere abbastanza incisive per bucare la dimensione introspettiva e tradursi in azione, è fondamentale aprire lo spazio che serve per ascoltarle, esplorarle, distinguerle, anche quando saremmo tentati di considerarle come dettagli da niente. Nella frustrazione che proviamo quando ci sembra di non poter fare nulla in prima persona, infatti, possiamo iniziare a scorgere un sentimento collettivo, e ristrutturare le nostre possibilità d’azione, perché esse non sono più soltanto nostre, ma di tutti. Il mio stesso nervosismo nei confronti dell’operatore del call center, in fondo, è qualcosa che riguarda probabilmente da vicino anche lui, altrettanto sconfortato all’altro capo del telefono, perché impotente di fronte alle mie richieste: ciò che ci accomuna è la sfiducia in un sistema che sembra troppo esteso, intricato e sbrigativo per rispondere davvero alle nostre esigenze e aspirazioni e che può essere ridisegnato soltanto a partire da nuovi denominatori comuni, fatti di sentimenti ed esperienze che riconosciamo come condivise.