Nella mediasfera italiana è ormai ben noto il problema della spettacolarizzazione dell’informazione nei talk show. Che si tratti di reti pubbliche o private, il format di questi programmi è sempre lo stesso: due o più ospiti, con posizioni diametralmente opposte, vengono chiamati in trasmissione a dare la propria opinione sull’argomento di attualità del giorno. Le discussioni che in genere hanno luogo durante il programma non sono particolarmente utili a informare il pubblico, dato che buona parte della comunicazione tra gli ospiti avviene sostanzialmente gridando, tuttavia, proprio questa struttura semplice e replicabile, che non necessità di particolare preparazione né da parte degli ospiti né da parte dei produttori, rende i talk perfetti per un pubblico generalista e poco attento ai dettagli.
L’idea sembra essere quella di dare allo spettatore un’arena, dove l’argomento del giorno viene decostruito aggressivamente in una sorta di rito catartico collettivo. Questo coincide però anche con un conseguente appiattimento delle competenze degli ospiti, che nella maggior parte dei casi, più che ai dati reali, fanno appello ai sentimenti più immediati e viscerali del pubblico. Se da un lato viene rapidamente raccolta una squadra di tecnici, ricercatori e specialisti, dall’altro, accanto a loro, vengono posizionati altri personaggi di più dubbia preparazione, dietro la maschera del dovere di cronaca. Così, il format – che precede la pandemia, ma che con essa ha spopolato, mostrando tutte le sue criticità – ricompensa le posizioni radicali degli ospiti dando loro maggiore spazio televisivo e fa diventare personaggi con opinioni estreme – o magari legati a fatti di cronaca singolari, come il celebre medico no-vax con il braccio in silicone – vere e proprie celebrità da invitare ciclicamente in trasmissione.
La stessa cosa sta avvenendo ora con la guerra in Ucraina, iniziata il 24 febbraio scorso. Anche in questo caso, nei giorni successivi all’invasione si è fatto a gara per trovare rapidamente esperti e opinionisti da poter chiamare a ogni puntata. Col tempo, nei salotti televisivi, si è selezionato un cast riconoscibile di nomi più o meno noti, chiamati a sostenere a spada tratta posizioni opposte e radicali. Insieme ad alcuni accademici – come ad esempio il professore della LUISS Alessandro Orsini –, si sono aggiunti personaggi di dubbia competenza e preparazione in materia, dagli ex-politici convertiti a ospiti TV, come Alessandro Di Battista, ai più generici “attivisti politici”, come Jasmine Cristallo. Tra le posizioni radicali e “fuori dal coro” si annoverano classici, come l’espansione a est della Nato e la giustificata aggressione della Russia in nome della difesa dei suoi confini nazionali, ma anche vere e proprie mistificazioni e reinterpretazioni della storia recente.
C’è, ad esempio, la posizione sostenuta dal giornalista Fulvio Grimaldi durante il programma Dimartedì, andato in onda il 15 marzo. Secondo Grimaldi, le proteste di piazza in Ucraina del 2014, la cosiddetta Euromaidan, non sarebbero state la manifestazione chiara da parte degli ucraini di volersi avvicinare all’Unione europea e ai suoi valori, ma “un colpo di stato occidentale”, che avrebbe poi insediato un regime di estrema destra. In questa narrazione, che è la stessa di Putin, l’attuale governo diventa un regime nazista che sarebbe inoltre responsabile di un vero e proprio genocidio della popolazione russofona del Donbass, tutto questo malgrado il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy sia ebreo e venga da una famiglia che è stata vittima dell’olocausto negli anni dell’occupazione tedesca. Questa tesi, sostenuta dai media governativi russi, è stata smontata da diversi osservatori internazionali indipendenti, non ultimo l’OSCE. In studio era presente anche Nona Mikhelidze, esperta di est Europa ed Eurasia presso l’Istituto Affari Internazionali. Tuttavia, malgrado le legittime obiezioni di Mikhelidze, la sua posizione e quella di Grimaldi sono state trattate come equivalenti, come, appunto, semplici opinioni.
Un altro punto di discussione che viene spesso riproposto nei talk show di queste settimane è quello secondo cui la Russia temerebbe la presenza di armi nucleari sul territorio europeo – e quindi ucraino, nel caso in cui quest’ultimo entrasse a far parte della Nato. Il professor Orsini ha usato come similitudine la crisi di Cuba del 1962 per giustificare il punto di vista del Cremlino – forse dimenticando che in quel caso però fu proprio la diplomazia da entrambe le parti a prevenire la guerra. Ciononostante, coloro che sostengono questa tesi sembrano ignorare che le cosiddette testate a corto e medio raggio – quelle che Putin stesso citava nella sua lista di condizioni alla Nato lo scorso dicembre – sono state già bandite in Europa da un accordo tra USA e URSS nel 1987. Di fatto, il numero di testate nucleari americane presenti sul territorio europeo dalla fine degli anni Ottanta a oggi è crollato. Oggi, le ultime rimaste, circa un centinaio, si trovano in Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia – ben lontane dai confini della Federazione russa – e sono dispiegabili solo via trasporto aereo. Vladimir Putin, quindi, chiede sostanzialmente la rimozione di qualcosa che non esiste, ma non è purtroppo questo il messaggio che passa durante la trasmissione, perché Putin ne esce quasi “vendicato”.
È interessante notare poi come queste istanze vengano tutte prese da mezzi di informazione e uffici stampa legati al governo russo. Malgrado, però, siano facilmente contestabili, o quantomeno sospette, sembrano comunque far presa facilmente sui mezzi d’informazione italiani. Ci sono ovviamente diversi punti di convergenza storici all’opera. Primo fra tutti, la forte influenza esercitata dal governo russo su partiti estremisti e populisti negli ultimi anni, come anche il forte sentimento antiamericano e anti-Nato che da sempre permea la sinistra italiana. Tuttavia, fake news e troll farm russe da sole non sono sufficienti a influenzare in modo così profondo il dibattito interno di una nazione. Buona parte del lavoro di diffusione di queste informazioni false avviene infatti prima di tutto nelle trasmissioni di attualità che popolano i palinsesti Rai, Mediaset e La7.
Dal punto di vista di chi dirige il talk show, la presenza di idee radicali nella trasmissione contribuisce infatti prima di tutto a tenere vivo il dibattito in studio. Per questo raramente il conduttore si prende la briga di correggere l’ospite. La conseguenza è che al pubblico passa l’idea che entrambe le opinioni siano autorevoli e supportate da esperienza in materia – malgrado una delle due sia il prodotto della propaganda del Cremlino. Il risultato è però anche un pericoloso benaltrismo, dove le ragioni della Russia, l’aggressore, vengono messe sullo stesso piano di quelle dell’Ucraina, il Paese aggredito, al punto che durante le trasmissioni si arriva a chiedere agli stessi ucraini di smettere di combattere – in modo da non aggravare la propria situazione.
Lo strano doppiopesismo italiano non è passato inosservato all’estero. Olga Tokariuk, giornalista ucraina, ha più volte denunciato prima e dopo l’escalation militare la tendenza dei media italiani nazionali a prendere le parti della Russia nel raccontare il conflitto. Tokariuk stessa, insieme ad altri professionisti ucraini che collaborano con l’Italia, ha espresso recentemente una forte frustrazione soprattutto verso le nostre televisioni, in cui troppo spesso a un giornalista ucraino viene chiesto di partecipare a dibattiti con ospiti per nulla informati, o che sembrano mancare di qualunque tipo di empatia nei confronti di chi oggi sta dalla parte dell’aggredito. Non si tratta più di una “semplice” questione di correttezza giornalistica, la nostra incapacità di raccontare in modo obiettivo il conflitto si sta trasformando in un ripugnante circo mediatico, dove persone che assistono inermi alla distruzione del loro Paese sono poi costrette a discuterne pubblicamente con individui che negano la loro stessa esperienza personale. Come se non bastasse, questo avviene con la consapevolezza che le obiezioni sollevate vengano principalmente da mezzi di informazione russa. E il tutto per amore dello share.
Questa modalità comunicativa, almeno nei confronti del conflitto in Ucraina, non sembra tuttavia essere condivisa da tutti. Ad esempio, sabato scorso è sembrato che Enrico Mentana, direttore del TG La7, lanciasse una velata critica ad alcuni colleghi e allo spazio concesso a questi personaggi in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook. Per quanto riguarda la carta stampata, invece, il primo marzo scorso Marco Da Milano, all’epoca direttore de L’Espresso, ha criticato apertamente durante una puntata della trasmissione Di Martedì il collega ed ex presidente della Rai Marcello Foa per aver riposizionato la televisione pubblica verso posizioni fortemente filoputiniane tra il 2018 e il 2021.
Dato il forte corporativismo del giornalismo italiano, che rende molto difficile criticarsi apertamente tra colleghi, è facile immaginare come mai molti professionisti si esprimano per ora in modo così cauto e indiretto. Ciononostante, potrebbero rappresentare un primo segnale di una nuova presa di coscienza nella categoria. È un peccato, però, che questa consapevolezza sia arrivata con un simile ritardo a scapito dell’informazione.