Essere madre in Italia è un'impresa a perdere - THE VISION

Il 14 maggio si è svolto l’ennesimo evento di cui evidentemente non sentivamo il bisogno: gli Stati Generali della Natalità. Ospiti di spicco erano nientemeno che persone sensibili al problema della genitorialità – e della maternità in particolar modo – persone toccate in prima persona da questa esperienza, dalle sue luci e dalle sue ombre, ovvero: Papa Francesco e Mario Draghi. L’evento promosso dal Forum per le associazioni familiari – patrocinato da Regione Lazio, Istat e Rai e sostenuto tra gli altri da Banca del Credito Cooperativo, Posteitaliane, Fondazione mediolanum onlus e Assicurazioni Generali – come obiettivo aveva la creazione di proposte concrete per invertire il trend demografico, il famoso “inverno demografico” che mette in allarme il mondo cattolico più dei White Walkers in Game of Thrones. A questi anziani signori, ma non solo, appare inspiegabile come mai le coppie non facciano più figli, anche se avere figli* è bello! La verità – vorrei dire “come in tanti sanno”, ma purtroppo non è così perché c’è un enorme non detto intorno alla genitorialità – è che avere figli* è potenzialmente bello, ma può anche rivelarsi un incubo – cosa che purtroppo a giudicare dai dati sulle violenze all’interno delle famiglie su donne e minori è tutt’altro che rara.

Papa Francesco

“Un figlio è un dono, ma è anche un bene comune, capitale umano, sociale e lavorativo. Essi sono il bene più importante che ogni generazione produce e lascia in eredità al mondo che verrà”, si legge – e si rabbrividisce. Lo Stato – così come la Chiesa, mai sazia di nuove anime da convertire – vede evidentemente nei nuovi nati l’inevitabile potenziale comune che rappresentano, e ciò emerge chiaramente dalla totale mancanza di tutele a sostegno delle madri che tradisce l’idea che il nuovo nato sia una sorta di entità a sé, un prodotto e un bene a tutti gli effetti comune, un capitale socio-economico a servizio della collettività e del Paese. Peccato che i fatti non sostengano in alcun modo questa visione (comunque discutibile): partendo dal fatto che lo Stato ha fatto e sta facendo ben poco, e comunque non abbastanza per garantire quello stesso mondo del futuro che la nostra eredità semovente dovrebbe popolare, e arrivando poi alle enormi lacune legate alla divisione delle responsabilità tra genitori, dato che la nascita, la crescita e la formazione di questo piccolo capitale umano a livello di cure ricade totalmente sulle spalle delle donne e, più in generale, a livello economico sul nucleo familiare.

Ancora oggi, infatti, nella maggior parte dei casi, per una madre crescere un figlio significa essere costretta a interrompere la propria evoluzione sociale e lavorativa, vedere crollare il proprio potere di acquisto e la propria libertà, e non avere nessuna garanzia sul suo eventuale successivo recupero. Questo fenomeno in sociologia è stato descritto dalla cosiddetta motherhood penalty (pena di maternità), lo svantaggio in termini di stipendi, presunta competenza e benefit con cui devono scontrarsi le madri lavoratrici rispetto alle donne senza figli. Alla nascita del primo figlio, infatti, i dati mostrano che il valore dello stipendio della donna precipita, per poi risalire faticosamente nei tre anni successivi, senza però tornare a raggiungere il livello precedente alla gravidanza e per riabbassarsi di nuovo verso i cinque anni. Le donne soffrono di questa penalità per un periodo compreso tra i 9 e i 15 anni dopo la prima gravidanza, anni che di solito sarebbero fondamentali per la loro affermazione nel mondo del lavoro e nella società, e che aumentano se il primo figlio nasce pochi anni dopo l’ottenimento del titolo di studio.

La soluzione più urgente al “problema” delle nascite, però, come si vede sul sito – e come da una settimana a questa parte sembra puntare la stampa nazionale (qualunque sia lo schieramento) – sembra essere l’immaginare una nuova narrazione della natalità, anzi “uno storytelling”.Da troppo tempo raccontiamo il futuro come qualcosa di angosciante e noioso. Bisogna cambiare rotta e raccontarne la bellezza,” scrivono sul sito dell’evento. Insomma, bisogna rendere l’essere genitori di nuovo allettante, desiderabile: indorare la pillola con un’importante operazione di marketing. Questa presunta “nuova narrazione”, però, è composta da una carrellata di immagini di donne bianche, curate, aderenti al canone estetico tradizionale, che sbaciucchiano o stringono al petto neonati serafici, pacati, sorridenti e beati. I papà non si vedono neanche in cartolina, perché probabilmente – non essendo previsto un impegno sulla parità dei congedi parentali – saranno al lavoro a guadagnare un lauto stipendio di cui concedere una parte, dal conto intestato esclusivamente a se stessi, alla loro moglie, magari per comprarsi qualcosa di carino da mettersi, o le lenzuola in palette agli asciugamani del bagno degli ospiti, perché come sicuramente Mario Draghi e Papa Francesco sanno sono questi i duri problemi quotidiani che le madri devono affrontare, e comunque l’armocromia è importante per il benessere psicologico.

D’altronde se devi vedere qualcosa e creare un bisogno indotto (perché evidentemente con buona pace delle teorie sugli istinti e la natura ci siamo fatte più furbe), devi far leva sulla bellezza di quel prodotto e soprattutto sulla gioia che ti porterà e senza cui non potrai mai raggiungere. Così la maternità viene inevitabilmente edulcorata, ancora una volta spacciata come realizzazione femminile e soprattutto come quell’unica cosa che ancora ti manca per essere finalmente eternamente felice. Cosa che se ci pensiamo in realtà le vecchie favole sfatano senza pietà: le madri sono sempre morte, oppure sono matrigne insoddisfatte e invidiose, incrudelite, la promessa di felicità precede sempre la nascita della prole. Per evitare che i naturali e inevitabili lati oscuri della genitorialità emergano si è operata una sistematica punizione morale verso chiunque osasse esprimere la propria esperienza reale, fatta anche di sofferenza, sconforto, rimpianto, inadeguatezza e paura. Realtà che sistematicamente ignorate e taciute sfociano poi in situazioni di profondo dolore, squilibrio, depressione, aggressività e talvolta violenza.

Le influencer che raccontano la loro maternità, almeno in Italia, lo fanno nella grande maggioranza dei casi mostrando esclusivamente l’immensa, travolgente, gioia della nascita, cosa sicuramente vera per molti casi, ma che impoverisce e in qualche modo censura la realtà, ben più critica, dura e sfaccettata. La narrazione sui social, che già di per sé porta a eliminare tutto ciò che di problematico si affaccia nella nostra vita, sul tema della maternità rischia di compiere un grave danno. Narrare le ombre e i punti critici di questa esperienza non riduce in alcun modo l’emozione di generare un figlio, aiuterebbe invece a mostrare una realtà a tutto tondo, complessa e come abbiamo visto problematica, generando una narrazione indipendente e inclusiva, capace magari di generare un dibattito costruttivo. Eppure gli stigmi sono forti. Mostrare di essere madri perfette, però, non ci metterà al sicuro né come madri né come esseri umani, e non aiuterà nemmeno le altre, anzi, rischierà facilmente di far loro sviluppare false aspettative e magari prendere decisioni fuorviate e irrimediabili.

Le donne sono state lasciate sole per decenni e assistere a eventi come Gli stati della natalità, quando a livello istituzionale non si fa nulla di concreto per sostenere la maternità, è semplicemente offensivo. Prima del boom economico, nonostante tutto le madri erano in qualche modo sostenute da una struttura famigliare e sociale reticolare, fatta di altre donne che poi si è progressivamente andata sgretolando. Come dice il famoso proverbio africano “Per crescere un bambino è necessario un intero villaggio”, al boom in poi, invece, la società si atomizzata e le madri sono state abbandonate ai propri doveri, senza però essere liberate dalla pressione sociale legata alla riproduzione.

La narrazione della madre – abbiamo avuto modo di vederlo bene sui social durante la festa della mamma – è quella della divinità, e in quanto tale la madre viene spogliata di qualsiasi debolezza e diritto umano. La madre è una donna che nell’immaginario comune passa di stato, transustanzia, diventa qualcosa a metà tra la sacrificata beata vergine Maria e una supereroina, due narrazioni assolutamente tossiche e controproducenti per tutti. Eppure gli stereotipi sono difficili da scalzare.

Assistiamo quindi a un profondo e legittimo rifiuto della maternità come affermazione della propria libertà individuale, e al tempo stesso a una vasta gamma di posizioni combattute e ben poco risolte, che creano attrito psicologico e sociale. Se infatti è vero che ci sono donne che serenamente hanno deciso di non avere figli, ce ne sono altre che invece vorrebbero averli, o li avrebbero voluti avere, ma al tempo stesso hanno ritenuto ben poco soddisfacenti le rinunce a cui sarebbero dovute andare incontro, a malincuore quindi hanno rinunciato alla maternità, e una scelta di questo tipo volenti o nolenti segna, genera irrisolto, perché è a tutti gli effetti un’ingiustizia sociale. Avere un figlio non può essere un lusso – e men che meno, con buona pace degli economisti, un investimento; così come non è un dono piovuto dal cielo.

Come si legge sul sito dell’evento, “Più natalità non vuol dire solo ‘più consumi’, ma soprattutto ‘più investimenti’ in beni materiali e relazionali. La buona riuscita degli ‘investimenti familiari’ (migliore educazione, istruzione, formazione, assistenza) genera, nei confronti dei soggetti direttamente beneficiari, ottimismo e fiducia. Pertanto, non vi può essere sviluppo economico senza nuove nascite. Per questo motivo, puntare sulla natalità non deve essere inteso come un prestito al consumo, ma come un investimento. Le nuove generazioni, infatti, sono un bene ancora più importante rispetto ai flussi economici e sociali, in quanto sono essi stessi il motore prezioso di tutta la macchina: senza di essi non potremmo mai giungere ad alcuna destinazione futura.” E ancora: “Senza bambini significa, tanto per fare degli esempi che diano concretezza alla visione, senza la necessità di biberon, di prodotti per l’infanzia, di asili, di scuole, di insegnanti, di scuole di calcio e di danza, e poi di forza lavoro per contribuire alla spesa pubblica e al pagamento delle pensioni.” 

Abbiamo il diritto alla salute, e teoricamente anche all’esprimere al meglio il nostro potenziale psico-fisico. La gravidanza è un potenziale. Se giustamente le persone trans hanno lottato per abolire l’obbligo di transizione chirurgica, in quanto vera e propria mutilazione, al tempo stesso essere costrette a scegliere di non aver figli per non dover assistere all’arresto irrimediabile della propria carriera, o a causa della mancanza dei fondi necessari per affrontare l’accudimento di un figlio senza andare incontro a importanti rinunce, da cui probabilmente scaturirebbe una profonda infelicità – è un’ingiustizia.

Seahorse: The Dad Who Gave Birth di Jeanie Finlay (2017)

Ribellarsi, in maniera più o meno conscia, al sistema e liberarsi da determinate ingiustizie di genere eliminando in toto la maternità, per molte non appare una soluzione soddisfacente. In quanto in realtà non fa cambiare in alcun modo il sistema, anzi, nel paradosso fa il suo stesso gioco, la parità intesa come efficienza. Ancora una volta l’individuo viene considerato in termini di produzione, se prima per le donne era la produzione di esseri umani, ora è la produzione di altre tipologie di plusvalore. Alla donna – così come all’uomo – non viene concesso, all’interno del nostro sistema socio-economico e produttivo, di fermarsi, o semplicemente di rallentare. Dalle domande private – e illegali – durante i colloqui, alle lettere di dimissioni fatte firmare in bianco, ai soffitti di cristallo: essere madre oggi è un investimento a perdere, e in quanto tale da un punto di vista razionale basato su pro e contro in un certo senso folle.

Il valore sociale della donna è ancora strettamente legato alla maternità, eppure il sistema economico e giuridico non lo riconosce in alcun modo. C’è una brutale schizofrenia istituzionale. Tutto, allora, finisce per giocarsi a livello individuale e intimo, con elevatissimi costi personali e sociali, senza che nessuno si assuma la responsabilità di fare qualcosa. In gioco, però, c’è un punto fondamentale della lotta femminista, che spazia dai diritti civili a quelli sociali, punto che evidentemente si continua ad affontare nel peggiore dei modi possibili. Le donne, siano esse madri o meno, restano sole. E non possiamo lasciare che questo accada, perché ne va della nostra libertà.

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