Nel 1990 la giornalista di Vanity Fair Marie Brenner ha scritto un lungo servizio su Donald Trump e la sua moglie di allora, Ivana. Trump era all’apice della sua carriera di immobiliarista e dei suoi guai legali, svicolando dal rischio di bancarotta per il suo casinò ad Atlantic City e dall’accusa di aver sottopagato duecento lavoratori polacchi come se fossero piattaforme di lancio per il successo. Trump aveva la fama di una simpatica canaglia, spaccona e spavalda, il genere di egomaniaco che conservava e incorniciava nel suo ufficio tutte le copertine delle riviste in cui era menzionato. Era un “adorabile mostro”, ambizioso fino all’assurdo, come quando telefonava ai reporter, spacciandosi per un tale John Barron, per vendere notizie di gossip inventate su di sé. La sua estrosità buffonesca, persino quando tracimava nel razzismo, si è a lungo prestata più allo scherzo che alla condanna, come si nota nelle più di trenta comparsate al David Letterman Show: Trump è un ospite spiritoso, la complicità con il presentatore tangibile, gli accenni di populismo cialtroneschi.
“Tutti pensavano fosse divertente. Ma, a un certo punto, smise di esserlo. Diventò sinistro. Perché non diceva mai la verità”. Marie Brenner lo percepì bene nell’estate del 1990, quando uno degli avvocati di Trump le confidò che il suo assistito era un sostenitore della tecnica della propaganda nazista della “grande menzogna”: ripetere più volte una bugia fino a quando le persone pensano sia vera. Di tanto in tanto, rivelò sua moglie Ivana, Trump leggeva stralci dei discorsi di Hitler, di cui teneva una copia sul comodino. Lui negò e si giustificò: a regalargli il libro era stato un suo amico ebreo, che però ebreo non era. Trump non gradì l’articolo: quando incontrò Brenner a un evento mondano, le rovesciò un bicchiere di vino sulla schiena.
Gli aneddoti di Brenner non raccontano nulla delle idee politiche del futuro Presidente degli Stati Uniti, ma dicono molto della sua personalità: l’insofferenza alle critiche della stampa, il narcisismo – patologico, secondo alcuni psichiatri –, la spudorata insincerità, l’aggressività, la megalomania immorale, tratti che si sono accentuati con il sodalizio con l’avvocato Roy Cohn, dal 1973 al 1985. È stato Cohn, ex consigliere del senatore repubblicano McCarthy – il responsabile della paranoica caccia alle streghe contro i comunisti all’inizio degli anni Cinquanta –, a insegnare al giovane Trump che, nelle difficoltà, bisogna sempre passare all’attacco, fino alle estreme conseguenze.
Sulla base della sua personalità, era dunque possibile prevedere quali caratteristiche avrebbe assunto la sua presidenza? Lo storico di area repubblicana Robert Kagan nel maggio del 2016 preconizzava l’arrivo del fascismo in America proprio studiando l’esteriorità del fenomeno trumpista: “un’aura di forza bruta e machismo, un’irrispettosità sbruffona per le sottigliezze della cultura democratica, che secondo lui hanno prodotto debolezza e incompetenza nella nazione”. Kagan osservava con preoccupazione la devozione incondizionata dei primi sostenitori del trumpismo, la stessa riservata ai capi dei movimenti fascisti. Il collante non era l’ideologia, che era anzi contraddittoria e mutevole, ma la lealtà al leader carismatico, la politica del risentimento, l’odio verso gli altri, persino verso il partito istituzionale di riferimento del proprio credo politico.
Il cuore dell’ideologia trumpista era la violenza, notava nel 2016 Ezra Klein di Vox, mettendo in fila il numero di arresti e feriti ai comizi dell’allora candidato alle primarie del Partito repubblicano. Trump si lamentava che il politicamente corretto fosse stato così interiorizzato che ormai si osava contestarlo in pubblico senza paura di essere aggrediti, e si offriva di pagare le spese legali a chi avesse allontanato a cazzotti i suoi contestatori. Le avvisaglie di una tentazione autoritaria erano quindi nell’aria, e non solo perché, secondo i politologi, la rilevazione di attitudini autoritarie in un elettore era il maggiore indicatore di un probabile sostegno a Trump come presidente.
In quel periodo, tuttavia, il più abusato metro di paragone per inquadrare la novità del trumpismo era il berlusconismo. Le somiglianze tra Trump e Berlusconi sono molte: li accomuna la storia imprenditoriale, per entrambi costellata di opacità e strascichi giudiziari, la glorificazione del proprio successo, il presentarsi come lontani dalla politica dell’establishment, lo stile decisionista, le battute sessiste, la trivialità popolaresca, l’ostentazione di un lusso spettacolare, nella vita privata e in quella pubblica, l’abilità nel dipingersi come rappresentante delle masse, pur essendone separato da un abisso di reddito, e soprattutto il consenso videocratico. Nonostante il predominio di una narrazione appiattita sull’attualità, non sono stati i social a costruire e favorire il personaggio di Donald Trump, ma la televisione, che ne ha fatto una celebrity sin dagli anni Ottanta. Una delle ragioni per cui nel 2016 Trump ha vinto le primarie del suo partito è che i grandi network avevano i conti in rosso e hanno visto nel milionario di The Apprentice che provava a licenziare la leadership repubblicana una macchina da soldi.
Tuttavia, Trump non poteva essere un Berlusconi in ritardo di vent’anni. La globalizzazione liberale era ormai invisa a tutti. La sua agenda economica era piuttosto quella dell’estrema destra europea: un protezionismo per i “dimenticati”, la revisione dei trattati di libero scambio, l’inversione dei processi di delocalizzazione della produzione, il blocco dell’immigrazione per favorire l’occupazione interna.
Il programma economico non è però mai stato il fulcro del trumpismo, per quanto molti commentatori sentissero il bisogno di sottolinearne la rottura rispetto all’establishment conservatore statunitense. Trump non ha infatti mantenuto nessuna delle promesse alla classe media, ma ha perseguito gli interessi dei ricchi, in perfetta continuità con l’ala ultra liberista del partito di cui sarebbe dovuto essere un corpo estraneo. Il taglio fiscale ai ceti più ricchi nel 2017 è stato finanziato a debito e non ha ribaltato l’appiattimento dei salari dei lavoratori statunitensi, rimasti al livello degli anni Settanta. La risposta alla crisi pandemica, tutta scaricata sui più poveri, aumentati di otto milioni nel 2020, ha infine premiato ancora una volta i 660 miliardari, che in questi mesi hanno aumentato del 38,6% il loro patrimonio netto complessivo. Intanto 70 milioni di loro concittadini hanno fatto richiesta per il sussidio di disoccupazione.
Trump ha ingannato i suoi sostenitori, eppure a novembre lo hanno ancora votato in 72 milioni. Il fatto è che non potremo mai comprendere il trumpismo guardando i dati della realtà. Trump l’ha sempre negata, modellando una realtà alternativa in cui i fatti non esistono più. Ha pronunciato circa trentamila bugie in quattro anni di presidenza, una media di venti al giorno. Nel 2011, prima di legittimare da presidente i cospirazionisti di QAnon e di accusare senza evidenze gli avversari democratici di brogli elettorali, era diventato il più conosciuto dei birthers, quelli che chiedevano che Obama esibisse il certificato di nascita per provare di essere cittadino statunitense e potesse quindi correre per la presidenza. Menzogne e teorie del complotto sono da sempre la cifra stilistica di Trump e, secondo lo storico argentino Federico Finchelstein, sono quanto lo avvicina di più ai leader bugiardi dei fascismi, che volevano “cambiare il mondo per adeguarlo alle loro bugie”.
Non potremo mai capire il trumpismo senza storicizzarlo all’interno di due lunghe traiettorie della politica statunitense. La prima è la tradizione del populismo agrario, anti-elitario, anti-intellettuale e nativista, che dall’ex segretario di Stato William Jennings Bryan, a fine Ottocento, arriva a George Wallace, il governatore segregazionista dell’Alabama. Il secondo è, invece, l’arroccamento conservatore di una parte dei repubblicani che, a partire dalla presidenza Nixon, sono diventati il partito della guerra culturale alla modernità. Il trumpismo è il punto di arrivo dell’eterno scontro tra l’idea di un nazionalismo etnico, che ciclicamente emerge, come nel 1992, quando il paleoconservatore Pat Buchanan e il Gran Maestro del Ku Klux Klan, David Duke sfidarono Bush padre alle primarie repubblicane, e l’idea di un nazionalismo civico kennediano, visto da molti conservatori come un decadente pluralismo senza un’idea di nazione alla base.
Era tutto sintetizzato nel proposito del “Make America Great Again” (“fare di nuovo l’America grande), MAGA, non una semplice suggestione nostalgica, ma uno slogan fascista in cui tutti possono ritrovarsi, dai bianchi razzisti e armati, terrorizzati di diventare una minoranza etnica nel loro Paese, al terzo dei latinos che hanno votato Trump come Caudillo antisocialista e difensore della famiglia tradizionale. La vittimizzazione di un’America percepita in declino e accerchiata da nemici ha prodotto risentimento e rabbia, fino all’assalto finale al Campidoglio del 6 gennaio, aizzato dallo stesso Presidente in una riedizione dello sgangherato putsch hitleriano di Monaco nel 1923.
Il mancato riconoscimento del trumpismo come manifestazione contemporanea fascista nasce soprattutto dall’equivoco che troppo spesso porta a cercare i tratti compiuti e riconoscibili dell’ideologia fascista (la militarizzazione, la violenza sistematica contro le opposizioni, l’asservimento dello Stato al partito), ignorandone la strategia incrementalista, che sottrae libertà un po’ alla volta, e l’adattamento mimetico ai diversi contesti nazionali. Il fascismo americano non sarà mai statalista, ma ultralibertario, e proclamerà di voler proteggere la Costituzione degli Stati Uniti, pur facendo l’opposto, proprio come pensavano gli assalitori del 6 gennaio.
Il trumpismo non è una parentesi, ma ciò che una parte degli elettori repubblicani vogliono per resistere a un Paese che non riconoscono più. L’economia non conta nulla, eclissata da questioni di cultura, identità e fede. La bugia delle elezioni fraudolente, a cui crede il 72% degli elettori repubblicani e più di cento parlamentari del loro partito, rischia di diventare, per lo storico Timothy Snyder, la versione statunitense del mito tedesco post Prima guerra mondiale della sconfitta per il tradimento degli ebrei e dei socialisti. Nel 2024 un candidato di ispirazione trumpista che aspiri al colpo di Stato potrebbe avere quello che Trump non ha avuto: una minoranza armata e organizzata su scala nazionale. Un risultato che quattro anni di ulteriori menzogne di Trump e dei suoi sostenitori possono ottenere, mettendo ancora una volta a rischio la democrazia negli Stati Uniti e, di riflesso, in tutto il resto del mondo.