Molte nostre pietanze non sono italiane. La strenua difesa dei conservatori, l’ennesimo paradosso. - THE VISION
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Quando lo sciovinismo prende posto a tavola, insinuandosi tra le pietanze e le forchette, forse è il caso di fermarsi e chiedersi di cosa si stia davvero discutendo. I nostri politici più conservatori, oggi al governo, da anni portano avanti una battaglia più che bizzarra contro l’Unione Europea: non si possono integrare nuovi ingredienti alla nostra cucina. Dunque se l’UE dà il via libera, per esempio, alla farina di grillo, il Salvini di turno sbotta come se fosse un affronto, uno schiaffo alla “cucina migliore del mondo”. Si fa fatica a trovare il nesso, visto che da Bruxelles non ci stanno ordinando di mangiare hamburger di grillo al posto degli spaghetti c’a pummarola ‘ncopp. Eppure la paura del diverso, che sia un essere umano di un altro Paese o una ricetta sconosciuta, diventa il motore di una politica incentrata sul mantenimento dello status quo e sull’allergia alle novità. Ma questo è un vistoso controsenso, perché se non avesse attinto da ricette e usi provenienti dall’esterno la cucina italiana semplicemente non esisterebbe.

Avete presente il momento in cui Salvini si lancia nei suoi elenchi, ormai diventati meme? Ecco, quando inizia a citare le nostre eccellenze, l’italica tradizione, parlando di pomodori, melanzane, grano e chissà che altro, c’è sempre una vocina dentro di me che vorrebbe dirgli: nessuno di questi alimenti è italiano. Quella che è probabilmente la nostra ricetta più famosa al mondo, ovvero la pasta al pomodoro, è l’esempio perfetto per spiegare questo fenomeno. Intorno al Seicento, a Napoli, all’epoca sotto il dominio spagnolo, vennero assemblati tre ingredienti per creare la ricetta che attualmente conosciamo: la pasta, il pomodoro e il basilico. La pasta secca la portarono in Italia, per l’esattezza in Sicilia, gli arabi in seguito alla loro invasione. Usavano essiccarla proprio per poterla conservare durante le loro traversate. In realtà, una sorta di pasta fresca esisteva già in Cina quattromila anni fa, ma era fatta con farina di miglio, e anche in Italia, al tempo dei Romani, ma non era secca. Anche il pomodoro, ovviamente, non fa parte della nostra tradizione. Arrivò sulle nostre tavole in seguito alla scoperta dell’America, soprattutto quello del Perù, ai primi del Cinquecento. Il basilico, invece, viene dalle zone più calde dell’Asia e in Italia, infatti, è sempre stato coltivato, non trovandosi selvatico. La genialità della Napoli “spagnola” ha dato vita a questo piatto composto da ingredienti stranieri. Se all’epoca ci fosse stato un Matteo Salvini, si sarebbe opposto a una xenofilia aberrante, e gli italiani avrebbero continuato a mangiare una brodaglia medievale oggi considerata invereconda.

Lo spiega bene Alberto Grandi, professore di Storia dell’alimentazione all’Università di Parma e creatore di Denominazione di origine inventata, libro e poi podcast nati per smontare certi miti culinari. Per Grandi, prima del Seicento in Italia si mangiavano “piatti pieni di spezie, i sapori non corrispondevano ai nostri gusti; dolce e salato, zucchero, pepe e cannella venivano mescolati a tonnellate in un modo che a noi non piacerebbe”. Arrivò dunque la pasta al pomodoro, ma il suo consumo fu più limitato di quanto si possa immaginare. Prima delle guerre mondiali del Novecento, la pastasciutta era popolare prevalentemente in Campania e in Sicilia. Paradossalmente veniva mangiata di più dalle comunità italiane del Nord e del Sud America. Quando il Fascismo prese il potere, a Mussolini non andava giù la moda di un piatto considerato quasi straniero e associato all’America. Inoltre, dopo la Battaglia del grano, l’intento era quello di ridurre il consumo di pasta proprio per non dover importare troppo grano duro dall’estero. Il regime mosse i suoi fili, usando anche il megafono dei futuristi, in particolare Filippo Tommaso Marinetti, che nel Manifesto della cucina futurista scrisse: “A differenza del pane e del riso, la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica. Ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”. Marinetti portò avanti la sua crociata contro la pasta, ma sarebbe poi stato beccato nel ristorante Biffi di Milano mentre mangiava spaghetti, diventando oggetto di derisione popolare. Da qui deriva il concetto di “pastasciutta antifascista”, anche ricordando il gesto dei fratelli Cervi, che dopo la destituzione di Mussolini del 1943 distribuirono ai compaesani di Campegine quintali di pasta. Grandi oppositori del regime e partigiani, in seguito, tutti e sette i fratelli Cervi vennero imprigionati, torturati e uccisi dai fascisti.

È dunque giusto promuovere ed esportare la nostra cucina in tutto il mondo, ma trasformarla in un espediente per arroccarsi al conservatorismo è una strategia che inevitabilmente non porterà frutti. Anche perché il concetto di cucina tradizionale usato dalla destra si riallaccia a quello di identità italiana e i due aspetti hanno in comune la stessa mescolanza di diverse culture. Così come la nostra identità è figlia di quella normanna, greca, spagnola e araba, allo stesso tempo lo è anche la nostra cucina. Ai tempi di Federico II, per esempio, girava il libro di ricette arabo Kitab-Al-Kabiq, che spiegava al suo interno come preparare l’arancino o la parmigiana di melanzane. Dovremmo dunque depennare questi piatti dalla nostra cultura in quanto di provenienza straniera? Magari tra qualche decennio uno dei piatti tipici italiani sarà una tartare di grillo su un purè di platano. Non sarebbe uno scandalo, perché l’evoluzione è necessaria in ogni aspetto della società, comprese le abitudini alimentari. Fermare il progresso significa anche dimenticare il nostro passato e riallacciarsi a falsi miti. Possiamo pure far finta che il pomodoro di Pachino che finisce sulle nostre tavole sia italiano – in realtà è stato creato in laboratorio nel 1989 da un’azienda israeliana – ma i fatti non dovrebbero mai essere travisati.

Se davvero volessimo escludere dalla nostra tradizione tutte le ricette di provenienza straniera resterebbe ben poco. Anche tra i dolci, ciò che maggiormente viene associato all’Italia ha altre origini. Prendiamo il cannolo siciliano, simbolo riconosciuto in tutto il mondo. Durante il dominio arabo, in Sicilia, sorsero diversi harem. Le donne arabe di questi luoghi preparavano agli uomini questo dolce prendendo spunto dalla propria tradizione e facendo un mashup con un’antica ricetta apparentemente citata da Cicerone. La leggenda vuole che la forma fallica fosse un omaggio alla virilità dei padroni dell’harem. Le donne musulmane passarono poi la ricetta a quelle cristiane, che portarono avanti la tradizione. Persino la granita ha origini arabe, prendendo spunto dallo sherbet, bevanda con il ghiaccio aromatizzato con succhi di frutta o acqua di rose. Il babà ha invece origini polacche, con il nome di babka ponczowa, e venne poi rivisitato dai pasticceri francesi. Uno dei pochi dolci esclusivamente italiani, il tiramisù, non ha invece alcuna tradizione storica: apparve per la prima volta negli anni Sessanta e prese questa denominazione nel 1980. Eppure crediamo che siano tutte nostre ricette o, quelle che realmente lo sono, che siano magari antichissime. Nella stragrande maggioranza dei casi non è così, e ammetterlo non vuol dire screditare la cucina italiana; semplicemente può servirci come monito a non chiuderci a riccio rifiutando qualsiasi innovazione.

I conservatori del cibo se ne facciano una ragione: la cucina italiana è così variegata e ricca di ricette proprio grazie alle diverse culture che hanno attraversato il nostro Paese e alla capacità che ha avuto di integrarle e farle sue. Osteggiare il progresso, in tutti i campi, è già di per sé un atto di esclusione, un muro innalzato contro qualsiasi novità. In ambito culinario è ancora più limitante, in quanto le ricette richiedono una creatività e una contaminazione che non possono essere frenate dal politico di turno che borbotta contro un ingrediente indigesto perché “poco italiano”. Il tanto decantato “Made in Italy” deve essere un contenitore di inclusione, proprio perché ce lo insegna la nostra storia. Senza l’apertura alle tradizioni altrui, oggi ci ritroveremmo a mangiare zuppe nauseabonde e pasta scotta.

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