La primavera del 1989 Feng era uno dei bambini portati in piazza Tienanmen dai genitori, nel suo caso dei professori di Pechino, ma racconta di non aver mai visto le immagini di quei giorni fino ai primi anni di università. In Cina questo succede da trent’anni grazie al silenzio, chiamato dalle madri delle vittime “rivestimento di ferro”, creato dal regime sul massacro di Tienanamen verificatosi dal 3 e al 5 giugno 1989. All’avvicinarsi di ogni anniversario, specie di quelli più sensibili come nel 2009 e nel 2019, la morsa della censura si stringe fino a rendere Internet inaccessibile in Cina. Da alcune settimane Wikipedia è stata bloccata in tutto il Paese e per la prima volta non solo nelle versioni in cinese e in inglese ma in tutte le altre lingue. La volontà del governo è impedire che le nuove generazioni sappiano cosa è accaduto nella Repubblica popolare cinese tra l’aprile e il giugno del 1989, mentre l’Urss scossa dalla perestrojka iniziava a dissolversi, seguita nell’autunno successivo da molti altri regimi comunisti dell’Europa dell’Est, ma non dalla Cina.
Le famiglie di chi, come Feng, presero parte alla Primavera di Pechino stanno scomparendo: oggi l’associazione delle madri delle vittime, fondata nel 1991 da Ding Zilin (ex membro del partito e docente all’Università del popolo di Pechino), conta 127 membri in vita e 55 deceduti. Altri parenti e conoscenti delle centinaia, se non migliaia, di vittime della repressione di Stato non hanno trovato il coraggio di uscire allo scoperto dato che in molti casi i familiari che hanno denunciato sono stati poi imprigionati, costretti ai domiciliari o posti sotto sorveglianza. Anche quest’anno il filmmaker Deng Chuanbing ha tentato di “ricordare il 4 giugno” su Internet ed è stato subito arrestato dalla polizia. In questo clima non è stato possibile risalire a un numero attendibile delle vittime di Tienanmen né dare alla maggioranza di loro un volto. Eppure nel gigantesco monolite della Repubblica popolare cinese qualcosa si muove, grazie al potere della rete alla coscienza di chi, anche tra i militari e i politici, in quei giorni seppe dire no.
Tutti ricordano il protagonista del filmato sul Rivoltoso sconosciuto che nel 1989 fece il giro del mondo. Come scrive la sinologa Cecilia Attanasio Ghezzi, autrice del libro #35 maggio, ricordare Tienanmen, quella “mattina del 5 giugno 1989 era già finito tutto. L’esercito aveva preso il controllo di Pechino e un silenzio irreale era calato sulla città”. Però a metà giornata un giovane con dei sacchi della spesa, rimasto anonimo, si parò contro i carri armati, costringendoli a deviare dal loro percorso. A trent’anni di distanza una ex colonnello dell’esercito cinese fuggita all’estero ha deciso di condividere le sue memorie su Tienanmen con il New York Times: Jiang Lin, 66 anni, figlia di un generale cinese, decise in quei giorni di abbandonare la divisa e, come il suo comandante, si ammutinò perché “l’esercito per la liberazione del popolo non poteva sparare ai civili”. Nonostante la decisione di Jiang Lin e di altri suoi commilitoni, la maggior parte dei militari prese parte al massacro che nel 2008 venne ricordato nel best seller internazionale Pechino è in coma dello scrittore Ma Jian, che in questi giorni è tornato a postare le foto del maggio 1989 su Twitter. In occasione del trentennale il suo romanzo onirico è stato ristampato: il protagonista, un manifestante di Tienanmen in coma da dieci anni per un proiettile che lo ha colpito alla testa, rivive immobilizzato su un letto i fatti del 1989, prigioniero dei ricordi e della polizia che, se un giorno si sveglierà, verrà a prelevarlo.
La realtà romanzata da Ma Jian è definita da Human Rights in China (Hric) “amnesia di Stato”, un meccanismo che cela “l’intolleranza assoluta verso i punti di vista critici e diversi, e l’indifferenza completa per la dignità umana e i diritti di base”. Grazie a Ma, Jiang e altri, i giovani come Feng possono sfruttare le falle della censura online per risvegliare la loro coscienza sull’autoritarismo che le Madri di Tienanmen definiscono “un atteggiamento brutale, fascista”: gli under 30 cinesi usano l’hashtag #35maggio per ricordare il massacro senza essere bloccati e raccontare all’estero lo straniamento vissuto per anni. “A dispetto della censura, scavando si può trovare anche in Cina il documentario americano del 1995 The Gate of Heavenly Peace”, spiega Attanasio Ghezzi. Inoltre, “Il segretario del partito comunista dell’epoca Zhao Ziyang, che spiccò per essersi schierato – unico – contro la legge marziale, è riuscito a far arrivare a Hong Kong in versione postuma il suo diario sul 1989″. La sua figura è centrale per ricostruire la Primavera di Pechino, la repressione e ciò che la scatenò. Tra i dirigenti del partito, Zhao era considerato un riformista: non a caso andò in piazza Tienanmen con il megafono per tentare in extremis di dissuadere gli studenti dallo sciopero della fame. Fino alla morte nel 2005, rimase confinato agli arresti domiciliari, dove registrò in segreto le sue memorie sopra delle musicassette dell’opera e di canzoni per bambini: un racconto scoperto dai nipoti e pubblicato nel libro Prigioniero dello Stato.
Dal 15 aprile 1989, alla notizia della morte per infarto dell’ex segretario generale del partito comunista Hu Yaobang, migliaia di studenti, lavoratori, intellettuali e cinesi di ogni età e condizione iniziarono a protestare a Pechino perché il governo non interrompesse le sue aperture. Sia Zhao che Hu appartenevano al gruppo in origine riformista di Deng Xiaoping, l’erede di Mao che però li estromise e mandò i carri armati contro i civili.
Il 22 aprile, per i funerali di Hu i dimostranti marciarono verso piazza Tienanmen, il 24 proclamarono lo sciopero all’università di Pechino e il 4 maggio, data simbolica dei moti antimperialisti cinesi del 1919, in più 100mila si riversarono nelle strade della capitale. Sull’onda della glasnost sovietica di Michail Gorbachov, il popolo cinese chiedeva riforme non solo del mercato, ma sulle libertà e i diritti civili. A Pechino i residenti iniziarono a innalzare barricate, mentre le proteste si propagavano in centinaia di città. Con il Movimento democratico sfilavano studenti di tutte le scuole, anche delle elementari, operai, professori, donne e pensionati: Tienanmen non fu “l’incidente politico del 4 giugno”, come si ostina a definirlo il governo cinese, ma un mese e mezzo di mobilitazioni popolari. “I carri armati non riuscivano a sfondare per le folle che si erano radunate. Fu una protesta corale, erano ancora le masse mobilitate di Mao”, commenta Attanasio Ghezzi “poi la Cina avrebbe preso un altro corso, quello del turbo-capitalismo di Stato e della conseguente frammentazione individualista”.
Nella primavera del 1989 i comunisti dissidenti, come il figlio 17enne della leader delle Madri di Tienanmen Ding, intonavano l’Internazionale accanto agli oppositori della Rivoluzione culturale per opporsi al capitalismo e tornare al “comunismo delle origini” e diventare una democrazia. In piazza, accanto al mausoleo con le spoglie di Mao Zedong, fu eretta una grande statua della Dea democrazia, ma per il presidente Deng e il primo ministro Li Peng la sollevazione andava attribuita alla “manipolazione di potenze straniere”. Non servì neanche la visita a Pechino, nel maggio delle proteste, di Gorbachov. Come capo della Commissione militare, Deng diede l’ordine ai tank di dirigersi verso Tienanmen a partire dalla notte del 3 giugno.
Dopo più di un giorno di violenze, gli ultimi civili fucilati alla schiena furono i familiari e gli amici che la mattina del 5 giugno – quella del Rivoltoso sconosciuto – cercavano di entrare nella grande piazza per ritrovare i loro cari. Ogni anno, per l’anniversario della strage, le Madri di Tienanmen inviano al governo una petizione con il numero aggiornato dei caduti documentati (a oggi 202), chiedendo di aprire la “casa di ferro ermeticamente chiusa” della Cina.
Fino a oggi il loro appello è rimasto inascoltato. Nel maggio del 2019 la nomenklatura ha celebrato il centenario dei moti antimperialisti del 1919 e, al solito, censurato Tienanmen. La Cia stima fino a 800 vittime nella Primavera di Pechino, i bilanci immediati della Croce Rossa almeno 3mila, mentre Amnesty International ritiene si possa parlare di almeno 1300 morti. Per commemorare i trent’anni dalla strage Human Rights in China ha messo online l’archivio in costruzione The Unforgotten con i primi profili, le foto, in qualche caso i video di parte degli identificati: la vittima più giovane tra loro ha solo 9 anni, la più anziana 66. Intanto, dallo spartiacque di Tienanmen rimosso dalla sua memoria, la Cina prosegue sulla via “dell’economia socialista di mercato”, il cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng, privando i cittadini dei diritti di base garantiti in Occidente. È un ossimoro che ha snaturato la filosofia del comunismo, ma ha permesso alla Cina di cambiare pelle, sopravvivendo alla caduta degli altri regimi rossi di matrice stalinista. Oggi la nomenklatura fa affari miliardari con le economie capitaliste, ma come dice l’ex colonnello Jiang “ogni menzogna è possibile per chi nega di aver ucciso il suo popolo”.