Nel saggio del 1930 Possibilità economiche per i nostri nipoti, l’economista britannico John Myanard Keynes scriveva che, da lì a cento anni, le condizioni lavorative sarebbero radicalmente cambiate. Data la crescita della produttività e le altre possibilità offerte dal progresso della tecnica, Keynes aveva immaginato che nel 2030 la ricchezza sarebbe ottuplicata, e che alle persone non sarebbe stato richiesto di lavorare più di 15 ore a settimana, ovvero 3 ore al giorno. A quasi un secolo dalla pubblicazione di quello scritto, la previsione di Keynes sembra purtroppo molto lontana dall’avverarsi. Non solo perché la giornata lavorativa “normale” rimane quella di otto ore ormai da svariati decenni, ma soprattutto perché, al contrario di quello che poteva immaginare Keynes, le nuove tecnologie stanno avendo effetti ambigui sul lavoro.
A sostenerlo ci sono numerosi studi, tra cui uno pubblicato nel 2021 sulla ILR Review. Comparando dati raccolti sui lavoratori nel Regno Unito, i ricercatori hanno evidenziato come per la maggior parte delle persone alcune condizioni di lavoro negli ultimi decenni siano peggiorate invece che migliorate. Per esempio, la percentuale di lavoratori che dichiara di essere sempre o spesso stressata sul posto di lavoro tra il 1989 e il 2015 è cresciuta dal 30 al 38%. E se nel 1992 soltanto poco meno di un terzo dei lavoratori affermava che il proprio lavoro era “molto duro”, la percentuale nel 2017 è arrivata al 46%, superando addirittura la metà nel caso delle donne, il 51%. In crescita è anche il numero delle persone che si definiscono “sfinite” alla fine della giornata: dal 20% al 28%, una percentuale che è particolarmente elevata (di nuovo) nel caso delle donne, arrivando sopra al 31%.
Il fenomeno è stato chiamato work intensification, ovvero intensificazione del lavoro, definito da Oxford Reference come “il processo di innalzamento del carico di lavoro previsto per un dipendente, che aumenta la quantità di compiti da svolgere o riduce il tempo concesso per completare tali compiti”. Si tratta di un fenomeno complesso, che ha toccato tutte le categorie di lavoratori: manager, infermiere, operai, insegnanti, professori universitari, lavoratori nel settore high-tech, eccetera. Fatte alcune distinzioni, infatti, i dati sull’aumento dello stress e del carico di lavoro sono aumentati indipendentemente dal reddito percepito. Gli economisti studiano la work intensification da decenni e tra le varie motivazioni che hanno trovato bisogna includere le nuove forme di organizzazione industriale per rispondere all’imperativo di una sempre maggiore efficienza, il divario di genere (con le donne che, dovendo ancora nella maggior parte dei casi subire il peso del lavoro domestico, vivono con maggior stress anche l’attività lavorativa retribuita), il crescente numero di lavoratori autonomi e le forme di liberalizzazione e deregolamentazione del lavoro.
Un’altra delle principali cause dell’intensificazione del lavoro è lo sviluppo tecnologico. Negli ultimi decenni sono aumentati coloro che utilizzano il computer sul luogo di lavoro, ed è interessante notare come questi lavoratori siano proprio quelli che hanno la maggiore possibilità di lavorare “sotto una grande mole di tensione”, secondo “The Economy 2030 Inquiry”. È un’esperienza che in molti hanno vissuto durante gli anni della pandemia. Se il lavoro da remoto rimane tutt’ora uno strumento efficace per conciliare tempi di vita e attività lavorativa, in molti casi sembra essersi trasformato in un elemento di erosione del confine tra vita privata e lavoro – aumentando, invece che diminuire, lo stress. Non è un caso che durante la pandemia, quando l’utilizzo delle tecnologie digitali è diventato indispensabile per proseguire molte attività, siano aumentati i casi riportati di stress e di burnout. Uno studio condotto dalla American Psychological Association nel 2021 su 1501 lavoratori adulti negli Stati Uniti ha evidenziato come il 79% dei dipendenti abbia vissuto situazioni stressanti durante il lavoro. Non solo: il 32% si è dichiarato esausto da un punto di vista emotivo e il 44% parla di vero e proprio affaticamento fisico, con un aumento di ben 38 punti percentuali rispetto al 6% del 2019.
Le tecnologie digitali hanno sicuramente il pregio di consentire una comunicazione più rapida, ma è proprio questa rapidità che deve essere vista con occhio critico. Spesso, infatti, la velocità della comunicazione va di pari passo alla richiesta di essere costantemente disponibili e reperibili, a volte anche fuori dall’orario di lavoro. Richieste che, nell’apparente semplicità di un messaggio, diventano sempre più numerose e soprattutto onerose da un punto di vista fisico e mentale. Come spiega il filosofo Byung Chul Han ne La società della stanchezza, dietro l’apparente promessa di maggior autonomia rappresentata dall’utilizzo delle tecnologie digitali si nasconde il rischio di una nuova dipendenza, pericolosa proprio perché invisibile. Non solo diventiamo più dipendenti dagli strumenti tecnologici in sé, che sembrano sempre più indispensabili per compiere qualsiasi tipo azione, ma diventiamo anche più dipendenti da chi esercita di fatto il controllo di questi mezzi. Come spiegano Stefano Aloisi e Valerio De Stefano nel loro libro Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, negli ultimi anni, molte aziende hanno adottato sistemi di sorveglianza per controllare, monitorare e quantificare le performance dei propri dipendenti. Tra gli esempi dei nuovi possibili strumenti di sorveglianza, nel libro sono citati un badge sociometrico, indossabile durante l’orario di lavoro e prodotto da Humanyze, un’azienda con base a Boston, e il software Work Diary, utilizzato ad esempio da UpWork, una società che gestisce autori freelance, e che consentirebbe di sorvegliare i monitor dei collaboratori. Secondo i dati riportati da Aloisi e De Stefano, quasi la metà delle funzioni di risorse umane nelle società di rilievo internazionale fa uso di strumenti di sorveglianza di questo tipo, numeri che sembrano essere confermati anche per il nostro Paese. Secondo uno studio condotto da Capterra, su 1256 dipendenti intervistati il 43% ha dichiarato di lavorare in un’azienda che utilizza strumenti di monitoraggio dei dipendenti. Di questi, circa la metà (il 22%), afferma che la sorveglianza è cominciata in seguito alla pandemia con il lavoro da remoto.
Tutto ciò non è privo di conseguenze. Lo stress da sorveglianza digitale, con la sensazione di essere costantemente controllati, rischia di ottenere l’effetto opposto rispetto a quello auspicato daI datore di lavoro, creando un regime di sospetto e ansia che ha effetti deleteri sia sulla salute che sulla produttività del lavoratore. La pensa così il 41% degli intervistati da Capterra, secondo cui i due principali svantaggi dell’utilizzo di nuove tecnologie di sorveglianza sono il maggior stress, la riduzione della motivazione e il decremento della fiducia personale.
Questo disagio non è legato soltanto ai comportamenti dei propri superiori, ma anche a sé stessi. Le tecnologie digitali, unite a una cultura lavorativa fortemente individualista che antepone il successo personale a qualsiasi altro risultato, creano infatti le condizioni affinché ciascuno diventi contemporaneamente schiavo e padrone di sé stesso. Nelle società digitali contemporanee i primi a imporci di dare il massimo, di essere performanti in ogni momento, di concederci mai un istante di riposo, spesso siamo noi stessi. Circondati da un’infosfera in cui sui vari social network tutti – o molti – sembrano avere più successo di noi dal punto di vista lavorativo o semplicemente essere più felici, ci sentiamo spinti a superare costantemente i nostri limiti, con il rischio di andare in sovraccarico e finire in situazioni di vero e proprio burnout.
Se il progresso tecnologico avrebbe potuto essere uno strumento importante per costruire condizioni di lavoro più giuste e sicure, è chiaro che si è deciso di usarlo diversamente. Senza una guida politica in grado di governare i processi innovativi le nuove tecnologie hanno perpetuato ed esacerbato le asimmetrie di potere e le ingiustizie già esistenti, peggiorando le condizioni di lavoro e aumentando le situazioni di sfruttamento. L’innovazione non è mai neutra, e soprattutto non è sempre positiva, ma sempre e indissolubilmente legata a processi di natura politica e sociale, che ne condizionano l’impatto sulla vita delle persone. Per questo motivo è fondamentale sostenere proposte legislative concrete che sappiano fare degli strumenti tecnologici dei mezzi che migliorino la vita delle persone anziché avvantaggiare una cerchia ristretta. In Giappone, Spagna e Regno Unito sono stati lanciati progetti pilota per ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni; in Portogallo si sono fatti passi avanti significativi per quanto riguarda il diritto alla disconnessione, stabilendo orari chiari e circoscritti di attività; è il momento che anche in Italia si apra un dibattito urgente su questi temi.