A centocinquanta chilometri al largo della Cina nel Mar Cinese Meridionale c’è l’isola di Taiwan, che la Repubblica popolare, separata solo dallo Stretto di Formosa, considera emanazione diretta del proprio territorio e su cui reclama il controllo, minacciando la riunificazione anche con l’uso della forza. Per i primi quattro giorni di ottobre, circa centocinquanta aerei da combattimento dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese sono entrati nella zona di identificazione per la difesa aerea dell’isola, facendo salire la tensione nella regione ai massimi livelli degli ultimi quarant’anni – pur tuttavia senza mai avvicinarsi più di dodici miglia nautiche dalle coste, quello che Taiwan considera il proprio spazio aereo sovrano.
Sulla pelle di Taiwan si gioca la competizione sino-statunitense. Come ricorda Limes, sono state settimane ricche di eventi al largo delle coste cinesi: in precedenza c’è stato il patto Aukus tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti in base al quale la prima si servirà della tecnologia britannica e americana per lo sviluppo di sottomarini a propulsione nucleare, poi l’incontro tra i leader del dialogo quadrilaterale di sicurezza di cui fanno parte Stati Uniti, Australia, Giappone e India e ancora le portaerei statunitensi USS Ronald Reagan e USS Carl Vinson che hanno navigato in acque internazionali ma rivendicate dalla Cina, qualche giorno dopo è stata la volta della fregata britannica HMS Richmond che ha attraversato lo stretto di Taiwan.
Quando si parla dello scontro tra Stati Uniti e Cina non ci si riferisce solo alle tensioni politiche e militari, ma soprattutto al ruolo della sua leadership nell’alta tecnologia. Taiwan è infatti un riferimento nelle catene di approvvigionamento globali in settori come i semiconduttori, la produzione di alta precisione, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie e le energie rinnovabili e soprattutto dove Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. è una parola chiave e un elemento essenziale per lo sviluppo del 5G.
Oggi Taiwan produce più della metà del fabbisogno mondiale di microchip e durante la pandemia è stata un faro per molte economie occidentali che, di fronte alle catene globali del valore interrotte e nel bel mezzo della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, l’hanno riconosciuta come l’economia a cui guardare. Secondo diversi analisti, è proprio il ruolo dell’isola sul mercato a impressionare maggiormente Pechino, che non riesce a produrre a soddisfare la domanda mondiale, i suoi prodotti infatti non hanno lo stesso grado di evoluzione di quelli dei vicini e che hanno un’economia tanto forte da essere cresciuta anche nel 2020. Il terreno di scontro torna di nuovo sul piano del diritto: dalla tutela dei brevetti alla trasparenza delle leggi. La libertà, la democrazia, il libero mercato e – ultimi ma in teoria non ultimi – i diritti umani, sono cari all’Unione europea che, dopo la firma degli accordi di libero scambio con Giappone, Corea, Singapore e Vietnam, vede in un’intesa bilaterale con Taiwan il rafforzamento dei suoi legami con l’Asia e un modo per controbilanciare l’espansione economica della Cina. Nel 2019 Taiwan era il 5° principale partner commerciale della Ue in Asia e il 15° partner commerciale nel mondo. Ora che gli equilibri regionali stanno cambiando, l’intervento nei cieli sopra Taiwan suona quindi come un chiaro avvertimento, di cui tutti dovremmo preoccuparci.
La centralità di Taiwan nella geopolitica della regione innervosisce Pechino che ciclicamente interviene con prove di forza simili per sottolineare la propria egemonia. Quest’anno però colpisce la frequenza con cui queste incursioni sono avvenute e la forza con cui il presidente cinese continua a ricordare al mondo, durante la celebrazione del 110° anniversario dalla Rivoluzione del 1911, da che parte stia: “Il separatismo indipendentista di Taiwan,” ha dichiarato anche quest’anno, “è il più grande ostacolo al raggiungimento della riunificazione della madrepatria, e il più grave pericolo nascosto al ringiovanimento nazionale. Taiwan è una questione interna”. L’opposizione più forte a qualsiasi tentativo di unificazione, infatti, non arriva tanto dal Giappone o dall’America, che sperano di poter arginare la Repubblica Popolare, ma dalla popolazione di Taiwan che rivendica la democrazia, l’indipendenza di fatto e la propria sovranità, sentendosi sempre meno legata alla Cina continentale e un’annessione violenta creerebbe una nuova provincia instabile all’interno del territorio, che la Repubblica Popolare dovrebbe gestire.
I tentativi intimidatori di Pechino arrivano in un momento dell’anno in cui gli occhi del mondo sono puntati sull’Indo-Pacifico per ragioni storiche che riguardano entrambi i Paesi: il primo ottobre dal 1949 si festeggia in Cina la nascita del primo Governo della Repubblica Popolare; e il 10 ottobre dal 1911 si celebra l’inizio delle rivolte che diedero inizio alla Rivoluzione Xinhai, alla fine della Dinastia Qing e alla costituzione nel 1912 di quella che è nota agli atti come Repubblica di Cina – che ancora oggi è il nome ufficiale di Taiwan.
Le tensioni nell’Indo-pacifico però si stanno intensificando sempre di più. “Nella mia esperienza militare non mi ero mai trovato in una situazione così pericolosa. Se i cinesi volessero attaccarci ora, sarebbero già in grado di farlo, ma stanno ancora calcolando quanto costerebbe in termini di perdite e risultati sul campo. Però, continuando ad accrescere il loro potenziale, nel 2025 avranno ridotto il costo e le loro perdite al livello più basso possibile”, ha dichiarato il ministro della difesa di Taiwan, Chiu Kuo-cheng, mentre il Parlamento esaminava il budget speciale per la difesa da 8,6 miliardi di dollari, i cui due terzi dovrebbero essere stanziati per l’acquisto di missili antinave, missili di sviluppo domestico e navi ad alte prestazioni, potenziando l’arsenale militare dell’isola con dispositivi di difesa asimmetrici per scoraggiare un eventuale attacco cinese anfibio.
Giunge debole dagli Stati Uniti il richiamo alla Cina del presidente Joe Biden, che ha fatto sapere di aver parlato con il suo omologo cinese Xi Jinping: “Siamo d’accordo, ci atterremo al patto su Taiwan. Abbiamo chiarito che non penso debba essere fatto altro”. Quello che non è chiaro è in cosa consista questo accordo: non esiste infatti intesa tra Stati Uniti e Taiwan; anzi, Washington ammette formalmente Pechino e non Taipei. Quello statunitense in questa porzione di Asia è un equilibrio sottilissimo, o meglio un giano bifronte: da una parte riconosce la politica dell’unica Cina, ma dall’altra ha promosso il Taiwan Relations Act, un documento che spiega la decisione degli Stati Uniti di stabilire relazioni diplomatiche con la Cina invece che con Taiwan nell’aspettativa che il futuro di quest’ultimo sia stabilito con mezzi pacifici e che allo stesso tempo, in contraddizione, ha l’obiettivo di aiutare a mantenere la sicurezza e la stabilità nell’isola, autorizzando la continuazione delle relazioni commerciali, culturali e la difesa tra il popolo degli Stati Uniti e il popolo di Taiwan.
Sia il Wall Street Journal che Reuters hanno pubblicato venerdì la notizia per cui decine di soldati delle forze speciali americane e un numero non confermato di marines starebbero addestrando l’esercito di Taiwan da almeno un anno, nell’eventualità di un intervento cinese nell’isola. Entrambi i giornali hanno citato funzionari statunitensi che avrebbero chiesto di rimanere anonimi. Dal Pentagono ha risposto il portavoce John Supple che ha detto: “Non ho commenti su operazioni specifiche, impegni o addestramento, ma vorrei sottolineare che il nostro sostegno e il rapporto di difesa con Taiwan rimane allineato contro l’attuale minaccia posta dalla Repubblica popolare cinese”. Anche Antony Blinken, capo della diplomazia statunitense, era stato più duro del suo presidente nel commento contro gli interventi cinesi, definendoli “provocatori e destabilizzanti”. Il dispiegamento delle operazioni speciali degli Stati Uniti è un segno di preoccupazione all’interno del Pentagono per le capacità tattiche di Taiwan alla luce della crescita costante degli investimenti militari cinesi e delle recenti mosse minacciose contro l’isola, mentre dal ministero degli Esteri cinese fanno sapere di aver esortato gli Stati Uniti ad aderire agli accordi precedenti e a cessare gli aiuti militari a Taiwan: “La Cina adotterà tutte le misure necessarie per proteggere la sua sovranità e integrità territoriale”, riporta il Wall Street Journal.
A fare da eco alle parole sull’indecifrabile accordo tra Stati Uniti e Cina c’è la presidente dell’isola, Tsai Ing-wen. Prima donna a essere eletta presidente, primo leader non sposato, capo del Partito democratico e che da sempre si prodiga, insieme ai 23 milioni di elettori che l’hanno sostenuta nel 2016, a mantenere l’indipendenza di Taiwan. In un lungo editoriale pubblicato sul giornale americano Foreign Affairs Ing-wen ha scritto: “La storia di Taiwan è una storia di resilienza di un Paese che sostiene valori democratici e progressisti mentre affronta una sfida costante alla sua esistenza. Se Taiwan dovesse cadere le conseguenze sarebbero drammatiche per la pace regionale e per il sistema democratico. Questo sviluppo dimostrerebbe che nel confronto di valori a livello mondiale l’autoritarismo ha avuto la meglio sulla democrazia”.
Taiwan, infatti, si considera indipendente dalla Cina – e una nuova prova di libertà di fronte al dragone dopo l’emblematica esperienza di Hong Kong – però non è mai stato riconosciuto come tale. Ha prosperato nella regione negli ultimi anni innescando una profonda trasformazione culturale ed economica, mentre la comunità internazionale si allontanava, chiudendo le ambasciate nell’isola ed escludendola dai tavoli internazionali con solo 15 Paesi al mondo rimasti a riconoscerla. L’esclusione di Taiwan dalle Nazioni Unite e dalla maggior parte delle altre istituzioni internazionali non ha impedito al Paese di cercare mezzi alternativi per avviare nuove collaborazioni e alleanze: imprese, organizzazioni non governative, partenariati commerciali e di investimento, scambi educativi e tra persone, cooperazione tecnologica e medica con i Paesi del Sud-Est asiatico, l’Australia e la Nuova Zelanda, siglando la convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici e modificando le sue leggi interne per adeguarsi agli altri.
Taiwan è l’Asia oltre la Cina, uno di quei Paesi che vivono all’ombra della superpotenza, ma che per economia, tradizioni e cultura resistono, facendosi spazio e cercando di uscire dall’ombra del suo strapotere. Questo lo sanno bene la Repubblica Popolare e gli Stati Uniti – per le ragioni opposte, nel tentativo di ridimensionarla. L’interesse delle due superpotenze su Taiwan si spiega con il perseguimento di ambizioni economiche e strategiche nel lungo periodo. Conquistando più o meno pacificamente l’isola, la Cina potrebbe assicurarsi il pieno controllo delle sue coste, proteggendole da eventuali incursioni, dominare il Mar Cinese meridionale, che è un mare conteso tra i Paesi della regione, e avere accesso diretto all’Oceano Pacifico, che le consentirebbe di diventare potenza marittima indiscussa nell’area, imponendosi anche come unico mercato dominante in grado di espandere le proprie attività fino all’Atlantico. Ma al di là di tutte le considerazioni strategiche ed economiche, tornare in possesso di Taiwan sarebbe per Pechino la fine simbolica del lungo “secolo delle umiliazioni” cominciato più di cento anni fa con l’invasione delle potenze occidentali e l’imposizione di una sorta di protettorato. La chiusura di questo capitolo è la promessa che serve per rafforzare ancora di più il patto di fiducia tra Partito comunista cinese e i suoi cittadini e decretare il ritorno ufficiale della potenza cinese sulla scena globale.