Il 16 novembre, in occasione del Milano BookCity 2019, Chimamanda Ngozi Adichie – scrittrice nigeriana, autrice di bestseller tra cui Americanah, Dovremmo essere tutti femministi e vincitrice di numerosi premi letterari – ha ricevuto il premio Focus on Africa Award. In questa occasione Adichie ha espresso la sua opinione sugli afrodiscendenti italiani: non solo ha detto di trovare assurdo che in Italia non si è italiani – pur essendoci nati e/o cresciuti – prima dei diciotto anni, ma ha sottolineato come le loro storie e quelle degli afrodiscendenti dei vari Paesi europei, siano invisibili e che dunque sia necessario poterle ascoltare o leggere.
In Italia lo spazio dedicato agli afrodiscendenti e alla narrazione del loro rapporto con il Paese è quasi del tutto inesistente. Quando esiste, sembra impossibile parlarne se non in relazione agli sbarchi, alla xenofobia di alcune frange politiche o al sentimento del resto degli italiani a riguardo. Lo ha dimostrato la deputata del Pd Alessia Morani, che è riuscita a unire i tre elementi parlando della riforma di cittadinanza bloccata in Parlamento dal 2017. Secondo Morani, l’approvazione dello ius culturae potrebbe diventare realtà solo quando si riusciranno a governare i flussi migratori con una politica efficace. Ha anche aggiunto che il Paese è profondamente diviso sul tema dell’immigrazione e che approvare tale legge potrebbe non bastare per eliminare le tossine del razzismo di molti sostenitori di Salvini.
Nella motivazione della deputata si trova tutto quello che c’è di sbagliato in questa narrazione dell’Italia che cambia. In primo luogo, nominare Matteo Salvini ogni volta che si parla di minoranze etniche indica poca lungimiranza nel voler affrontare le tematiche che le riguardano in prima persona. Inoltre, dimostra che la priorità di questa politica è il tornaconto elettorale, piuttosto che la messa in campo di misure inclusive, che non mettano al centro del dibattito pubblico solo l’intolleranza o l’opposizione a essa. In secondo luogo, rendere la questione della cittadinanza, e quindi anche dell’identità di chi si sente parte integrante del tessuto sociale italiano, una mera questione di opinione pubblica o sondaggi sul sentimento degli italiani, banalizza e semplifica un argomento che può, e deve, essere affrontato coinvolgendo tutti i diretti interessati. La loro identità è diventata un’arena di scontro politico per i diversi partiti, mentre i diretti interessati sono diventati invisibili, in attesa della prossima etichetta affibiata loro da altri. Anche l’associazione tra minoranze etniche e sbarchi è diventata un sillogismo, come se non esistesse un’altra narrazione possibile, specie se si parla di migranti provenienti dai Paesi africani o di persone nere.
Gli afrodiscendenti italiani si trovano invischiati in un circolo vizioso infinito dal quale sembra impossibile uscire e raccontare il proprio punto di vista. Proprio per il fatto di essere nati o cresciuti in Italia, spesso senza aver mai visitato il Paese di origine dei genitori, queste persone non condividono le stesse esperienze di chi, a causa di un sistema migratorio obsoleto e disumano, si trova a rischiare la vita per centinaia di chilometri a piedi e poi nel Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Si sta parlando di due categorie differenti che meritano attenzioni e approcci nel raccontarle molto diversi. Utilizzare i migranti per parlare di cittadinanza e afrodiscendenti italiani è fuorviante.
L’unico denominatore comune è il colore della pelle, elemento che per gli afrodiscendenti italiani può diventare un fattore determinante nell’approccio alla società in cui vivono. Al posto di rendere gli spazi mediatici più inclusivi, il colore della pelle e dei nuovi italiani neri non è mai dominio dei diretti interessati, ma di chi ne parla in modo occasionale e strumentale. Il colore della pelle diventa una carta da giocare nelle risse politiche, come quando Matteo Renzi, durante un dibattito con Matteo Salvini, ha detto che in Italia servono “dolcezza e gentilezza” per contrastare una realtà in cui alcuni bambini “di colore” hanno paura di salire su un autobus a causa della retorica del leader della Lega – come se il problema fosse l’assenza di “dolcezza e gentilezza” e non la mancanza di ascolto degli afrodiscendenti italiani, che più di chiunque altro hanno una visione chiara della virulenza del razzismo. Eppure, anche se sempre al centro dell’attenzione, questi sono condannati a restare dietro le quinte del dibattito. Se ne diventassero parte attiva si saprebbe, per esempio, che gli attacchi razzisti per il colore della pelle sono sempre stati all’ordine del giorno in Italia, molto prima dei plebisciti per Matteo Salvini.
Il colore della pelle può essere strumentalizzato anche in altri due modi: se da un lato diventa il metro di giudizio dell’estrema destra per condannare tutte le persone nere per ogni fatto di cronaca che ne coinvolga una, dall’altro è diventato uno dei cardini della strategia di opposizione della sinistra. È il caso dello scalpore mediatico che ha suscitato a gennaio il corazziere nero del Quirinale, quando si è spesso sottolineato il colore della pelle del militare per ironizzare sulla possibile reazione di Matteo Salvini. Peccato che questa strategia sia stata smontata dalla Lega grazie al senatore italiano di origine nigeriana Toni Iwobi, che milita nel partito da anni. Intanto, sullo sfondo di queste ripicche infantili, a rimetterci sono le persone di origine straniera che vengono private ogni giorno del loro diritto a un’individualità, a delle idee e a un orientamento politico, per essere incasellate in uno stereotipo mediatico.
Questo cortocircuito si ha perché nel dibattito attuale il colore della pelle viene visto come un mezzo, più che come la caratteristica di una persona con la propria personalità e le proprie opinioni. Si possono esprimere idee contrastanti rispetto a quelle del senatore Toni Iwobi, ma parlarne riferendosi solo al suo colore della pelle rende il dibattito sterile, senza riuscire ad andare oltre il fatto che una persona nera sia molto di più che la sua pelle. E che, in ultima analisi, l’essere neri non significa automaticamente “essere di sinistra”, né si è obbligati a esserlo.
Il dibattito sul razzismo si è ridotto a episodi che non sono altro che l’apice delle aggressioni verbali o fisiche razziste, che manca del tutto di un approfondimento sulle micro-aggressioni, dai modi di dire agli stereotipi, che derivano da retaggi coloniali o dalle percezioni distorte e stereotipate sulla persona nera. Le rare volte in cui si tocca il tema non vengono interpellati i diretti interessati, ma chi determinati episodi non li ha mai subiti, né riesce a comprenderli a fondo. È il caso del direttore della Gazzetta dello Sport Andrea Monti che, a seguito degli insulti razzisti rivolti a Mario Balotelli durante la partita Hellas Verona – Brescia del 4 novembre, ha scritto un editoriale dal titolo Razzismo oltre lo sport, è una questione nazionale. Voi usereste la parola ‘negro’?. Un approfondimento simile richiederebbe una discussione con gli afrodiscendenti italiani e la loro percezione del termine. Chiederlo in questo modo, invece, banalizza ancora di più l’argomento.
Nonostante gli spazi mediatici e i maggiori canali televisivi siano ancora un feudo bianco di mezza età, la realtà che ignorano si sta organizzando per comunicarsi con altri mezzi. Ne sono una prova i numerosi eventi organizzati da Festival Divercity a Milano, di cui Andi Nganso, medico di origine camerunense, è co-fondatore. Si tratta di incontri ed eventi di arte, cultura e dibattiti politico-sociali dove italiani di varie etnie e stranieri vengono invitati per confrontarsi. Il filo conduttore di queste iniziative è la creazione di una nuova narrazione, che ancora manca nei nostri media. Segue la stessa idea il libro Future. Il domani narrato dalle voci di oggi‘, un’antologia di undici racconti di autrici italiane afrodiscendenti, edita da Effequ e curata da Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala. Tra le voci del testo si trova anche quella di Espérance Hakuzwimana Ripanti, italiana di origini ruandesi, attivista culturale e autrice del libro E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, edito da People, in cui racconta la sua esperienza di donna nera in Italia.
La realtà italiana sta cambiando. Gli afrodiscendenti stanno reclamando il loro spazio, ma per cambiare la realtà in cui viviamo è necessario informarsi e invitare agli eventi che trattano queste tematiche chi continua a trovarsi nelle quinte di questi dibattiti, pur essendone il vero protagonista. Queste nuove narrazioni meritano attenzione. Per cercare di comprendere un punto di vista differente e una diversa chiave di lettura della società in cui viviamo, forse è il caso di concedersi qualche momento di silenzio, ascoltare e dare voce, spazio e visibilità a quelle persone che ci sono sempre state, ma che per troppo tempo sono state ignorate.