Il razzismo in Italia non è una emergenza. È la realtà di sempre.

Amici, compagni di militanza passata e conoscenti in generale faticano sempre a comprendere come mai, nel parlare di razzismo, me la prenda soprattutto con i solidali.

Nelle ultime settimane sono stati diversi gli episodi di violenza a danno di cittadini di migranti e di neri – che non è la stessa cosa. L’ultima salita, o scesa, agli onori della cronaca è l’atleta Daisy Osakue, la primatista under 23 nel lancio del disco, che nella notte del 29 luglio scorso è stata aggredita mentre rientrava a casa.  Non è stata riconosciuta l’aggravante razziale in questo caso, ma se ne è discusso ampiamente. In Abruzzo, per esempio, Ibrahima Diop, italiano di origini senegalesi, è stato cacciato dall’Asl da un dipendente che lo ha insultato insinuando che dovesse recarsi dal veterinario, piuttosto che all’ospedale; ad Aprilia, in provincia di Latina, Hady Zaitouni è stato inseguito e picchiato a morte da due incensurati italiani. Razzismo o meno, quel che è certo, è che in seguito ad ogni attacco sarà proprio il razzismo l’oggetto del dibattito pubblico. E se sei un’immigrata nera, è difficile starne fuori.

Daisy Osakue

Quello che spesso non risulta chiaro nel mio approccio è che non intendo affatto negare l’evidente discriminazione a cui sono sottoposti i corpi neri. Tutt’altro: a riguardo è opportuno levare un ulteriore velo.

Esiste un “problema razzismo” in Italia, ma non un’emergenza: infatti, per chi è sempre stato attento alla cronaca che ruota attorno ai migranti, quanto si legge dal 4 marzo sulla stampa nazionale non rappresenta assolutamente una novità. A essere cambiata è solo l’attenzione morbosa di un giornalismo banale che coglie l’occasione di un Salvini al comando per proseguire sul sentiero della sua altrettanto banale agenda: migranti, emergenze, esasperazione.

Lo stesso giornalismo che, eludendo il sacrosanto dovere di informazione e di un’analisi critica e completa, si nasconde dietro lo “sdoganamento” delle barbarie di cui questo governo dovrebbe essere unico responsabile.

Si legge ovunque che Salvini è il mandante delle azioni razziste, cosa che non mi infastidisce per lo svilimento del potere di discernimento individuale, quanto per l’esaltazione di un potere che Salvini non ha. Le persone, il popolo, forse prima avevano più vergogna a manifestare nelle parole e nei fatti certi orientamenti, ma se quella della “razza” è una questione su cui ora si dibatte dobbiamo accettare che nel dibattito entreranno tutti, vincendo imbarazzi e resistenze. Da un certo punto di vista è meglio così: non so quanto avrebbero potuto reggere ancora quelle barriere di retorica che relegavano la pancia del Paese a rumore di fondo a cui non prestare attenzione; ed è tempo che anche partiti e movimenti che si collocano a sinistra di qualcosa– un qualcosa di sempre più indefinito – inizino a fare i conti con il sentire comune, smettendo di fingere che non esista.

Matteo Salvini

Come accennavo, non si può negare che quella del razzismo sia una questione reale. Una questione che dipende da diversi fattori, legati all’infinito spettro dell’animo umano e che spaziano dalla becera ignoranza che non merita risposta, all’opportunismo indegno del suprematista, arrivando a lambire anche quelle personalità strattonate dal senso di schifo, dalla debolezza e dalle contraddizioni di altri piccoli e grandi fallimenti delle nostre battaglie collettive. E parlo della crisi culturale, sociale, generazionale ed economica che lascia solchi più profondi di quanto, spesso, siamo disposti ad ammettere, soprattutto quando si manifesta in qualcosa che non accettiamo. Certamente, anche in questo caso, quella di non cedere alla barbarie è una scelta che dobbiamo difendere e promuovere. Ma spesso questo non capita e la cosa non si può ignorare. Non la ignoro nemmeno quando a essere intolleranti sono i miei nerissimi genitori, verso i bianchi o verso chi non è della loro stessa etnia: perché quello del razzismo non è un primato bianco, come la possibilità di interrogarsi sulla natura dell’oppressione non è un privilegio che riservo solo alle figure generalmente ritenute oppresse.

Il problema è che stiamo consentendo di delineare i tratti di cosa sia il razzismo a chi non ne è vittima e, per ignoranza o per convenienza, non può far altro che descriverlo così come ha imparato dalle pagine dei libri di storia che parlano di Apartheid o leggi razziali del 1938. La totale idiozia del “razzismo scolastico”, che ci illude di maneggiare una materia già formata e definita nei suoi contorni, ci riconsegna risposte banali che, non andando veramente a fondo della questione, non la risolvono – ammesso che sia possibile: negli anni mi sono comunque convinta che “risolvere” non voglia dire portare a una soluzione, quanto piuttosto “destrutturare”, in modo da poter analizzare e maneggiare il problema–ma, anzi, ingigantiscono il tutto.

Razzismo, nuovi profili di cittadinanza, migrazioni, sono questioni diverse tra loro che meritano di essere trattate individualmente, scorporate e affrontate rifuggendo dalla retorica con cui se ne è parlato negli ultimi vent’anni. Una retorica che ignora, a mio avviso intenzionalmente, le grandi contraddizioni che derivano dalla sostituzione del concetto di integrazione con quello di un’omologazione forzata, basata su un generale “senso di umanità” sotto cui dovrebbe rientrare tutto. Ma tutto cosa? Quali sono i confini di questa umanità? Qual è questa umanità?

Tutti noi, non solo migranti e nuovi cittadini, meritiamo qualcosa di diverso e di migliore dei dibattiti e delle battaglie di questi mesi. Meritiamo qualcosa che non siano le esternazioni piene di sensazionalismo empatico, meritiamo che l’essere migranti o discendenti di migranti non ci qualifichi direttamente, né in positivo, né in negativo.

Meritiamo una discussione sul razzismo che non si concentri sull’analisi del movente del lancio di un uovo; qualcosa di più di un dibattito pubblico ammorbato da discussioni che non spostano di un centimetro il peso di una questione che non riesce nemmeno a inquadrare. Meritiamo che la pelle nera sia qualcosa di diverso da un territorio sicuro dove esercitare facili giochi di ruolo. Meritiamo un’Africa e un essere africani che non siano più ostaggio di una narrazione che si fa schiava della necessità di “tutori” anche quando dice di volersene liberare.

O forse no. Forse, esclusivamente in questi termini, ci meritiamo il razzismo che abbiamo perché è l’unico contro il quale sembriamo avere qualcosa da dire. Non a caso rivolgo la mia attenzione soprattutto a chi di razzismo è vittima, o a chi solidarizza con questi ultimi: creare un argine concreto all’avanzare dell’intolleranza è l’unica soluzione che abbiamo. E ci tocca farlo bene. Aprire, all’interno del nostro dibattito, più spazi in cui le discussioni e il confronto muovano dalla consapevolezza che alcuni dei nostri capi saldi sono diventati dei luoghi comuni anche per noi stessi, per poter sperare finalmente in un pensiero genuino che spinga ad azioni non solo concrete ma anche efficaci.

In questo senso, un contributo importante ci si aspetta che venga dato dalle comunità oggetto del dibattito. Ma che anche qui non mancano le contraddizioni. Ho perso il conto di quanti gruppi di varia natura siano nati in seno alla comunità che si definisce con il nome aberrante di afroitaliana (perché per totale assenza di capacità di identificazione è più facile mettere tutto in un calderone, e chiedere in prestito un termine vago dai vicini di swag americani). Ho provato a far parte di questi gruppi, che in grossa parte si riducono a contenitori di esasperate manifestazioni di filosofia diretta in cui il semplice fatto di essere neri offre un patentino per impacchettare e divulgare drammi esistenziali tardo-adolescenziali e pappardelle buone per ambire a una candidatura in partiti politici di sinistra i cui nomi si risolvono in grandi sbadigli.

Trovo molto più utile riappropriarci della nostra individualità, ognuno di noi, perché non è vero che tutte le battaglie sono collettive. Quello per il riconoscimento della propria identità, per esempio, è per forza di cose una lotta personale che non può essere riassunta in una maxi-identità ad uso e consumo di chi sa leggere solo i numeri e non le cifre.

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