Il pomeriggio del 19 luglio 1992 c’è un certo silenzio in via Mariano D’Amelio. È estate, è domenica e mancano pochi minuti alle cinque, un’ora in cui Palermo è ancora avvolta dal torpore. Fra le varie macchine parcheggiate lungo la via c’è una Fiat 126. Si scoprirà poi che era stata rubata. Via D’Amelio non è una strada sicura: è molto stretta e difficile da “bonificare”, tanto che il giudice Antonino Caponnetto aveva chiesto alle autorità di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli, ma la richiesta era rimasta senza seguito.
Alle 16:58 un telecomando a distanza fa detonare 90 chilogrammi di esplosivo nascosti all’interno di quella 126 parcheggiata davanti al numero 21. Paolo Borsellino stava suonando il citofono del numero 19, dove abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, madre e sorella del giudice. Insieme a lui, nell’esplosione perdono la vita i cinque agenti di scorta Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano ed Emanuela Loi, la prima donna a far parte di una scorta, purtroppo anche la prima a cadere in servizio. Antonino Vullo, unico agente sopravvissuto all’attentato, descriverà quel momento così: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno”. In quell’inferno ha inizio il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana.
I giorni seguenti la strage di via D’Amelio sono pieni di tensione e angoscia. I magistrati e i poliziotti di Palermo protestano, i familiari di Paolo Borsellino rifiutano i funerali di Stato, la sensazione diffusa è che la mafia possa tutto: ha ucciso chi le dava più fastidio e lo ha fatto con una violenza dirompente. Sembra che sia più forte dello Stato, che infatti si appresta a inviare in Sicilia l’esercito. Mai più che in questo momento c’è la necessità di poter dare qualcuno in pasto all’opinione pubblica, un colpevole contro cui sfogarsi. Le indagini vengono assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” comandato da Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo, ex collaboratore del Sisde. Le prime indagini sono una carrellata impietosa di errori, omissioni e iniziative grottesche: per esempio, non solo gli interrogatori dei testimoni sono pochissimi, ma non vengono ascoltati neanche alcuni degli inquilini del palazzo in cui abitavano la madre e la sorella di Paolo Borsellino, la cui importanza emergerà solo vent’anni dopo; e ancora, per tre mesi e mezzo non si saprà nulla della borsa del magistrato, come non si saprà – ancora oggi – dell’agenda rossa che il giudice portava sempre con sé e di cui i familiari denunciano fin da subito la scomparsa.
Nonostante questi evidenti errori investigativi, già il 13 agosto il Sisde di Palermo comunica di aver individuato l’automobile usata per la strage e la carrozzeria dove era stata preparata. Il 29 settembre 1992 viene presentato al pubblico il “colpevole”: ha 27 anni, si chiama Vincenzo Scarantino ed è accusato da altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza sessuale. Il procuratore di Caltanissetta e titolare dell’inchiesta Giovanni Tinebra annuncia l’arresto di Scarantino esaltando il “lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio”.
La figura di Scarantino però è ben lontana da quella dell’oscuro e potente cattivo, anzi è una vera delusione, e sa di costruito. Si tratta di un ragazzo, di modestissimo livello intellettuale, che è stato bocciato tre volte alle elementari e si guadagna da vivere come piccolo spacciatore non affiliato a Cosa Nostra, anche se nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove ha la fama dello scemo. Perché Cosa Nostra avrebbe dovuto affidare un omicidio così importante a uno come lui? C’è però la confessione, e col passare del tempo l’improbabile Scarantino viene presentato dalla Procura come fine stratega, reclutatore, addirittura invitato alle riunioni della Cupola. I giornalisti obiettano, fanno domande, in città sanno che Scarantino è uno che ruba macchine per pagarsi l’eroina. Ma nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra ribadisce: “Scarantino non è uomo di manovalanza”.
Il 3 gennaio 1994 la procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio delle quattro persone a suo dire responsabili di avere partecipato alla strage di via D’Amelio: il presunto boss Salvatore Profeta, suo cognato Vincenzo Scarantino, Pietro Scotto e Vincenzo Orofino. Sei mesi dopo, arriva la notizia del pentimento di Vincenzo Scarantino, che è possibile datare al 24 giugno 1994. Il 26 luglio 1995 il pentito viene rintracciato da un giornalista di Studio Aperto a cui dichiara di aver “deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più, perché ho detto tutte bugie. Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto nei giornali e ho montato tutta questa cosa”. Alla domanda del giornalista che lo ha rintracciato se “quindi sono tutti innocenti quelli che lei ha nominato?”, Scarantino risponde: “Tutti innocenti, me ne vado in carcere e lo so che mi faranno orinare sangue e mi faranno morire in carcere. Però morirò con la coscienza a posto”. Il giorno dopo, Scarantino fa marcia indietro: “È stato solo un momento di sconforto, confermo la mia volontà di collaborare con la giustizia”. Lo dice al pubblico ministero di Caltanissetta Carmelo Petralia.
Nonostante i dubbi sull’onestà di Scarantino – espressi anche da Ilda Boccassini, anche lei in quel periodo a Caltanissetta – il 27 gennaio 1996 arriva la prima sentenza per la strage di via D’Amelio: ergastolo per Orofino, Scotto e Profeta. Vincenzo Scarantino viene condannato a 18 anni di reclusione. Con ordinanza separata, la Corte concede la scarcerazione di Scarantino, già da tempo detenuto in una struttura extra-carceraria, osservando che con “la sua scelta di collaborare ha rotto ogni legame con gli ambienti criminali”. Scarantino continua a smentirsi, poi a ritrattare, poi a denunciare, emergono testimonianze di pressioni sulla sua famiglia, di verbali ritoccati a piacere dai poliziotti. Ma ogni anomalia riscontrata viene attribuita alla mafia stessa. Il pm Nino Di Matteo scrive in una requisitoria che le ritrattazioni dell’imputato sono “tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene”, che “la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”. Poco importa che dopo aver interrogato Scarantino per un altro caso, il procuratore di Palermo Sabella lo avesse invece ritenuto “fasullo dalla testa ai piedi”.
E invece in tutti i gradi successivi del processo – il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità, e quindi la colpevolezza, di Scarantino viene certificata da qualcosa come ottanta giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Nonostante continuino a venir fuori passaggi inquietanti, come quello del verbale aggiustato del 1994, oggetto anche di un’interrogazione parlamentare che aspetta ancora la risposta dell’allora governo D’Alema, Scarantino riesce solo a ottenere altre condanne: addirittura il 22 novembre 2002 viene condannato a otto anni di reclusione dal Gip di Roma Renato Croce per calunnia nei confronti dei pm palermitani Anna Palma, Carmelo Petralia e di Arnaldo La Barbera, che muore il 12 dicembre di quell’anno. Prima di morire però, anche e soprattutto grazie ai “meriti” nell’inchiesta su via D’Amelio, era diventato prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto e capo dell’Ucigos della polizia, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali. Le ultime immagini pubbliche di La Barbera sono sempre di luglio, ma del 2001. Si distingue come uno dei macellai dell’assalto della scuola Diaz durante il G8 di Genova.
Sembra tutto finito, ma il 15 ottobre 2008 diventa ufficiale il pentimento di Gaspare Spatuzza, killer del gruppo di fuoco dei fratelli Graviano, boss di Brancaccio. Spatuzza fa una rivelazione che spiazza e sbugiarda definitivamente Scarantino: “Fui io a rubare la 126 usata come autobomba per la strage di Via D’Amelio. A commissionarmi il furto furono i fratelli Graviano”. Le dichiarazioni di Spatuzza trovano riscontro in tutti i punti che riguardano la strage di via D’Amelio: Scarantino è un falso “pentito” a cui troppi magistrati hanno creduto, in modo cieco. Spatuzza continua a fornire prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con l’“attendibilissimo” pentito Scarantino. Così facendo, apre delle profonde crepe sul processo che in teoria è già concluso definitivamente per mandanti ed esecutori della strage. Pur nell’imbarazzo generale, la Procura di Caltanissetta decide di riaprire le indagini sulla strage di via d’Amelio: nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Scarantino, Candura e Andriotta avevano dichiarato ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dal questore Arnaldo La Barbera e dal suo gruppo investigativo, che li avevano sottoposti a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso. Gli ergastolani vengono quindi scarcerati – alcuni hanno già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato – ma non assolti, la condanna per mafia resta.
Nel 2013 si apre il quarto processo per la strage di via d’Amelio, denominato “Borsellino Quater” e ribattezzato processo sulla Trattativa, che vede imputati Vittorio Tutino, Salvatore Madonia e gli ex collaboratori Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Il 13 luglio 2017 si è conclude con l’assoluzione di tutti gli imputati. La sentenza della Corte di Assise definisce quello sulla strage di via D’Amelio “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Un depistaggio che non si è ancora concluso. Oggi però abbiamo la certezza che “Soggetti inseriti negli apparati dello Stato” abbiano indotto Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. La corte d’assise non fa nomi, però scrive: “Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata”.
Per questo oggi, dopo ventisette anni a giudizio ci sono già tre poliziotti come Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di depistaggio – e il Ministero dell’Interno ha deciso di non costituirsi parte civile contro di loro, senza nemmeno sforzarsi di provare a “lanciare un segnale contro le mele marce”. Sotto indagine per concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa Nostra sono finiti anche gli ex pm di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia, entrambi nel 1992 nel pool di magistrati che stava indagando sulla strage di via D’Amelio.
Troppo spesso gli anniversari della morte di persone come il giudice Paolo Borsellino servono a far dimenticare le nefandezze compiute da chi quelle persone avrebbe dovuto proteggerle e tutelarle. Ma è proprio a causa di quella mancata protezione prima, e di oscure manovre poi – che forse non conosceremo mai – che si è reso possibile un depistaggio che ha impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni rimasti ancora impuniti. È questo che oggi dovremmo ricordarci oggi. Per far sì che non accada mai più.