Tra cessate il fuoco ripetutamente violati, corridoi umanitari interrotti e negoziati dagli scarsi risultati, la guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina sembra ben lontana dalla conclusione. Come è inevitabile in situazioni come questa, la propaganda è uno strumento adottato da entrambe le parti in lotta, con le notizie sempre più difficili da verificare sul campo. La Russia ha perfezionato l’uso della propaganda e della disinformazione come strumento bellico nel corso dei decenni, e questo è evidente anche per quanto sta accadendo in Ucraina.
Tra le espressioni più ricorrenti utilizzate dalla narrazione ufficiale russa, ci sono quelle per cui l’“operazione militare speciale” – come è ufficialmente definita in Russia, dove è stato vietato il termine “guerra” – sarebbe volta a denazificare l’Ucraina, il cui popolo sarebbe un popolo fratello di quello russo, se non lo stesso, motivo per cui serve la loro riunificazione. Si tratta di mistificazioni, che vanno al di là delle posizioni politiche: basta guardare alla storia ucraina e alla composizione del Paese per rendersene conto. Il Presidente della repubblica ucraino stesso è una figura emblematica della popolazione: di origine ebraica, Volodymyr Zelenskyy è nato nell’Est del Paese ed è un madrelingua russofono, avendo imparato l’ucraino solo una volta arrivato alle scuole dell’obbligo. È lo stesso per circa un terzo degli ucraini, che non per questo si identificano come russi. Gran parte della popolazione conosce entrambe le lingue – anche perché al momento dell’indipendenza dello Stato ucraino si decise di non fare discriminazioni, concedendo la cittadinanza ucraina a chiunque risiedesse sul suolo ucraino al momento dell’indipendenza dall’Unione sovietica nel 1991 – e le usa in maniera intercambiabile. Paradossalmente, solo negli ultimi anni la lingua ha assunto un peso crescente nell’identità nazionale ucraina: dal 2014 – anno dell’annessione russa della penisola di Crimea e del conflitto nel Donbass – si è assistito a un aumento della predilezione per la lingua ucraina, soprattutto presso i giovani impegnati, come un atto politico. Già questo è un segnale del fatto che, se Putin vuole negare l’identità ucraina, sta ottenendo l’effetto opposto rafforzandola presso gran parte degli ucraini.
Storicamente, quello ucraino è un territorio multietnico, multilinguistico e multinazionale: fino al 1941, per esempio, vivevano in Ucraina 1,5 milioni di cittadini di religione ebraica, il ramo locale di quella che a lungo è stata la diaspora più consistente e distribuita d’Europa, prima di essere cancellata dalle deportazioni attuate dall’Unione Sovietica prima e poi dalla Germania nazista che, con l’Operazione Barbarossa, nel 1941 invase l’Unione sovietica. Fino ad allora, la comunità ebraica era fortemente attiva e integrata nella vita culturale, economica, produttiva e sociale dell’Europa orientale. Questo nonostante già l’impero zarista usasse lo strumento delle deportazioni per ridisegnare e controllare il territorio e la popolazione, mentre i pogrom si sono verificati ciclicamente nel corso dei secoli, ben prima dell’odio sistematizzato dell’epoca nazista.
Parlando di nazismo, e della missione di Putin di denazistizzare l’Ucraina, va riconosciuto che nel Paese, come in molti altri Stati europei, esistono gruppi neonazisti che, oggi, proprio in virtù della loro organizzazione paramilitare, sono stati integrati nella guardia nazionale ucraina. Il più famoso è probabilmente il Battaglione Azov – inizialmente un battaglione di volontari ultranazionalisti, in buona parte esplicitamente neonazisti – balzato agli onori delle cronache a partire dal 2014 e dallo scontro tra governo ucraino e repubbliche russofone di Donetsk e Lugansk nel Donbass.
Quel che Putin coscientemente trascura è che, a livello politico, tutti i movimenti neonazisti ucraini messi assieme non hanno ottenuto che un consenso solo marginale alle elezioni del 2019. Elezioni libere, perché l’Ucraina è riuscita, nella sua breve storia di Stato indipendente, a costruirsi una democrazia che, soprattutto dal 2014, è diventata solida e partecipata – pur con grossi difetti, tra cui la corruzione diffusa. Il Presidente russo, riferendosi con insistenza alla presenza di nazisti e “tossicodipendenti” nel governo dell’Ucraina tenta da un lato di rinfocolare l’odio russo (e ucraino) mai sopito contro l’invasore nazista durante la Seconda guerra mondiale, e dall’altro di rivitalizzare tra i suoi cittadini il patriottismo che si rifà al ruolo giocato dall’Unione sovietica nella liberazione dell’Europa dal nazifascismo, come ha sottolineato sul Time lo storico Timothy Snyder, esperto di Europa orientale.
Per di più, è proprio in Russia che la presenza dei neonazisti si sta radicando sempre di più anno dopo anno: uno dei gruppi più influenti è il Movimento Imperiale Russo, organizzazione ultranazionalista filo-monarchica con tanto di campi di addestramento che vorrebbe addirittura il ritorno degli zar. Anche se si tratta di un gruppo in apparenza ostile a Putin, gli esperti ritengono che il Presidente non la smantelli perché utile a creare problemi in Occidente, dove tesse legami con gruppi neonazisti locali, tanto che nel 2020, il Dipartimento di Stato statunitense l’ha designato come gruppo terroristico globale. Paradossalmente, proprio l’invasione russa per denazificare l’Ucraina potrebbe avere l’effetto di rafforzare i movimenti estremisti di destra in Russia, Ucraina e, per effetto domino, in tutta Europa.
L’altro topos che ricorre nei discorsi di Putin è che i russi e gli ucraini sono lo stesso popolo. E per certi versi potrebbe anche essere vero, a uno sguardo superficiale: i cittadini russi e ucraini stessi si considerano fratelli e sorelle, si capiscono l’un l’altro e tantissime famiglie hanno radici miste e parenti e amici da una parte e dall’altra del confine. Proprio per questo lo scoppio della guerra ha lasciato molti di loro attoniti: al netto della propaganda martellante, da entrambe le parti l’incredulità è il sentimento predominante. L’aggressione russa, però, rimanda nella memoria collettiva ucraina alla tragedia dell’Holodomor, la grande carestia causata delle politiche di Stalin, che in quello che era noto come il granaio dell’Unione sovietica causò tra il 1932 e il 1933 circa sette milioni di morti per fame, secondo alcune stime.
Con queste premesse, l’idea di andare a convincere con la forza gli ucraini ad accettare di essere russi non solo non è efficace, ma è un’azione imperialista e anacronistica. Anzi, se prima l’Ucraina era fragile e divisa, con la sua “operazione militare speciale” Putin ne sta favorendo il rafforzamento, nutrendo anche un’opposizione sempre più convinta alle politiche russe che va anche oltre i confini, raggiungendo gli altri Paesi ex sovietici. Non a caso, di fronte allo scenario di guerra, si sono affrettate a presentare la loro domanda di adesione all’Unione europea anche la Moldavia e la Georgia, mentre persino la storicamente neutrale Finlandia ha iniziato a riconsiderare la sua posizione valutando l’adesione alla NATO.
Questa violazione del principio dell’autodeterminazione dei popoli ed espansionismo violento contribuiscono a isolare ancor di più la Russia, che si ostina a mantenere un approccio Novecentesco nella sua politica estera, ignorando le ripercussioni che questo può avere in un mondo globalizzato e sempre più interconnesso. Infatti le pesanti sanzioni inflitte dalla comunità internazionale stanno già colpendo l’economia russa e la sua popolazione. Sembra che il Presidente Putin abbia anche sottostimato il potere dei media – dalle fughe di notizie, che sono inevitabili anche con la più efficace delle censure, al soft power del carisma in mondovisione del Presidente ucraino Zelensky. In un mondo in cui la politica internazionale si gioca sull’economia e il soft power, un’azione militare di vasta portata come quella intrapresa da Vladimir Putin fa un effetto straniante, soprattutto tra i cittadini europei.
L’invasione russa dell’Ucraina, al di là di ogni possibile scenario, motivazione e schieramento, è la dimostrazione di cosa succede se si sacrifica l’onestà intellettuale e storica sull’altare della propaganda. Per ora, il risultato sono città distrutte, migliaia di vittime civili e un flusso di profughi che l’Onu prevede raggiungerà i quattro milioni, mentre sul medio periodo alle macerie e alle vittime si aggiungeranno conseguenze economiche pesantissime per i russi, ma anche per i Paesi che applicano le sanzioni. Per evitare tutto questo, una visione più obiettiva e meno utilitaristica della storia sarebbe stato un buon inizio per evitare la catastrofe in corso da due settimane. E forse, potrebbe essere un buon punto di partenza per mettervi fine.