L’aborto deve tornare a essere un tema collettivo per non lasciare sole le donne a chi le ostacola - THE VISION

Nel 1973 a Padova si celebrò un processo per aborto nei confronti di una ragazza di ventitré anni, Gigliola Pierobon. Gigliola aveva abortito a diciassette anni e, chiamata a testimoniare su un’altra vicenda, confessò di aver interrotto la gravidanza presso una delle cosiddette “mammane”, le donne che allora praticavano gli aborti al loro domicilio. All’epoca, tutti gli aborti erano clandestini: era infatti ancora in vigore l’articolo del codice Rocco che considerava l’aborto un “reato contro l’integrità e la sanità della stirpe”, punibile dai due fino ai cinque anni di reclusione. Nonostante fosse un reato, però, era molto raro arrivare a un processo per aborto e i giudici di Padova, che avevano dovuto procedere proprio per le circostanze particolari della “confessione” di Gigliola, avevano intenzione di svolgerlo nella maniera più discreta possibile. 

Tuttavia, la donna, militante nel gruppo di Lotta Femminista, decise con le sue compagne di trasformare il suo processo nell’occasione per portare il tema sotto i riflettori del dibattito pubblico, creando clamore e attenzione su una vicenda considerata intima e privata. “Non sono la sola ad aver subìto tale violenza. Questo è un affare privato che è diventato un processo pubblico contro noi tutte”, dichiarò Pierobon all’epoca. Gigliola trovò la solidarietà anche di tante donne comuni. In una lettera al quotidiano locale Il Gazzettino, una donna scrisse che sarebbe andata ad assistere all’udienza dopo aver visto un volantino scritto dai gruppi femministi: “Quel volantino mi ha fatto vedere il problema dell’aborto in una prospettiva sociale che spesso, quando si parla di questo argomento, viene nascosta da cavilli e sofismi. È sempre solo la donna a pagare per le sofferenze di una società che – non dimentichiamolo – ha proibito fino a pochissimo tempo fa la diffusione degli anticoncezionali, che tiene la donna in condizione di dipendenza economica e che educa il maschio all’egoismo e all’aggressività nei confronti delle donne”.

Il processo a Gigliola Pierobon fu molto importante proprio perché per la prima volta il problema dell’aborto veniva rimosso dalla sfera privata e portato in quella pubblica, diventando un “processo a tutte le donne”. In seguito ci furono diversi altri casi, come il disastro di Seveso, che contribuirono ad aprire il dibattito pubblico sull’urgenza di una legge sull’aborto, ma nel 1973 si trattò di un’operazione del tutto originale.

Oggi diamo per scontato che l’aborto sia una questione politica, che ha mobilitato piazze, tribunali e aule di parlamento, ma si tratta di una conquista piuttosto recente, in parte dovuta alla lunga battaglia che ha portato alla sua depenalizzazione, in parte al progresso della scienza. Per tutta la storia dell’umanità, l’aborto è invece esistito come una questione privata che riguardava soltanto le donne e il loro corpo, senza che venisse pubblicamente affrontata da un punto di vista morale o legale. I dibattiti in questo senso si sono intensificati nella prima metà del Novecento, quando c’era la necessità di legiferare sull’aborto. Ora, invece, in un’epoca in cui le leggi sull’aborto sono in vigore da anni, assistiamo quasi al movimento inverso, come se l’interruzione di gravidanza stesse tornando nella sfera del privato, ma con conseguenze per certi aspetti molto più negative rispetto al passato.

Nel suo libro Ourselves Unborn, la professoressa di storia del Williams College del Massachusetts Sara Dubow fa iniziare la storia di ciò che chiama “feto pubblico” alla fine dell’Ottocento, quando si capisce come funziona nel dettaglio la riproduzione umana. Ovviamente, gli antichi sapevano già cos’era un feto e avevano collegato la sua esistenza al rapporto sessuale. Nel De generatione animalium, Aristotele trae le sue conclusioni sull’embrione umano osservando lo sviluppo di un pulcino, sostenendo che esso nasca dall’incontro tra il seme maschile e il sangue mestruale. Solo a metà del Seicento l’anatomista William Harvey capirà che sono le ovaie le responsabili della riproduzione. Per tutto questo tempo l’embrione è stato descritto come “una massa omogenea”, fino a quando, con la progressiva diffusione della dissezione dei cadaveri e con l’identificazione dell’ovulo nel 1827, si sviluppa l’embriologia. Medici, scienziati e anatomisti cominciano ad appassionarsi al tema e a collezionare feti in formaldeide. Lo scopo di questo interesse non era solo scientifico, ma anche politico: si voleva infatti dimostrare che i feti delle classi più elevate fossero diversi da quelli della gente comune, per trovare ulteriore conferma delle teorie eugenetiche.

Dubow fa notare come la legislazione dell’aborto vada di pari passo con questo avanzamento scientifico, man mano che l’embrione e il feto da “masse omogenee” e misteriose diventano persone in miniatura. Lo sviluppo delle diagnosi prenatali e dell’ecografia segnerà il trionfo di questa visione sempre più personificata del feto, dal momento che esso può essere visto con i propri occhi mentre si muove all’interno dell’utero e non più solo come un esemplare inerte (e spesso deforme, visto che i feti che venivano conservati erano soprattutto quelli con malattie che ne avevano impedito lo sviluppo). Da lì in poi non solo l’aborto verrà regolamentato con provvedimenti sempre più specifici e minuziosi, ma anche l’esistenza stessa del feto verrà normata attraverso una serie di leggi che tendono ad attribuirgli diritti e capacità giuridiche. 

Prima dell’intervento diretto della legge, l’aborto era un fatto privato, non solo perché di fatto si sapeva poco o nulla di ciò che avveniva nel grembo materno, ma anche perché tutto ciò che riguardava la gravidanza veniva considerato di pertinenza esclusiva delle donne. Il tabù del parto, il pudore e l’ignoranza garantivano loro la possibilità di interrompere la gravidanza senza che nessuno lo venisse a sapere. L’aborto era considerato riprovevole dal punto di vista morale e religioso, ma non era un argomento di dibattito pubblico, né tantomeno politico. Comincia a esserlo quando la sessualità viene usata come un dispositivo di sorveglianza attraverso i processi di regolamentazione e medicalizzazione che Michel Foucault ha descritto nella sua Storia della sessualità. L’aborto allora smette di essere un fatto privato e diventa prima questione di morale e poi questione di diritto.

La pubblicità dell’aborto ha portato a grandi benefici per le donne e per la società: laddove l’aborto è legalizzato, è una procedura sicura e generalmente accettata, o comunque tollerata. Tuttavia, il fatto che l’aborto sia oggetto di legge o che in passato sia stato oggetto di dibattito pubblico, non ha impedito che gradualmente ritornasse a essere un fatto privato, come dimostra il caso italiano. La maggior parte delle donne non sa come accedere all’interruzione di gravidanza o quali sono i suoi diritti, e ogni giorno si verificano gravi violazioni dell’autodeterminazione senza che nessuno se ne accorga. La legge che dovrebbe consentire alle donne di interrompere la gravidanza le ostacola nella loro scelta, ma il dibattito sulla possibilità di superarla è impossibile. Sembra avverata la predizione delle femministe di Rivolta femminile nel 1972: come la donna viene lasciata sola ad affrontare una gravidanza indesiderata, così verrà lasciata sola ad abortire.

Nel suo libro Aborto. Il personale è politico, la femminista francese Pauline Harmange – autrice del controverso pamphlet Odio gli uomini – parla proprio della solitudine che ha provato quando ha compiuto questa scelta. Per Harmange, l’aborto è stato doloroso non perché si sia pentita di averlo fatto, né perché abbia trovato ostacoli sul suo percorso, ma perché accompagnata dalla sensazione che “l’aborto non esiste”. La solitudine di Harmange cade nel momento in cui decide di parlare pubblicamente del suo aborto, superando la vergogna interiorizzata e accettando il lutto, non di un ipotetico figlio, ma dell’idea che si era fatta di se stessa prima di abortire. Nella prefazione all’edizione italiana, scritta da Angela Balzano e Valentina Greco, le due ricercatrici e attiviste sottolineano la necessità di riferirsi a un “noi politico” quando si parla di aborto. Strappando l’aborto alla dimensione personale e individuale, pur continuando ad accoglierla, si deve perseguire la strada della giustizia riproduttiva, dove l’io che ha abortito fa parte di un noi più grande.

Questa dimensione è necessaria di fronte al rischio del riflusso nel privato dell’aborto. Negli Stati Uniti, il diritto di aborto si è sgretolato anche per questo motivo. Reggendosi sulla premessa che l’aborto è una questione privata su cui lo stato non deve intervenire, la sentenza Roe v. Wade lo ha esposto al pericolo di cancellarne il diritto, come infatti è avvenuto. In Italia, a differenza degli Stati Uniti, una legge sull’aborto c’è e non sembra essere messa in discussione, ma i modi per ostacolare nei fatti l’aborto esistono proprio nella dimensione privata, nel momento in cui la donna si trova sola ad abortire, spesso senza essere stata informata dei suoi diritti e a volte nemmeno delle procedure mediche necessarie. Come durante il processo a Gigliola Pierobon nel 1973 è necessario che l’aborto ritorni a essere un fatto pubblico, dando un vero seguito allo slogan “Il personale è politico”. Altrimenti, che ci sia o meno una legge cambia poco: le donne saranno lasciate sole ad abortire o, peggio ancora, sole di fronte a qualcuno che cerca di convincerle che non ne hanno diritto.

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