È uno stillicidio di cifre e percentuali, che suona quasi come una preghiera da Via Crucis, cantata sotto casa tua mentre stai cercando di dormire. Una pistola da affondare nella guancia dell’avversario per minacciarlo. È lo spread. Le ultime notizie lo danno a 240, Piazza Affari in picchiata.
Era il 2011, il differenziale di tassi d’interesse che s’impennava e Silvio Berlusconi che lasciava Palazzo Chigi con gran sollievo della sinistra istituzionale. Il Fatto Quotidiano, che oggi minimizza l’aumento dello spread in seguito alle proposte di Lega-Cinque Stelle prossimi al governo, sette anni fa riprendeva i festeggiamenti sotto Montecitorio: “AEIOUY”, era l’hashtag della liberazione. Oggi più che allora, lo sguardo del lettore è affranto: tra lo spaesato e il sorpreso, come di chi non si rende conto di quel che gli succede, e del perché gli succede, di nuovo. Certo, se Salvini e Di Maio volevano capire quanto fosse debole il nostro sistema economico e quanto i mercati potessero prendere sul serio la loro minaccia sfascista, in questi giorni ci sono riusciti. Il punto è comprendere cosa e quanto abbiano capito chi li ha votati.
In finanza lo spread fra due quotazioni di un titolo o due tassi di interesse, quello di cui si parla incessantemente in questi giorni, è la differenza tra il rendimento del Btp, un titolo pubblico italiano a scadenza decennale, e quello del suo corrispondente tedesco, il Bund. Ad esempio, dire che lo spread è di 340 punti (il livello massimo raggiunto il 30 maggio) significa dire che un Btp rende il 3,4 per cento in più rispetto a un Bund. L’emissione di titoli da parte degli Stati per finanziare tutta una serie di attività che altrimenti non potrebbero essere coperte con le tasse è una pratica vecchia di secoli, soprattutto in Occidente. Questi titoli vengono comprati da banche, compagnie private, famiglie e semplici cittadini, che di fatto diventano creditori dello Stato. Più è solido e affidabile lo Stato in questione più è facile che esso trovi cittadini disposti a prestargli denaro: il rendimento non è altro che la remunerazione di guadagno prospettata per convincerli.
Non esiste dunque alcuna entità astratta che preme un bottone e decide se far scendere o salire questo spread: il suo valore è dato dai prezzi dei titoli in circolazione nel mercato, che vengono scambiati in volumi enormi da una miriade di soggetti. E se la Germania è stata scelta come punto di riferimento è semplicemente perché viene considerato uno dei Paesi più stabili e sicuri dal punto di vista finanziario. L’Italia, no. Ecco spiegato perché in queste ultime tre settimane i rendimenti dei titoli di Stato italiani sono aumentati, mentre quelli tedeschi sono rimasti stabili. Come evidenziato da numerosi analisti, quello che sta succedendo è che gli investitori hanno preso sul serio la minaccia di Lega e Cinque Stelle di non ripagare il nostro debito pubblico.
Eppure, non sono pochi a ritenere che lo spread sia la dimostrazione che l’Unione Europea altro non è che un castello volutamente oppressivo e terrorizzante; una vera gabbia. Prova ne sarebbe il “mordi e fuggi” degli speculatori stranieri, con la Banca centrale europea che ci lascia picchiare senza muovere un dito, come un poliziotto cattivo.
A far montare la rabbia è che è crollato tutto nelle ultime settimane: se è vero che la nostra è un’economia ancora molto fragile rispetto a quella degli altri grandi Paesi europei, che pian piano sembrano uscire dalla crisi, va anche aggiunto che non siamo in mezzo a una crisi drammatica come quella dei mutui americani nel 2008. Il nostro deficit è sotto controllo, la crescita è lenta, ma c’è. E invece, nel giro di pochi giorni, siamo passati dal considerare l’uscita dall’euro come un tabù, negata da tutti i partiti in corsa alle elezioni del 4 marzo, all’Italexit come una decisione da prendere di nascosto, e al tempo stesso quasi banale, senza dibattito. Un harakiri.
È su questi termini di segretezza e irresponsabilità che si è giocato lo scontro tra Mattarella e l’alleanza giallo-verde, con la proposta del professore Paolo Savona – uno dei principali e al tempo stesso più controversi proponenti dell’uscita dall’euro – al Ministero dell’economia. Se il veto del presidente della Repubblica su Savona rappresenti una scelta politicamente nefasta, lo vedremo. Di certo ha il merito di aver rivelato al mondo intero la fragilità della democrazia italiana, e anche come una possibile scelta epocale di uscire dall’euro si fondasse sullo scavalcamento di un confronto serio tra partiti. Una presunta sfida ai burocrati di Bruxelles congegnata da apprendisti stregoni, tenendo all’oscuro i cittadini dalle conseguenze della scelta, e soprattutto sulla loro pelle.
Ma in realtà, più che il ripudio della moneta unica, a determinare l’aumento vorticoso dello spread sembrerebbe la maggiore velocità di deterioramento dei conti pubblici in Italia. In fondo, ogni singola proposta di quel famoso “contratto” di governo è un orrore devastante dal punto di vista sia politico che finanziario: un’agenda dove, fra le altre cose, si vogliono conciliare l’abbassamento dell’età pensionabile, un reddito di cittadinanza e una riduzione drastica delle entrate fiscali senza la minima copertura finanziaria. Quindi, anche senza prendere sul serio l’Italexit – che causerebbe una conversione dei titoli di Stato nella più debole lira, e quindi uno spread infinito – quello che fa mettere le mani nei capelli ai possessori di titoli di Stato è che in quel progetto di governo c’è il ritratto di un Paese che non solo non vuole più crescere, evolversi, aprirsi al mondo, e tanto per cambiare non dare garanzie di pagamento, ma che si abbandona a un cupio dissolvi.
Nella discussione sullo spread si è infilata una formula retorica potentissima, diffusa trasversalmente da destra a sinistra: l’idea che lo spread sia un problema riguardante un numero limitatissimo di persone, una élite di speculatori che usano gli strumenti dell’informazione di massa per terrorizzarci e costringerci a votare i partiti mainstream, i responsabili del disastro attuale. Un numero sempre crescente di italiani è convinta che il mercato altro non sia che una combriccola di banchieri riuniti in qualche misterioso club per soli uomini, presieduto da burocrati di affiliazione massonica e, perché no, che sorvegliano e manipolano milioni di sfruttati vittime dell’ingiustizia. La capacità di Lega e Cinque Stelle sta nell’aver conquistato una vera e propria egemonia tra le fasce sociali demografiche e professionali più disparate: dagli operai agli insegnanti, dai piccoli imprenditori del Nord ai disoccupati del Sud. Tutti uniti nell’identificazione con gli oppressi da parte di un nemico esterno: la casta, gli immigrati, l’Europa. Questa abilità indubbia dei gialloverdi rappresenta oggi il loro potere di ricatto, la loro dinamo trainante nello scontro con le istituzioni. E che, credo, potrebbe essere anche la loro rovina.
Questo perché, pesto o tardi, chi ha votato populista, proverà in prima persona quali sono gli effetti che produce un aumento dei rendimenti – e dunque dei tassi d’interesse – dei titoli di Stato tra la famosa “gente comune”, che Lega e Movimento 5 Stelle credono di poter rappresentare e sobillare meglio di chiunque altro. La prima conseguenza è un maggiore impegno finanziario a carico dei conti pubblici. E in una situazione di notevole debito pubblico come il nostro, va da sé che non è una cosa rassicurante. Man mano che cresce il tasso d’interesse, servono più soldi per remunerare il debito: per quanto riguarda i Btp già in circolazione, lo Stato paga gli interessi fissati al momento dell’emissione. Ma quando lo spread cresce, questo deve emetterne di nuovi, con interessi e rendimento più alti, per convincere gli investitori a comprarli. E così, all’emissione di nuovi titoli di Stato, diventa più gravoso il debito pubblico. A quel punto si dovranno cercare altri modi per finanziarsi: svendendo il patrimonio pubblico, o aumentando le tasse – che sono già altissime così.
Tralasciando per un attimo la prospettiva di una privatizzazione disperata delle aziende pubbliche, cosa può determinare una maggiore tassazione in un’economia debole e con i redditi da lavoro della classe media già vessati, se non altra stagnazione, imprese che assumono di meno, e meno reddito circolante? Ce la immaginiamo, poi, l’Italia della Casaleggio Associati, degli amici di Putin al governo, isolata dall’Europa, che va a caccia dei grandi evasori e che fa la voce grossa ai furbetti di Google e Amazon? Lo scenario più probabile vedrebbe ricominciare l’aumento dei tassi d’interesse, un’ulteriore svalutazione, in un circolo vizioso difficile da rompere. Fino ad arrivare al famigerato default.
Ma se anche lo Stato non andasse in bancarotta e il debito pubblico restasse invariato, l’aumento dei tassi di interesse avrebbe comunque conseguenze reali nell’economia di tutti i giorni. Quando il tasso d’interesse dei titoli emessi sale, il loro prezzo diminuisce. Questo perché, semplificando molto, all’aumentare dei tassi i titoli già posseduti dovranno essere venduti a un prezzo inferiore di quello di acquisto. In altre parole chi possiede un titolo di Stato, con l’aumento dello spread ne vedrà diminuire il valore. Se lo spread Btp-Bund aumenterà, le famiglie detentrici dei circa 120 di euro in debito pubblico – non soltanto elettori di Pd e Forza Italia, c’è da giurarci – non passeranno bei momenti. Ma anche chi non ha Bot o Btp in portafoglio finiranno per essere travolti, per via delle banche che concederanno prestiti e mutui più difficilmente, e a tassi d’interesse più elevati. Per chi ha già mutui a tasso fisso non cambierà molto. Quelli che li hanno a tasso variabile, ancorati all’Euribor, che indica il tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in euro tra le principali banche europee, rischiano di vedere la propria rata salire a causa del peso non indifferente dell’economia italiana, che potrebbe creare un vero contagio a livello continentale.
Per quanto riguarda le banche italiane, che hanno in cassaforte circa 300 miliardi di euro in titoli di Stato, un aumento dello spread comporterebbe una forte svalutazione del loro portafogli. Concretamente, vorrebbe dire un aumento inevitabile dei costi del credito a famiglie e imprese, con più difficoltà a finanziare l’apertura di piccole e grandi attività, acquisto di case, ristrutturazioni. Ma se il tasso d’interesse del Btp sale, trascina con sé al rialzo anche tutti gli altri tassi d’interesse, sia pubblici che privati. Si riesce così a capire perché, negli ultimi giorni, abbiano subito diversi scossoni anche i corporate bond, vale a dire i prestiti obbligazionari emessi da una società privata per finanziare, ad esempio, una fusione o un’acquisizione.
Il famoso “buon senso” della gente, spesso evocato per giustificare qualunque porcheria demagogica in campagna elettorale, potrebbe spingere i cittadini a puntare gli occhi sui titoli di uno Stato sempre più malconcio – dai rendimenti però sempre più alti – piuttosto che sulle obbligazioni private. Nell’immediato, questo si tradurrebbe in una fuga di capitali dalla piccola e media impresa, che in questo momento regge da sola quasi tutto l’export (nonostante il tanto bistrattato Euro). Ecco un possibile motivo di conflitto all’interno della coalizione di governo: le imprese del Nordest leghista, bisognose di mutui, potrebbero lasciarsi scannare da chi rischia la bancarotta per dare il reddito di cittadinanza al sud grillino. Ma ho i miei dubbi.
Quella sullo spread è comunque un chiaro esempio di comunicazione boomerang. Gli investitori vogliono trasmettere tutta la loro insicurezza per la situazione politica italiana: ma la cronaca dell’andamento dello spread porta ormai chiunque a mettersi nei panni di un cittadino senza potere, oppresso da leggi feroci e incomprensibili. I razionali e gli esperti non sanno spiegarsi; i ciarlatani e i capipopolo invece sì, ma dicono bugie. Intervengono, allora, la dipendenza dalla cultura del complotto, fake news come quella su una Bce che avrebbe smesso di comprare titoli di stato italiani per boicottarci, con il cittadino male informato che ci fantastica su, e dice: “Che sarà mai questo spread? Perché non posso provare a sfuggirne?”. Piuttosto che una volontà di emancipazione, una ricostruzione fantasiosa.
Il punto è che lo spettrale mercato minacciato dallo spread non è solo quello formato da una combriccola di banchieri e illusionisti – come poteva avvenire forse nella prima Italia post-unitaria dominata da un elitismo feroce e castale – ma milioni di risparmiatori cresciuti con il boom economico degli anni Sessanta, salvati dall’iperinflazione dei primi anni Settanta grazie a un alto tasso di occupazione, poi sollazzati nell’allegrissima spesa pubblica degli anni Ottanta, e che adesso, tramite migliaia di fondi di investimento, partecipano alla gestione del risparmio dell’intero pianeta, in una globalizzazione che sarà pure fonte di ricatto ma anche rete di interdipendenza. Lo scenario peggiore ha un nome preciso: recessione, e la patirebbero i più deboli, non certo i pirati della finanza che scapperebbero col bottino.
Questi capitali però per trent’anni hanno fatto crescere – talvolta bene, talvolta male – l’economia europea. Riguardano anche il popolo dei capannoni industriali del Nord-Est, territorio di caccia di Salvini. Nonché la medio borghesia del Sud, culla di Di Maio. Entrambe queste fette di elettorato non vedevano l’ora di scaricare su dei nemici esterni la loro incapacità di essere competitive senza, per esempio, comprimere i salari. Secondo i sovranisti, la Banca centrale europea potrebbe influenzare lo spread acquistando titoli di Stato ad infinitum, tanto per farci un favore. Ma non potrebbe ostinarsi a proteggere un Paese che evidentemente non vuole e non può dare assicurazioni sulla sua credibilità.
È vero, in un certo senso, che lo spread e i mercati ci ricattano. E renderebbero la vita difficile, probabilmente, anche a un governo che voglia fare debito non solo per pagarsi il consenso ottenuto con l’imbroglio e per aprire nuove carceri. Ma lo spread ci fa specchiare anche nella storia del nostro benessere accumulato, e ci costringe a fare i conti con il prezzo che dobbiamo pagare per le nostre rivoluzioni. Una Italexit costringerebbe la parte più benestante della base leghista e grillina a una dolorosissima transizione, riducendo nel primo caso i fondi di investimento e nel secondo i risparmi a carta straccia, lasciando tutti gli altri alla mercé di salari ancora più bassi di quelli attuali, a causa di una svalutazione continua. Dovesse davvero succedere, non si può dire che non ce lo saremmo meritato. Il problema è che, come insegna l’eterno, camaleontico fascismo italiano, la prima tentazione della nostra borghesia declassata non è quella di mettere mano sulla coscienza, ma sul manganello.