Che la realtà attuale sia dominata da un modello di sviluppo iniquo, dannoso e insostenibile dal punto di vista economico, ambientale e sociale non dovrebbe essere certo una novità. Quello che invece è rimasto ampiamente, stranamente inosservato fino a tempi molto recenti è il profondo legame che negli anni è venuto a crearsi tra l’economia neoliberista e qualcosa di cui ci è impossibile fare a meno: il cibo. Il massimo profitto a fronte di investimenti minimi, lo sfruttamento spregiudicato delle risorse ambientali, la precarizzazione estrema di chi opera nel settore, o comunque vi entra in contatto, sono solo alcuni degli aspetti che caratterizzano l’attuale industria alimentare, e la rendono il terreno ideale su cui battersi per riuscire a cambiare radicalmente il mondo in cui viviamo e l’illogica economia che lo governa.
Fino a non troppo tempo fa, ogni territorio produceva solo ciò che le sue caratteristiche geo-climatiche rendevano possibile, e i suoi abitanti avevano un’alimentazione basata prevalentemente su quei prodotti. Oggi, ovviamente, non è più così. Il progresso scientifico-tecnologico, infatti, ci ha fornito strumenti in grado di produrre quantità sempre maggiori di alimenti, in stagioni e zone in precedenza impensabili, con il risultato di poter accedere a qualunque prodotto in qualsiasi momento. Il tutto a un prezzo talvolta insignificante per il consumatore, ma sempre e comunque elevatissimo per il pianeta. Un altro cambiamento decisivo è avvenuto grazie all’ingresso di grandi banche e fondi d’investimento nel settore alimentare. Si tratta di un fenomeno esistente già dagli anni ‘70, ma che ha subìto uno slancio con la crisi economica del 2008, e la conseguente ricerca di beni d’investimento più sicuri e redditizi di quelli tradizionali su cui investire; il caso di Crispin Odey, manager di un importante fondo d’investimento londinese, che all’epoca consigliava la formula del ‘‘vendere le banche e acquistare formaggio’’, è esemplificativo di questa rinata tendenza. Il cibo è andato così trasformandosi da bene primario per la sopravvivenza umana in una semplice merce di scambio, una commodity secondo il linguaggio tecnico, da vendere sui mercati finanziari globali secondo le leggi della domanda e dell’offerta.
Tra i molti che si sono spinti a indagare questo tema troviamo il giornalista Stefano Liberti, che ha condotto un importantissimo lavoro di ricerca con la sua inchiesta del 2016 I signori del cibo: viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta. Liberti ha analizzato, in un viaggio attraverso gli angoli del mondo più interessati dalle conseguenze di questo nuovo sistema di produzione, ciò che si nasconde dietro la filiera di produzione di alcuni alimenti di largo consumo globale, tra cui la carne di maiale e la passata di pomodoro. Ciò che ne emerge è un quadro ai limiti dell’irreale, dove un’industria sempre più omologata produce cibo di pessima qualità, spostando materie prime per decine di migliaia di chilometri, sfruttando oltre le capacità di auto-rigenerazione le risorse ambientali e condannando a un’esistenza sempre più precaria i lavoratori del settore. È una partita interamente giocata sul prodotto finale, che viene portato a prezzi infimi a vantaggio delle aziende produttrici, definite ‘‘aziende locusta’’, a scapito dell’ecosistema mondiale e della qualità della vita dell’uomo.
Uno degli esempi più rappresentativi è quello dell’industria della carne e dei prodotti di origine animale in genere. Questa sfrutta ormai da decenni il modello degli allevamenti intensivi, nato negli anni ’20 negli Stati Uniti e in seguito diffusosi in tutto il pianeta, caratterizzato da strutture nelle quali viene stipato un numero impressionante di esemplari – che stando ai dati dell’Agenzia Americana per la Protezione dell’Ambiente possono superare i 1000 bovini o i 125mila polli per allevamento – la cui esistenza è funzionale alla sola produzione alimentare. Nascita, vita e morte di questi animali vengono quindi scandite dalle richieste del mercato, che ha portato la popolazione mondiale di bestiame a raggiungere l’inedita cifra di 70 miliardi di capi, due terzi dei quali rinchiusi negli allevamenti intensivi.
Allo stesso tempo, dal bisogno di garantire grandi quantità di carne a prezzi stracciati, ha avuto origine un sistematico processo di maltrattamento che tra inseminazioni artificiali, sovraffollamento degli spazi, condizioni di sfruttamento ai limiti della sopravvivenza e crudeltà nella fase di macellazione, difficilmente lascia impassibile anche il più cinico degli osservatori. Ed è bene sapere come le criticità di questo sistema non si limitino alle condizioni in cui vengono a trovarsi gli animali, ma si estendano anche ad aspetti ben più generali e potenzialmente pericolosi. Le emissioni di gas nocivi causate dagli allevamenti intensivi sono ormai ufficialmente considerate la maggiore causa di inquinamento esistente: come documenta Jonathan Safran Foer nel suo noto saggio Se niente importa: perché mangiamo gli animali?, dall’allevamento di bestiame proviene il 18% di gas serra (quasi il doppio di quello prodotto dall’intero settore dei trasporti considerato nel complesso), e il 65% delle emissioni antropogeniche di ossido nitroso, sostanza con un Potenziale di Riscaldamento Globale (GWP) 296 volte superiore a quello dell’anidride carbonica.
Le quantità di liquami prodotte dagli animali – che prima riuscivano a rientrare nel ciclo produttivo attraverso l’utilizzo in agricoltura – sono ormai talmente alte da non poter più essere smaltite senza inquinare: queste vengono così raccolte in enormi vasche a ridosso degli allevamenti, vere e proprie incubatrici – come osserva sempre Foer – di sostanze come ammoniaca, cianuro e metalli pesanti, e di organismi patogeni come salmonella e streptococchi, dalle quali hanno origine gravi contaminazioni delle falde acquifere, esalazioni di vapori nocivi e tassi di malattia e mortalità significativamente elevati per gli abitanti della zona, quasi sempre appartenenti a categorie meno abbienti. Infine, lo spropositato impiego di antibiotici, necessari a prevenire i focolai di epidemie che si sviluppano normalmente tra tanti animali ammassati in un unico spazio, fa sì che la lista di batteri immuni al trattamento farmacologico, sia per gli animali che per gli esseri umani che mangiano la carne imbottita di antibiotici, si estenda sempre più. Un fenomeno che, secondo un noto studio pubblicato su Nature, potrebbe portarli a diventare, entro il 2050, la prima causa di morte al mondo.
D’altra parte, anche nel settore agricolo, le grandi aziende produttrici si sono appellate alla consolidata pratica neoliberista volta a ottenere il maggior guadagno con il minor tempo e investimento possibile, stravolgendo l’intera filiera che oggi porta sulle nostre tavole frutta, verdura e altri prodotti vegetali. I semi vengono uniformati il più possibile, in modo da ottenere il maggior rendimento in termini di aspetto e numero di chicchi, brevettati e in seguito rivenduti ai singoli agricoltori che, dalla Puglia alla Cina, producono il medesimo pomodoro varietà ‘‘Heinz’’ o ‘‘Monsanto’’: un inchino alla richiesta quantitativa che, come per gli allevamenti, ha ridotto drasticamente la varietà e la qualità rispetto alle specie utilizzate in passato. I territori nei quali avviene la coltivazione, inoltre, subiscono stravolgimenti drammatici e spesso irreversibili. E’ quanto è avvenuto nel cerrado brasiliano, disboscato in modo intensivo per fare posto alle piantagioni di soia prima inesistenti. O nella regione di Valparaiso, in Cile, in cui la coltura dell’avocado è cresciuta esponenzialmente (di pari passo con le maggiori richieste dei consumatori occidentali) monopolizzando l’acqua destinata alle popolazioni locali.O, ancora, nelle grandi pianure nordamericane, attraversate dal docente di giornalismo Michael Pollan nell’ambito del celebre libro-inchiesta Il dilemma dell’onnivoro, in cui un complessa commistione di biogenetica e mercato deregolamentato ha portato alla creazione di sterminate monocolture di mais e frumento al servizio delle Corporations, le quali impongono agli agricoltori sementi da coltivare, fertilizzanti da spargere e, soprattutto, miseri prezzi d’acquisto a cui sottostare. Emblematico, in questo senso, è lo sfogo di un coltivatore dell’Iowa intervistato da Pollan riguardo la possibilità di passare a colture diverse: ‘‘E che cosa mi metto a seminare qui? […] L’unico compratore della zona è il silo della cooperativa, e gli posso vendere solo questo. Il mercato mi dice che devo coltivare solo questo. Punto’’. Difficile immaginare un maggiore distacco tra prodotto, produttore e consumatore finale.
Una volta che sono state raccolte, le merci viaggiano per migliaia di chilometri, fino a raggiungere la destinazione in cui la loro vendita si rivela più vantaggiosa: è così che, in un meccanismo parossistico, centinaia di tonnellate di soia partono dal Brasile per arrivare in Cina (e sfamare non la popolazione umana, ma quella dei 700 milioni di maiali rinchiusi negli allevamenti intensivi); intere partite di grano si muovono dal Canada all’Italia, dove gli agricoltori dello stesso cereale ormai sopravvivono solo grazie ai sussidi dell’Unione Europea; e una parte considerevole del pomodoro concentrato prodotto in Cina è inviato nel nostro Paese, lavorato con un banale allungamento a base di acqua e sale e, in seguito, rispedito negli stati africani, dove accordi di libero commercio ne rendono l’importazione estremamente conveniente e i prezzi ridotti all’inverosimile segnano la morte delle colture prima fiorenti sul luogo.
È un modello creato dalla grande industria per la grande industria, e ciò che ne deriva sono prodotti dalle caratteristiche invariate, impoveriti dal punto di vista nutrizionale e del sapore, di provenienza ignota (con etichette che dietro diciture vaghe nascondono la reale zona di produzione di verdure, farine e prodotti animali, specie se in prodotti lavorati) e dagli altissimi costi di produzione. I quali, tuttavia, venendo interamente scaricati sulle spalle dell’ambiente e dei lavoratori del settore – a cui è riservata una frazione ridicola di questo investimento iniziale – riescono comunque a garantire prezzi irrisori sugli scaffali, maggiore inserimento nel mercato dei consumi e alla fine guadagni significativi nelle tasche delle multinazionali produttrici.
Appare evidente, quindi, come il settore alimentare sia oggi interamente subordinato alle leggi del sistema economico capitalista. Il quale, per aumentare gli introiti di pochi e potenti investitori, non si è fatto problemi a sacrificare i diritti di lavoratori e popolazioni, a distruggere la biodiversità ambientale e agroalimentare, a cancellare qualsiasi forma di rispetto per il benessere animale, ad aumentare sistematicamente le emissioni nell’atmosfera e a tralasciare ogni attenzione verso le conseguenze di questa sfrenata corsa all’abbassamento dei prezzi. Per riassumere, non si è fatto scrupoli a piegare il pianeta alle proprie necessità di guadagno, e a distruggerlo giorno dopo giorno.
Ed è così che la sovranità alimentare, nascente filosofia che si propone di offrire a tutte le popolazioni la possibilità di consumare alimenti sani, di provenienza locale e prodotti in maniera sostenibile, si rivela un potente e importante strumento di lotta per chiunque voglia opporsi a questo sistema, dal militante politico al semplice consumatore. I metodi pratici per favorire un consumo alimentare responsabile, a vantaggio della salute personale, del benessere dei lavoratori e della salvaguardia del pianeta, sono molteplici e iniziano a far sempre più breccia nel senso comune. Consumare frutta e verdura di stagione, ad esempio, privilegiare l’acquisto presso produttori locali tramite i Gruppi d’Acquisto Solidale, ridurre il consumo individuale di carne (specie se proveniente da allevamenti intensivi) e preferire alimenti biologici e di produzione equa e solidale sono tutte azioni alla portata di chiunque, che favoriscono attivamente i diritti dei lavoratori, il benessere animale e la sostenibilità ambientale; e si oppongono, per diretta conseguenza, ai meccanismi della grande industria alimentare che hanno declassato questi valori a guadagno dell’élite economica che si configura, attualmente, come principale responsabile dell’impoverimento della società e del pianeta.
In un momento in cui le falde dell’attuale modello economico emergono con sempre più chiarezza e una maggiore quantità di persone guarda con interesse alle implicazioni che questo comporta su ciò di cui ci nutriamo, non è azzardato vedere nella sovranità alimentare una nuova, promettente frontiera della lotta al neoliberismo.