Ogni volta che assaggiamo un babà sentiamo di trovarci davanti alla quintessenza dell’arte dolciaria partenopea, a un simbolo della sua identità culturale. Peccato che, come mi racconta lo storico Andrea Merlotti mentre mi accompagna a visitare la Venaria Reale di casa Savoia, il babà non sia affatto “napoletano”. A inventarlo è stato un re polacco, Stanislaw Leszczyński, suocero di Luigi XV. Leszczyński apparteneva a un’epoca in cui anche ai re era consentito di mettersi dietro ai fornelli per diletto, e siccome era privo di denti, aveva creato un dolce che poteva facilmente mangiare.
Scoprire che il babà non è napoletano potrebbe essere un’esperienza destabilizzante per chi crede che radicate identità siano elementi irrinunciabili, non solo a tavola. Fino a non molti anni fa, il problema delle origini del babà non avrebbe tolto il sonno a nessuno. Finita la guerra fredda, entrata la Cina nella scena commerciale e politica del mondo, la globalizzazione sembrava trionfare ovunque. Soltanto le destre estreme, che contavano pochissimo, continuavano a definirsi “identitarie”, e a sostenere che è inevitabile per la nostra sopravvivenza di nazione dare un senso forte a concetti come “popolo” e “identità”. Solo negli ultimi tempi quello che era un sentimento limitato ha rotto gli argini, e ha conquistato milioni di persone, non solo in Occidente. Milioni di italiani, e di altri cittadini europei, americani e asiatici, sono sempre meno propensi a delegare prerogative a organismi sovranazionali, e la concordia tra gli Stati non è più un obiettivo irrinunciabile. L’equilibrio durato decenni, e che ha dato al mondo un certo livello di benessere e la libertà dalla guerra totale, sembra ora vacillare.
Queste pulsioni stanno tutte sotto un medesimo cappello, che per semplicità chiamiamo “sovranismo”. I sovranisti pensano che i popoli debbano riprendere in mano i loro destini, sottraendosi alle ingerenze e alle influenze di entità sovranazionali, sentite come lontane, egoiste e irrispettose. Certo, nessuno ignora il rischio che tutto questo possa riprodurre pericolosi sentimenti del passato, come lo sciovinismo, il razzismo e la xenofobia. Ma è un rischio che secondo i sovranisti dobbiamo correre, se vogliamo tornare a contare.
È chiaro che il sovranismo, anche nelle sue forme più soft, ha bisogno della cultura identitaria, anche quando nessuno è disposto a farsene carico. Se l’obiettivo è far riappropriare un popolo di ciò che gli spetta, dobbiamo prima di tutto stabilire con chiarezza chi sia quel popolo, chi ne faccia parte e chi no, e quale sia la sua autentica identità, che lo rende diverso da tutti gli altri. Secondo i sovranisti, quindi, senza una precisa identità non potremmo dire chi siamo, che cosa ci appartenga e cosa ci sia estraneo, tracciare un limite preciso tra noi e gli stranieri. Senza una identità certa, insomma, precipiteremmo nel caos, o così almeno pensano i sovranisti.
Definire in positivo la propria identità, però, è molto più complicato che limitarsi ad ammettere che ne sentiamo il bisogno. L’identità di un popolo infatti è un concetto estremamente evanescente. Se non dobbiamo definirla, ci sembra di sapere perfettamente in cosa consista. Ma non appena ci proviamo, brancoliamo nel buio, o ricorriamo a banalità e stereotipi. Di conseguenza i sovranisti si guardano bene dall’esplorare le questioni identitarie, se non in modo superficiale.
Dicono che dobbiamo mettere l’Italia e gli italiani al primo posto, una frase che suona facile e comprensibile, per certi versi ovvia, ma evitano di spiegare chi siano gli italiani, cosa li renda tali, e cosa sia adeguato alla loro vera natura. Il “discorso identitario” infatti è complicato, del tutto inadeguato al dibattito politico quotidiano, che vive di slogan e concetti semplificati all’osso.
Nazionalità, lingua, religione, usi e costumi, oggi sembrano del tutto insufficienti a definire in modo univoco e definitivo una identità. Entro certe condizioni ad esempio gli stranieri possono acquisire la nostra nazionalità, che è un semplice status giuridico, ma non per questo assumerebbero la nostra identità, a meno forse di perdere la loro, e comunque in un processo che sembra richiedere molto tempo, se non generazioni.
Anche se dovessi seguire alla lettera il Dharma, il presidente dell’India Narendra Modi, fautore di un ritorno alla identità indiana su basi religiose, non direbbe che questo è sufficiente a fare di me un indù. Posso imparare il giapponese, ma questo non farebbe di me un giapponese. In realtà gli antichi Elleni avevano tentato di incentrare la loro identità sulla lingua. Tutti quelli che non parlavano greco erano “barbari”, in quanto “barbarofoni”, gente che parlando emetteva suoni simili agli animali. Ma oggi chi avrebbe il coraggio di sostenere un criterio così palesemente assurdo, soprattutto dopo aver sentito declamare una poesia in urdu, o un attore inglese che recita Shakespeare?
Massimo D’Azeglio, noto per aver pronunciato la frase “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, si rivolterebbe nella tomba se sapesse che oggi il cibo è probabilmente la cosa migliore che noi italiani abbiamo per fondare la nostra identità. Ma non sono solo il babà e un re polacco sdentato a rendere impervia questa strada. Tutte le specialità che rendono la cucina italiana nota nel mondo sono straniere: il caffè è originario dell’Africa, il pomodoro del Sud America, il vino forse dalla Georgia. La penisola che il poeta Virgilio, nell’antichità, descriveva come ubertosa, produttrice di messi abbondanti, è ora costretta a importare metà del cibo che consuma.
L’identità sembra qualcosa di ancora più profondo del cibo, della lingua parlata, degli usi e dei costumi, persino della religione. La tentazione di cercarla scavando nella storia di un Paese, cercando elementi di continuità, caratteristiche che tornano, è molto forte. Nel 2014 meditai di scrivere un libro per l’anno successivo, centenario dell’entrata dell’Italia nella grande guerra. Volevo paragonare l’Italia di oggi a quella baldanzosa e certo inconsapevole che nel 1915 rompeva gli indugi e si gettava nella mischia mondiale. Sentivo l’esigenza di capire perché non abbiamo una visione del nostro futuro, e non sappiamo quale direzione prendere, mentre gli italiani del 1915 sapevano esattamente dove andare, per quanto i loro progetti fossero forieri di tragiche conseguenze.
Per certi versi il loro mondo assomigliava al nostro. Anche in quel tempo il livello di globalizzazione era molto alto. Enormi erano gli scambi commerciali tra i Paesi, il telegrafo collegava luoghi lontani, grandi navi solcavano gli oceani, masse di immigrati immense si spostavano verso paesi ricchi. Ciò nonostante durante la Belle Époque non era usuale che un austriaco, un francese e una francese vivessero un triangolo amoroso, come quello ambientato da Henri-Pierre Roché in Jules et Jim. Viceversa ai tempi dell’Erasmus e dei voli low cost il ménage à trois tra Pellettier, Espinoza e la bella inglese Liz Norton, narrato da Roberto Bolaño in 2666, appare quasi banale.
C’erano però molte differenze, altrettanto evidenti. Gli italiani del 1915 erano dei sudditi in gran parte analfabeti, caratterizzati dal senso del dovere, dallo spirito di sacrificio e dall’obbedienza alle autorità. Erano pronti a morire per il loro Paese e per il Re, che glielo aveva ordinato. Un fante poteva scrivere alla madre che andava volentieri incontro alla morte, se questo era utile alla grandezza dell’Italia. Dopo la disfatta di Caporetto, a un passo dal tracollo, questi italiani avevano dimostrato una indubbia capacità di rialzarsi in piedi e addirittura di vincere la guerra.
Era certo, e lo sono tuttora, che simili “virtù civiche” siano del tutto estranee a noi italiani di oggi, incapaci come siamo di posporre l’interesse personale a quello collettivo. Questo però non significa che gli italiani del Piave fossero meglio degli italiani di oggi, e che dobbiamo rimpiangerli o dolerci di non essere alla loro altezza. Su decisione di una ristretta oligarchia, di cui faceva parte sua Maestà Vittorio Emanuele III, gli italiani del 1915 erano andati a morire a ondate sulle trincee del Carso e dell’Isonzo, con l’obiettivo di strappare all’Austria-Ungheria qualche lembo di terra al confine orientale, le cosiddette “terre irredente” di Trento e Trieste, e la speranza, del tutto illusoria, di allargare l’influenza del nostro Paese nei Balcani e nel Mediterraneo. La loro identità era costruita in opposizione a quella austro-ungarica, la latinità contro la germanicità. E naturalmente valeva l’inverso.
Oggi la nostra politica estera è impostata sulla promozione della pace, come vuole la nostra Costituzione Repubblicana; alla Farnesina non si pongono l’obiettivo di accrescere la nostra influenza sui Balcani o in qualsivoglia altra parte del mondo; e quanto alle “terre irredente”, sono più un delizioso angolo d’Europa che una terra da strappare a perfidi invasori. I sacrifici dei “ragazzi del 1899”, gettati nella mischia nelle fasi finali del conflitto, suonano oggi semplicemente assurdi ai ragazzi nati nel 1999, che non saprebbero né vorrebbero emularli.
Ai nostri occhi i loro sacrifici risultano semplicemente incomprensibili, assurdi e autolesionistici. Non riusciamo a capire le ragioni per cui hanno messo in gioco la vita, e in molti casi persa. Sembra tutto un tragico equivoco. Semplicemente la posta del gioco è cambiata, e la loro non ci interessa più. E se c’è qualcosa che ora ci appare valido nel loro sacrificio, è proprio averci insegnato che il nazionalismo e la guerra sono cose da cui dovremmo stare lontani.
Sono bastati insomma pochi decenni, alcune generazioni e due rovinose guerre, perché tra queste due identità italiane si aprisse uno iato evidentemente incolmabile. Anche perché nel frattempo sono ascese altre identità concorrenti: quella di chi è di nazionalità italiana ma si percepisce come cittadino europeo, per non dire cittadino del mondo.
D’altronde la nostra storia, come quella di ogni altro popolo, o civiltà, presenta una grande serie enorme di queste faglie. Già quando Mussolini si presentava a Vittorio Emanuele per ricevere il suo primo mandato di governo, nell’ottobre del 1922, poteva ancora dire, retoricamente, di avere dietro di sé l’Italia di Vittorio Veneto, i valorosi fanti che avevano vinto la guerra. Ma al fascismo completare il Risorgimento sembrava già qualcosa di antiquato. Il nuovo obiettivo era espandere l’influenza politica e militare dell’Italia, e riaprire l’agenda coloniale.
Andando indietro nel tempo, le cose non migliorano. Potremmo attingere al mito di Roma – Mussolini per esempio lo ha fatto – ma oggi sappiamo che i popoli italici del mondo antico erano proprio quelli che avevano tentato di resistere all’ascesa di Roma, e che alla fine erano stati sconfitti e assorbiti. L’identità degli italici era costruita in contrapposizione a quella dei Romani, e viceversa. E questo naturalmente vale per tutte le fragorose faglie della nostra storia.
La verità è che l’identità stabile e durevole di un popolo, quella solida e inscalfibile di cui hanno bisogno i sovranisti, è semplicemente una chimera. Non diversamente dallo Stato moderno, basato sull’identità etnica, linguistica e religiosa. Questo tipo di stato è un’invenzione relativamente recente. Ha avuto un suo inizio, con l’epoca moderna, avrà una sua durata, e come ogni altra cosa umana, una fine.
Ci sono molteplici identità, deboli e in continua trasformazione, frastagliate dai tanti contributi provenienti da identità e culture altre, al punto che è molto difficile discernerle. Costrutti mentali che esistono solo fino a quando crediamo in essi, il prodotto di élite che le inventano, più o meno consapevolmente, e le usano per legittimarsi. Reale invece è il babà. Che sia napoletano o polacco, è sempre buono, e si può gustarlo ancor meglio senza domandarsi chi vanti il merito di averlo donato all’umanità.