A gennaio 2018 è nato il primo ministero per la Solitudine al mondo. La notizia sembra uno scherzo, invece è tutto vero: a soffrire di solitudine è il Regno Unito, dove secondo le ricerche della Croce Rossa Inglese, su una popolazione di 65,6 milioni vivono isolate ben nove milioni di persone (più degli abitanti dell’intera Londra). Per sconfiggere questa “triste realtà della vita moderna”, la premier inglese Theresa May ha deciso di istituire un ministero apposito, affidando l’incarico di guidarlo a Tracey Crouch, già sottosegretario allo Sport e alla Società civile.
Bisogna riconoscere alla May il merito di aver ammesso pubblicamente che la sua nazione, così forte e indipendente, soffre anche di solitudine. Nutro invece diversi dubbi sulla strategia messa in atto: non riesco a immaginare metodi concreti e ordinanze in grado di combatterla. Ho provato a mettermi nei panni di una persona terribilmente sola e mi sono chiesta quanto piacere potrebbe darmi la visita regolare di un funzionario del governo. La risposta è poco o niente. Il rischio, insomma, è che un intervento dello Stato possa rendere le persone ancora più consapevoli della propria condizione. Mi unisco alla voce di Stephen Colbert, il comico e conduttore americano di The Late Show with Stephen Colbert, subentrato allo storico David Letterman, quando ironizza sulla scelta della May: anche alla più intima e privata delle condizioni umane, l’Inghilterra dà una risposta fredda, burocratica, così tipicamente british.
Se la notizia del ministero ha fatto tanto scalpore, è perché si tratta di un problema piuttosto scomodo che tutti cerchiamo di nascondere e di sottovalutare. Si chiede aiuto quando non si hanno soldi o si è perso il lavoro, quando si è malati o si hanno problemi d’amore, ma non quando ci si sente soli, un po’ per vergogna e un po’ perché “la faccenda non è poi così tragica”. Eppure la solitudine uccide come una qualunque grave malattia. Secondo le ultime ricerche scientifiche, stare soli è peggio che fumare 15 sigarette al giorno. Porta alla depressione, diminuisce le nostre difese immunitarie, aumenta di un terzo il rischio di morte prematura e le possibilità di soffrire di disturbi cardiaci. La solitudine fa male al cuore in tutti i sensi.
C’è un’altra brutta notizia: il popolo inglese non è di certo il solo a essere solo. Primo tra tutti a far compagnia al Regno Unito c’è il Giappone, dove il fenomeno del kodokushi (tradotto con “morte solitaria”), su una popolazione di 127milioni, colpisce trentamila persone all’anno. E non solo anziani: il 25% dei soggetti deceduti e dimenticati ha tra i 40 e i 50 anni. L’epidemia della solitudine è particolarmente diffusa nella capitale, Tokyo, mentre è quasi sconosciuta nei piccoli villaggi rurali. Potrà sembrare un paradosso, ma morire di solitudine e in solitudine è molto facile nella città più popolosa al mondo, quando si è circondati da oltre nove milioni di persone.
Il punto è che essere soli non vuol dire semplicemente vivere senza persone attorno – se così fosse, il compito del ministero per la Solitudine sarebbe ben più facile. Si tratta di una sensazione intima e interiore dell’uomo, indipendentemente da che questo viva in una cascina desolata o in una piazza colma di persone. Sarà capitato anche a voi di trovarvi in metropolitana all’ora di punta, in una sala di attesa, in aeroporto o in un centro commerciale: è proprio in questi luoghi caotici, pieni di persone ma privi di contatti reali, che il silenzio diventa più pesante. D’istinto, abbassiamo lo sguardo, cerchiamo i nostri cellulari e mettiamo la musica nelle orecchie – non è forse questa una qualche ricerca di compagnia? Ho vissuto a Londra e posso confermare che è facile, quasi naturale, sentirsi soli quando si cammina lungo le strade di una megalopoli, travolti da una folla tanto variegata quanto anonima. Ce lo raccontano già da tempo i grandi scrittori: è L’uomo della folla di Poe, lo Spleen di Parigi di Baudelaire, l’Affollata solitudine di Pessoa.
Il kodukushi non è altro che l’apoteosi di questa società senza identità. È la morte nell’indifferenza collettiva, dimenticati da tutti. Il caso più eclatante è quello di Sogen Kato: nato nel luglio 1899, l’uomo era finito più volte sui giornali per essere l’abitante più vecchio di Tokyo. Nel 2010, in occasione del suo centundicesimo compleanno, i funzionari del rione sono andati nel suo appartamento per festeggiarlo. L’hanno ritrovato steso nel suo letto, mummificato. Sogen Kato era morto da oltre 30 anni senza che nessuno se ne fosse accorto. Poco tempo dopo, l’incontro mancato è stata con la ultracentenaria Fusa Furuya, conosciuta come la donna più longeva di Tokyo. La figlia 79enne di Furuya ha dichiarato alla polizia di non avere notizie di sua madre da ben 50 anni, e di essere convinta che questa vivesse con il figlio minore. All’indirizzo fornito dalla donna le autorità non hanno trovato alcuna abitazione. Di Furuya e del figlio si sono perse le tracce, così come di altri 234 mila ultracentenari giapponesi, morti e sepolti da chissà quanto tempo. Ecco che inizia a vacillare la tanto decantata longevità dei giapponesi.
Non è un caso che il termine kodukushi sia stato inserito per la prima volta nel dizionario Kojien nel 1998. Il fenomeno è relativamente recente, frutto della nostra società moderna. Ancora più recente (2014) è la costruzione di un’ala interamente dedicata alle autopsie dei morti di solitudine al Kansa Imuin, il centro di medicina legale di Tokyo. A vent’anni di distanza dalla comparsa ufficiale del kodokushi, il fenomeno continua a crescere e il Giappone ancora non prende misure concrete. Niente ministro della solitudine nipponico, ma aumentano le imprese di pulizie specializzate nella bonifica di “appartamenti tomba”. Una di queste, la Risk Benefit, dichiara di ricevere ben 60 richieste al mese con picchi di 10 al giorno in estate, perché con il caldo la decomposizione è più veloce e il puzzo più forte. La legge nipponica stabilisce che tutti i beni e gli oggetti di valore spettano, se c’è, al padrone di casa, che in questi casi diventa paradossalmente la persona più vicina al defunto.
Il tanto ricco e avanzato Giappone, insomma, non è un paese per vecchi. Ma la verità è che non è nemmeno per giovani: un altro fenomeno made in Japan è l’hikikomori, di cui nel 2015 si contavano oltre cinquecento mila casi nella fascia d’età tra i 15 e i 39 anni. A differenza del kodokushi, in questo caso è il soggetto stesso a ricercare l’isolamento, a voler essere invisibile. Il termine è traducibile letteralmente con “stare in disparte” e il governo definisce ufficialmente “hikikomori” una persona che non sia uscita di casa o che non abbia interagito con altri da almeno sei mesi. Le esperienze di queste persone sono spaventose: alcune di loro hanno patologie talmente gravi che non riescono nemmeno a lasciare il divano per andare in bagno. Considerata l’entità del problema, nel 2016 è stato fondato l’Hikikomori Shimbun, un giornale che dibatte il fenomeno e vuole essere di supporto. Quest’anno il governo nipponico condurrà per la prima volta una ricerca tra le persone adulte (40 – 59 anni) per meglio identificare l’identità dell’hikikomori.
La mia prima reazione è stata quella di classificare kodokushi e hikikomori come “piaghe del Giappone”, una nazione lontana dove succedono cose strane e che si è parzialmente intossicata il cervello con la troppa tecnologia. Sarebbe stato più rassicurante. La verità è che questi problemi si diffondono velocemente anche in Europea e nei Paesi più avanzati. Il fondatore dell’associazione Hikikomori Italia, Marco Crepaldi, spiega così la nascita dell’hikikomori: “È il frutto di una società che esercita sui ragazzi una serie di pressioni che vanno dai buoni voti scolastici, alla realizzazione personale, alla bellezza fino alla moda”. Per difendersi, i giovani non escono, non socializzano, passano le giornate rinchiusi tra quattro mura. Scelgono di vivere solo attraverso il web. Alcuni sviluppano gravi disturbi compulsivi, altri arrivano a togliersi la vita. Il fenomeno può durare mesi, addirittura anni.
Oggi in Italia le stime parlano di centomila casi, ma non è possibile avere dati precisi. Il fenomeno è ancora poco conosciuto e spesso diagnosticato come depressione. “Rischiamo quello che è successo in Giappone, dove il fenomeno è stato inizialmente sottovalutato e trattato come fosse una patologia psichiatrica. Da migliaia, gli hikikomori sono diventati rapidamente centinaia di migliaia e, addirittura, milioni” racconta Crepaldi. “L’errore principale che hanno fatto loro è stato non parlarne. Per questo motivo l’obiettivo principale di Hikikomori Italia rimane quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni”.
Ho sempre pensato che noi italiani fossimo un popolo socievole, aperto, capace di stringere e mantenere forti legami affettivi. A quanto pare mi sbagliavo: i dati dell’Eurostat del 2015 ci eleggono i più soli d’Europa. Il 13% degli italiani over 16, infatti, non ha una persona a cui chiedere aiuto, mentre l’11,9% dichiara di non avere nessuno con cui parlare dei propri problemi personali. In sintesi, un italiano su otto si sente solo.
Dal Giappone all’Europa, dall’hikikomori al kodokushi, la verità è che oggi a essere soli siamo in tanti e in tutto il mondo. E quasi mai lo siamo per scelta. Viviamo nelle grandi città e cerchiamo di confondere la nostra solitudine nella folla, ma non riusciamo che a creare contatti virtuali e a condividere le nostre emozioni sulla rete. Il meccanismo sembra autoalimentarsi: quando si è soli, gli altri sembrano così felici e realizzati che diventa impossibile, e terribilmente imbarazzante, chiedere aiuto. La solitudine, infatti, fa morire anche di vergogna. Trent’anni fa, la premier Margaret Thatcher sosteneva: “La società non esiste, esistono gli individui”. La sua utopia (o distopia) sembra essersi quasi realizzata, e spetta ai suoi successori, a tutti noi, correre ai ripari.