“C’è posta per te è l’anello di congiunzione fra l’Ulisse di James Joyce e Un posto al sole”, come ha scritto Piero Vereni su Nazione Indiana, è un’affermazione che probabilmente potrebbe convincere il pubblico della regina della tv Maria de Filippi ad avvicinarsi ai capolavori della letteratura inglese, così come causare l’improvviso crollo degli ascolti del serial tv più longevo di Rai 3. L’associazione sembra paradossale, ma la verità è che i format come C’è posta per te sono consapevolmente costruiti sulla deformazione di ciò che accomuna il famoso monologo di Molly Bloom e le disavventure che da ormai 26 stagioni interessano i condomini del Palazzo Palladini di Napoli. Il punto primordiale di contatto tra due narrazioni così distanti sta nell’intento che le muove all’origine, che è anche l’elemento fondante del loro successo: indagare il soggetto più che l’azione, il personaggio più che la trama. Un movente che in C’è posta per te viene brutalmente svelato, riversandosi in rappresentazioni semplicistiche della soggettività, che hanno come conseguenza quella che viene chiamata “soapizzazione” della società.
Per “soapizzazione” si intende la narrazione del soggetto tutta centrata sul sentire e non sul fare, che inizialmente ha portato la letteratura a toccare i picchi dell’arte scavando nell’io dei personaggi e svelando al lettore qualcosa di sé che ancora non conosceva, e in seguito ha determinato il successo delle serie, delle soap, appunto, con la loro narrazione strutturata sull’emozione iperbolica, che utilizza gli eventi per comprendere i protagonisti, e non in quanto tali. Il problema sorge nel momento in cui la “soapizzazione” esce dal racconto per affacciarsi sulla società, dato che quando il soggetto non è più raccontabile per il suo fare, ma solo definibile per il suo sentire, questo sentire deve per forza espandersi per prendere tutto lo spazio a disposizione. Il risultato è una generalizzata tendenza a ingigantire ogni stato d’animo connesso ai nostri successi, fallimenti, o piccole noie quotidiane. Questa implicazione sociologica è incentivata da alcuni meccanismi narrativi proposti dai media, che cavalcano l’attrattività dei racconti sull’io, prendendo la più sbagliata delle direzioni, quella della semplificazione, che li priva del loro incommensurabile valore veritativo.
La deriva tossica della “soapizzazione” inizia quando il racconto si interrompe per dare spazio al giudizio, configurandosi come un momento di metanarrazione. Se si tratta di televisione, l’irruzione dell’autore nella storia, che dà vita al frangente metanarrativo, è sempre una responsabilità del conduttore del programma. È Maria de Filippi che interviene ordinando i pensieri dei suoi personaggi, così da restituire allo spettatore un’immagine chiara della loro soggettività, del loro tipo umano e favorire il meccanismo d’immedesimazione che fa la forza di questo tipo di programmi. C’è posta per te è una galleria di pose del soggetto, alcune del tutto sgraziate, altre vagamente più composte, che vengono esasperate per esigenze di scena e poi offerte in pasto al pubblico. Tutto si gioca sotto il vigile occhio di Maria, che orienta in diretta televisiva, senza alcuna dissimulazione, la percezione che lo spettatore avrà dei protagonisti dei suoi programmi, senza fermarsi alla valutazione dei loro atteggiamenti, ma spingendo la tribunalizzazione fino alle profondità del loro Io, come se un’apparizione sullo schermo potesse svelare tutti gli aspetti che definiscono l’identità soggettiva.
Se questa metanarrazione giudicante nel contesto televisivo rimane di competenza del conduttore, che tende a mettere il pubblico in una posizione di superiorità, ma senza coinvolgerlo in maniera diretta nel processo all’Io dei partecipanti al programma, sui social network le cose cambiano. Condannare o elevare un personaggio pubblico, soprattutto in base alla sua presenza sui social, sembra del tutto normale perché lì i giudici siamo noi. I post sono le tappe di una strategia di comunicazione che diventa una narrazione proprio grazie all’utente, nell’istante in cui, scrollando, mette insieme tutti i pezzi della storia, se la racconta, facendosi un’opinione sul protagonista. La metanarrazione è dunque una piena responsabilità del pubblico, che è assieme narratore e fruitore. Anche in questo caso, però, l’influencer di turno non è valutato in quanto personaggio, ma come persona, come soggetto, creando una sovrapposizione pericolosa e spesso inconsapevole da parte di chi non sa discernere fra i piani di valutazione con la stessa accortezza di Maria. I social network fanno fare al pubblico ciò che la televisione destinava al conduttore, moltiplicando le distorsioni del giudizio e portando definitivamente la “soapizzazione” nel sociale. Un conto è processare Gianluca Vacchi, un altro è applicare gli stessi standard alla collega bionda seduta due scrivanie più in là, oppure a se stessi.
Infatti, l’Io può essere visto come una costruzione narrativa per cui la continuità dell’identità personale è garantita dalla narrazione delle esperienze che facciamo a noi stessi, ma anche agli altri. Secondo questa concezione, per sentirci compiutamente soggetti il racconto della nostra vita non dovrà soltanto soddisfarci, ma anche essere riconosciuto da chi ci circonda. Mettere a sistema i giudizi che facciamo su noi stessi e sulla nostra cerchia sociale assume quindi un peso importante, perché ognuno di essi andrà a influenzare la nostra storia identitaria. In un quadro del genere, assorbire dai media delle narrazioni soggettive ipersemplificate e studiate per essere sottoposte a giudizio con altrettanta superficialità, significa perdere il binario del proprio racconto personale. I prodotti mediali che rappresentano la soggettività, le emozioni, l’intimità umana sono una fucina dell’immedesimazione, hanno un particolare potere magnetico perché parlano di ciò che più ci interessa, ma lo fanno con un linguaggio che non si adatta al racconto di un vissuto reale. Il problema della “soapizzazione” è allora una questione di eccesso narrativo, che pretende di trasferire nella vita vera dei meccanismi che non le si addicono, perché sono di proprietà dei media. Le emozioni tanto esasperate da essere incompatibili con la reale esperienza che le ha originate sono frutto del continuare a raccontare sé stessi prescindendo dal riconoscimento degli altri e dal grande limite che le storie sul nostro Io non possono superare, ovvero quello della realtà.
Questo eccesso narrativo che non contempla argini ricalca due binari principali che sono tipici dei prodotti mediali a cui siamo abituati: la drammatizzazione e la serializzazione. L’attrazione che proviamo nei confronti del dramma è testimoniata fin dalla teoria della catarsi aristotelica. Le tragedie che osserviamo provando piacere, però, di norma sono quelle che riguardano gli altri. Quando ci coinvolge in prima persona il bisogno di dramma non è collegato alla purificazione catartica ma alla frustrazione, al senso di impotenza, alla noia. Spiare attraverso i media persone che riteniamo mediocri, ma che “ce l’hanno fatta” molto più di noi, osservare modelli di vita che ci sembrano perfetti e irraggiungibili, assimilare ogni giorno informazioni contraddittorie che confondono la nostra visione del mondo, più che chiarificarla sono fattori che alimentano un senso di immobilità, mentre tutto intorno a noi si sta muovendo. La sensazione per cui non si sta facendo abbastanza per stare al passo con il resto del mondo, porta a voler seminare il caos nella propria vita in modo da soddisfare un bisogno interiore di eccitazione. La trasformazione delle proprie esperienze in tragedie non passa necessariamente per l’azione concreta. Per rendere la nostra vita una performance accettabile spesso basta concentrarsi sulle emozioni, dunque sulla “soapizzazione” del soggetto: disperarsi per qualsiasi piccolo fallimento, che viene percepito come intollerabile, incensarsi per questo o quell’altro successo, che è stato incredibile, ben più incredibile di quello degli altri ed è quindi meritevole di un’accorata lettera di ringraziamenti su LinkedIn.
La serializzazione, da un lato, ha a che fare con la stessa voglia di sentirsi protagonisti. Il desiderio di percepire le proprie vite come rilevanti, interessanti, tanto quanto quelle dei personaggi che i media ci presentano, porta a integrare ogni piccolo avvenimento che ci riguarda in un disegno immaginario più grande, come se fosse parte di una linea narrativa ulteriore. Pensare alla propria esperienza nel mondo come una serie ordinata di eventi è rincuorante, perché fa pensare alla necessità di un happy ending che renda giustizia a tutto il racconto e perché toglie dalle nostre esistenze la componente più spaventosa che c’è: quella aleatoria. Nella narrazione il caso non esiste ed esercitare lo stesso controllo sulla vita vera non è soltanto rassicurante, ma ci fa sentire particolarmente potenti, come tanti Woody Allen che ricoprono insieme il ruolo di registi e attori dei loro film. D’altronde il sentirsi potente è il primo scopo di un soggetto “soapizzato”.
Gli schemi narrativi proposti dai media non si adattano al mondo reale, per questo riproponendoli fuori dal loro contesto cadiamo in distorsioni che non ci fanno sentire a nostro agio nella vita vera. Per ovviare a questa sensazione, spesso ricorriamo a un eccesso narrativo, che ci porta a drammatizzare e serializzare gli eventi delle nostre vite, per renderli parte di un racconto degno di nota. La “soapizzazione” della soggettività è una narrazione falsata, che pur consentendo al nostro io di sentirsi potente, rilevante, vero protagonista, non può risultare credibile a lungo, perché non contempla la noia e il caso come componenti essenziali delle nostre vite. Pensare una ricollocazione dei media nel nostro sistema metrico decimale emotivo, significa trattare i vari racconti sul soggetto per quello che sono: delle narrazioni pensate per intrattenere, più che degli spunti per imparare l’introspezione. La giusta misura di un racconto personale, difficile a credersi, non è mai quella che ci fa sentire assoluti protagonisti.