Nel 1983, lo psicologo statunitense Dan Kiley parlò per la prima volta della sindrome di Peter Pan nel suo libro The Peter Pan Syndrome: Men Who Have Never Grown Up. Con questa espressione, Kiley indicava il fenomeno di uomini – e in casi molto rari anche di donne – che assumevano comportamenti infantili e che non erano in grado di assumersi responsabilità. Chi soffre di questa sindrome – che in realtà non è mai stata clinicamente riconosciuta dal DSM, ma viene associata al disturbo narcisistico di personalità –, infatti, è spesso una persona che ha grosse difficoltà sia nelle relazioni sociali che nella vita professionale. A tal proposito, l’Università di Samsun, in Turchia, nel 2021 ha realizzato una scala che individua il livello di gravità della sindrome, in base alla percentuale di sintomi presenti. Tra questi troviamo la fuga dalle responsabilità, l’immaturità, il blocco delle emozioni, ma anche la tendenza alla procrastinazione, alle relazioni problematiche e all’impotenza sociale.
La sindrome di Peter Pan, in realtà, è stata identificata molto prima che Dan Kiley le attribuisse questo nome. Basti pensare al concetto di puer aeternus, presente sin dalla mitologia romana e poi teorizzato da Carl Gustav Jung. Lo psichiatra svizzero lo confrontava con il senex, l’anziano associato al dio Crono e dotato di alto senso di responsabilità e controllo. Al contrario, il puer era per Jung una figura legata al caos, all’istinto eccentrico che rifiutava ogni forma di regola, e per questo veniva comparato agli dei Ermes e Dioniso. Inoltre, teorizzava la sua personalità bipolare, con l’aspetto positivo rappresentato dal bambino divino presente nel soggetto e quello negativo riferito all’incapacità di risolvere i problemi della vita, preferendo l’attesa, una sfida perenne al tempo con la sfrontatezza di chi non ha mai raggiunto una certa soglia di maturità.
La figura del puer aeternus è tornata alla ribalta negli anni Sessanta grazie alle teorie dello psicanalista e filosofo James Hillman, che ne scrisse nell’omonimo libro. Il puer di Hillman è un “Eterno Divenire mai realizzato in Essere”, ovvero un soggetto che rifiuta l’evoluzione perché aggrappato a un “perenne carattere adolescenziale di una vita provvisoria”. Associa inoltre lo sviluppo a una caduta, alla perdita dell’innocenza, e diventa timoroso di fronte al mondo, compreso l’altro sesso. Non ha bisogno di rapporti con una donna a meno che non sia una puella magica o una figura materna che possa proteggerlo senza turbare la propria essenza archetipica. Cresce dunque senza essere in sintonia con il tempo e, come specifica Hillman, “non riesce a imparare, non comprende ciò che si acquista con la ripetizione e la coerenza, vale a dire con il lavoro; non afferra la sagacia nel procedere passo per passo attraverso la labirintica complessità del mondo orizzontale”. Per questi motivi, il puer non sopporta le tortuosità della vita, il tempo, l’aver pazienza, il senso dell’attesa. Non è un capriccio, così come non lo è essere affetti dalla sindrome di Peter Pan: semplicemente è un rifiuto alla progressione dettato da caratteristiche psicologiche che non andrebbero sottovalutate.
Hillman non giudica il puer – come in effetti oggi non dovremmo giudicare il Peter Pan – ma individua le cause di questa condizione nelle origini della sua esistenza ed esattamente nel rifiuto del “tradimento” del padre. Hillman fa un parallelismo biblico spiegando come la fiducia del bambino verso il padre sia analoga a quella di Adamo verso Dio. Eppure Adamo ha abbandonato l’Eden e lo stesso Dio ha tradito suo figlio sulla croce, in punto di morte. Il puer rifiuta di lasciare il suo Eden e di perdere la fiducia verso il padre, mentre Hillman vede l’azione del tradimento come il crocevia della vita di ogni singolo individuo, uno svezzamento, nonché il mezzo che il padre deve usare per svelare al figlio la reale natura del mondo stesso: “L’iniziazione del ragazzo alla vita è l’iniziazione alla tragedia dell’adulto”. Invece il puer, come il Peter Pan, senza quel metaforico tradimento viene iperprotetto: il padre non gli mostra le avversità della realtà che lo circonda e la madre lo asseconda mantenendo l’eterno ruolo della “lupa” che allatta colui che non è più allattabile. Peter Pan non soltanto rifiuta la canonica linea temporale, ma anche lo spazio. È fermamente convinto di essere ancora nell’Eden e lo sfasamento con la Terra lo induce a patire gli scompensi di una crescita mai realmente avvenuta, attuando spesso comportamenti sadici o masochistici. Ferisce sé stesso per non riuscire più a ritrovare il suo Eden, ma gli altri non riescono a ricreare per lui quell’ambiente. Vive quindi sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, nemico di sé stesso e del mondo.
L’infantilismo estremo ed eterno, come la netta discrepanza tra età anagrafica di un individuo e i suoi comportamenti e il suo stile di vita, oggi vengono spesso collegati al disturbo narcisistico di personalità. Il puer aeternus affetto da narcisismo si riconosce per il suo egocentrismo e per una presunta aria di superiorità, che si alternano a episodi di autosvalutazione e al bisogno costante dell’approvazione altrui. Queste tendenze rivelano una personalità che non ha compiuto il passaggio all’età adulta, in cui un individuo dovrebbe aver strutturato la propria identità e non aver più bisogno che gli altri gli rimandino costantemente un’immagine di sé. Questo tipo di persone non rifuggono solo le responsabilità, ma sono anche molto volubili nella vita affettiva. Un’altra caratteristica che richiama poi l’idea dell’eterno bambino è la tendenza a coltivare fantasie di successo illimitato e di onnipotenza.
A volte, nei casi in cui il disturbo assume i tratti invalidanti di una patologia e magari in situazioni di comorbilità, alcune persone possono arrivare a covare una frustrazione così forte da compiere gesti efferati proprio ai danni della famiglia d’origine. Fu il caso di David Reid, ingegnere australiano di 48 anni che, nel 2019, pugnalò a morte i suoi genitori. L’uomo si dichiarò subito colpevole e ammise di aver provato – senza successo – a togliersi la vita. Prima dell’omicidio, Reid aveva rivelato sui suoi profili social di essere affetto dalla sindrome di Peter Pan e di percepirsi come un fallito in tutti gli ambiti della vita. Pare che l’uomo avesse mollato il lavoro e che sua madre si occupasse di lui in tutto e per tutto: a quasi cinquant’anni, gli lavava ancora i panni e gli cucinava tutti i pasti. Dopo l’omicidio, Reid ha rivelato di essersi sempre sentito sminuito e soffocato dai genitori, colpevoli secondo lui di averlo privato della possibilità di costruirsi una vita autonoma. Il senso di impotenza e di fallimento accumulati lo avrebbero spinto alla violenza.
È necessario, però, fare una distinzione tra la sindrome di Peter Pan e il fenomeno dei manolescent, la crasi tra man e adolescent riferita a chi sceglie deliberatamente di sottrarsi alle responsabilità degli adulti e non è costretto a farlo a causa di una psicopatologia. Se il Peter Pan spesso non si accorge nemmeno di avere un disturbo, e quindi non interviene perché non riconduce le sue difficoltà alla sua sindrome, il manolescent è pienamente consapevole di quella che è una scelta, l’infinita coda dell’adolescenza. I manolescent sono prevalentemente uomini tra i 35 e i 54 anni che conducono una vita all’apparenza normale: hanno una famiglia, un lavoro, degli amici. Eppure assumono comportamenti da bambini o ragazzi fuori tempo massimo. Se il Peter Pan teme la perdita dell’infanzia, il manolescent ha paura dell’arrivo della vecchiaia. Di conseguenza ogni comportamento è teso alla fuga dalla senilità incombente. Sogna una vita da Benjamin Button, e per farlo cerca di riallacciarsi alle sue passioni infantili o a scacciare l’incubo del decadimento estetico tramite ritocchi di vario genere, anche di chirurgia plastica. Una ruga, un capello bianco o i primi acciacchi fisici sono campanelli d’allarme che lo portano a intervenire fingendo con se stesso che il tempo sia immobile. Lo sfida, pur sapendo di non poterlo sconfiggere. Il puer-Peter Pan non ha invece la concezione della vecchiaia, non la teme perché è convinto di essere ancora un bambino, a differenza dei manolescent che vogliono tornare a esserlo.
La sindrome di Peter Pan, al pari del narcisismo e di altri disturbi, può assumere i tratti di una patologia invalidante e addirittura in alcuni casi estremi pericolosa, che può gettare gli individui in uno stato di frustrazione tanto soverchiante da rovinare la vita a sé stessi e agli altri. La condizione di chi, nonostante l’età, si rifiuta di crescere non va mai minimizzata; in certi casi, infatti, il – o la – Peter Pan può arrivare a gettare addosso agli altri il peso di responsabilità che non vuole assumersi: è il caso, per esempio, di uomini che non si curano dei propri figli, lasciando tutto il carico alle proprie mogli o compagne. Ciò accade perché l’eterno fanciullo, in una relazione sentimentale, cerca il più delle volte un surrogato dell’amore materno: una “dea madre” che lo accudisca, si occupi di lui, che gli conceda tutto e che perdoni le sue negligenze.
Il Peter Pan potrebbe dunque trovarsi, a un certo punto della relazione, con le sue aspettative deluse, quando realizza che la partner – con cui magari ha già creato una famiglia – si aspetta che lui si assuma le proprie responsabilità di marito e di padre, che divida a metà gli oneri con lei e che si dimostri un adulto pronto ad accudire, e non soltanto un bambino bisognoso a sua volta di accettazione e accudimento. L’individuo in questione, mancando della tenuta psicologica adeguata per assumersi i compiti di genitore, può arrivare ad abbandonare la famiglia, e la sua immaturità emotiva a essere causa di sofferenza non solo per lui ma anche per i suoi familiari.
Va detto che – seppur i casi siano numericamente molto inferiori – anche le donne possono essere affette dalla sindrome di Peter Pan. In questi casi, però, diversamente dagli uomini, le donne sembrano essere in grado di affrancarsi dalla famiglia d’origine, di lavorare e crescere i figli. Ciononostante, hanno difficoltà a mantenere relazioni sentimentali durature, poiché anche loro cercano una figura paterna che si prenda cura di loro. Spesso dimostrano una propensione al pettegolezzo, alla vanità, alla competizione e all’opportunismo. A fare da contraltare alle eterne bambine, poi, ci sono le donne affette dalla sindrome di Wendy, che si legano a un Peter Pan nella speranza di salvarlo, con le proprie cure amorevoli e con i propri sacrifici. In questi casi, tra i due partner si crea una codipendenza spesso dannosa, dal punto di vista psico-emotivo, per entrambi.
È giunto il momento di liberarci dallo stereotipo che ci porta a pretendere una maturità emotiva maggiore dalle donne (e dalle madri) piuttosto che dagli uomini e, al contempo, iniziare a dare il giusto peso alla sofferenza di chi è affetto da questa sindrome. Gli uomini che non riescono a compiere il naturale processo di maturazione psicologica ed emotiva, spesso, non sono individui che colgono il lato leggero e spensierato dell’esistenza – come il Peter Pan originale – ma persone incapaci di affrancarsi dalla loro condizione e che nei casi più gravi – se non vengono adeguatamente aiutati con un percorso psicoterapico – finiscono per accumulare frustrazione, sentirsi inadeguati e condannarsi all’infelicità.