Dopo il caso dei lavoratori di Amazon e Starbucks, anche Microsoft si aggiunge alla lista delle multinazionali statunitensi che devono affrontare le richieste dei dipendenti di sindacalizzarsi. “Le recenti campagne di sindacalizzazione in tutto il Paese, anche nel settore tecnologico, ci hanno portato a concludere che questi problemi toccheranno inevitabilmente più aziende, inclusa potenzialmente la nostra”, ha scritto il presidente e vicepresidente di Microsoft Brad Smith in una nota pubblicata sul sito giovedì 2 giugno. Nonostante il fatto, sostiene Smith, che “i nostri dipendenti non avranno mai bisogno di organizzarsi per dialogare con i leader di Microsoft”, ammette che “il luogo di lavoro [stia] cambiando” e che ci sia “ancora molto da imparare”.
La società, con sede a Redmond, nello Stato di Washington, ha rilasciato queste dichiarazioni in previsione dell’acquisto, per 69 miliardi di dollari, di Activision Blizzard, una delle più grandi società di videogiochi al mondo (produttrice di videogame di successo come Call of Duty e World of Warcraft), che da qualche tempo è al centro della bufera mediatica, prima per le accuse di molestie e di cultura tossica del lavoro e ora perché un piccolo gruppo di dipendenti di Raven Software, divisione dell’azienda madre, ha votato per formare un sindacato, il Game Workers Alliance, con Communications Workers of America, il primo in una grande azienda di videogiochi quotata in Borsa. Diciannove i QA tester che hanno votato a stragrande maggioranza a favore della sindacalizzazione, tre soli i voti contrari.
La volontà di sindacalizzarsi era già stata resa nota alla fine dell’anno scorso, ma da quel momento i dirigenti di Activision Blizzard avrebbero provato a scoraggiare i propri dipendenti e addirittura a intimidirli con licenziamenti pretestuosi. Per questo Microsoft, intenzionata a comprare l’azienda di videogame, ha deciso di intervenire sulla vicenda già prima della formazione del sindacato, sgombrando ogni dubbio sulla sua posizione: “Supporteremo assolutamente qualsiasi organizzazione dei lavoratori all’interno della compagnia”, ha riferito a Kotaku l’Amministratore delegato di Microsoft Gaming, Phil Spencer.
I sindacati dei lavoratori del gaming non sono una novità, esistono già in molti Paesi, ma le aziende statunitensi li hanno tenuti alla larga fino a oggi. Quello di Raven Software, in realtà, non è il primo sindacato di videogiochi formale nel Paese: il titolo appartiene ai lavoratori di Vodeo Games, che si sono uniti alla Campaign to Organize Digital Employees della Communications Workers of America (CODE-CWA) alla fine dell’anno scorso, anche se quelli Raven Software sono sicuramente i primi in una società quotata (Vodeo Games è infatti una società più piccola e indipendente). La vittoria della Game Workers Alliance dimostra che è possibile dar vita a un’organizzazione sindacale anche all’interno di aziende contrarie e che tentano di contrastare l’associazionismo dei propri dipendenti. Il caso di Activision Blizzard è però espressione di un più ampio movimento di organizzazione del lavoro che sta travolgendo gli Stati Uniti in quei settori o aziende dove tali sforzi hanno tradizionalmente fallito o sono stati ostacolati dai vertici.
È il caso di Amazon e di Starbucks. Fino alla fine del 2021, nessuno dei circa novemila caffè della nota catena Starbucks, negli Stati Uniti, aveva una rappresentanza sindacale. Dopo decenni in cui l’azienda è riuscita a tener lontani i sindacati, anche grazie al fatto che i dipendenti venivano pagati abbastanza bene (il salario minimo ad agosto era di 15 dollari all’ora) e a una forte opposizione dei vertici aziendali, oggi i lavoratori in più di 60 sedi in 17 Stati hanno deciso di aderire alla Workers United, un sindacato affiliato alla Service Employees International Union, sull’esempio dei dipendenti di una filiale a Buffalo (New York), che hanno aderito al sindacato all’inizio del 2022.
I sindacati chiedono maggiori tutele e più attenzione alla salute dei dipendenti, e una retribuzione più elevata che tenga conto dell’inflazione. Attualmente i dipendenti di circa 175 caffè di Starbucks hanno presentato una petizione al governo federale per formare una rappresentanza sindacale. Non è la maggioranza delle sedi, ma il trend in crescita a dimostrare che l’ingresso dei sindacati in Starbucks non è impossibile, come si credeva un tempo, ma anche possibile fonte di ispirazione per i lavoratori di altre grandi aziende, come ad esempio Amazon.
Lo scorso aprile i dipendenti di Amazon nel distretto di Staten Island (New York) hanno votato infatti per sindacalizzarsi. È la prima volta in più di venticinque anni di storia dell’azienda. Circa il 57% degli oltre 8300 lavoratori sulla lista degli elettori ha votato per la neonata Amazon Labor Union. “Ci diffonderemo proprio come il movimento di Starbucks”, ha dichiarato alla CNBC Christian Smalls, un lavoratore licenziato di Amazon, che ha guidato il voto sindacale di successo nel suo vecchio posto di lavoro a New York. “Capite cosa sta succedendo? I lavoratori stanno alzando la testa”, ha detto Elizabeth Shuler, presidente dell’Afl-Cio, la più importante confederazione sindacale del Paese, dopo il voto.
Complici la pandemia di Covid-19, l’inflazione alle stelle, la mancanza di tutele e la piaga del lavoro sottopagato di fronte a un aumento vertiginoso del costo della vita, l’importanza e la necessità dei sindacati negli Stati Uniti, dopo un declino pressoché inarrestabile dalla metà degli anni Cinquanta fino a oggi, quando si è passati da oltre il 30% degli iscritti a poco più del 10%, sembrano tornare a crescere. Soprattutto nelle grandi aziende e nelle big tech, dove i lavoratori chiedono di essere tutelati e rappresentati, nonostante l’ostruzionismo e la frequente opposizione dei vertici aziendali. Sotto lo slogan “Unions for all”, negli ultimi anni anche esponenti politici di spicco come Bernie Sanders e Beto O’Rourke si sono uniti al coro di richieste di riorganizzazione collettiva del lavoro, affinché non sia più interna alle imprese, ma su scala nazionale. Secondo le statistiche, essere iscritti a un sindacato offre infatti diversi vantaggi ai lavoratori: stipendi mediamente più alti, benefit migliori e più solide possibilità di ricorso in caso di trattamento ingiusto da parte dell’azienda. A oggi, però, il sistema sindacale statunitense presenta ancora limiti e serie difficoltà di accesso: i dipendenti sono costretti a organizzarsi solo su base aziendale, con un tetto minimo di richiedenti del 30%. Con tutto ciò che ne consegue: rappresentatività limitata, benefit e tutele variabili in base all’azienda, costi più alti per il datore di lavoro che tende a opporsi alla formazione di sindacati interni.
In Europa, la situazione è diversa: la rappresentanza dei sindacati non è esclusiva delle aziende, ma va a tutelare l’intera categoria professionale, prevedendo una serie di diritti, garanzie e salari comuni ai lavoratori di uno stesso settore. Inoltre, in quasi tutti gli Stati europei i sindacati rappresentano percentuali di lavoratori molto più alte rispetto agli Stati Uniti. In Svezia, Finlandia e Danimarca, nel 2013, più di due terzi dei lavoratori appartenevano a un sindacato. Anche in Italia i sindacati rappresentano ancora una parte importante dei lavoratori: il rapporto di adesione ai sindacati nel 2019 era pari al 32,5%, in costante calo però dal 2013, quando ha toccato il record del 35,7%. Nel 2020 il numero degli iscritti ai tre principali sindacati del nostro Paese – Cgil, Cisl e Uil – era all’incirca di 11 milioni di persone. Quello che emerge dai dati è però una tendenza alla perdita di iscritti: negli ultimi vent’anni Cgil e Cisl ne hanno infatti persi complessivamente circa 1 milione (i dati della Uil sono disponibili solo dal 2016).
Il progressivo indebolimento dei sindacati in Italia è dovuto a una somma di fattori diversi: l’incapacità di fornire risposte chiare di fronte alla segmentazione del mercato del lavoro e all’impoverimento della classe media, la composizione stessa dei tesserati (nella maggior parte dei casi costituita da pensionati) e l’esclusione di tutte quelle categorie sfruttate, sottopagate o pagate in nero che le sigle sindacali non sono riuscite a tutelare. Nell’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti negli ultimi trent’anni, dove i giovani tra i 18 e i 24 anni hanno uno stipendio più basso (15.858 euro) rispetto alla media europea (16.825 euro) e di molto inferiore a quello di Paesi con un costo di vita simile – come Germania (23.858 euro), Francia (19.482 euro) e Paesi Bassi (23.778 euro) – e in cui un lavoratore su tre prende sotto i 9 euro lordi l’ora i sindacati perdono sempre più fiducia e credibilità fra i lavoratori, mostrandosi oltretutto spaccati su questioni cruciali, come quella del salario minimo.
Mentre l’Unione Europea ha da poco raggiunto un accordo sul salario minimo, che punta istituire un quadro non vincolante per fissare salari minimi ed equi nei diversi Paesi Ue, l’Italia resta uno dei sei Paesi europei a trovarsi senza una regolamentazione in materia. Contrari alla misura sono il centrodestra, con il ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta che ha dichiarato che non va bene “perché è contro la nostra storia culturale di relazione industriali” e la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, secondo la quale si tratta di “un’arma di distrazione di massa”; Confindustria, il cui presidente ha detto che “non è un tema” e che “per gli industriali l’obiettivo deve essere la riduzione del cuneo fiscale”; a sorpresa, anche il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, ritiene che il salario minimo non sia utile e che vada “esteso e rafforzato attraverso la contrattazione”.
Di fronte a un 86% di italiani che si dichiara favorevole alla misura e con il ddl Catalfo sul salario minimo che resta bloccato in commissione Lavoro al Senato dal 2018, i sindacati italiani – che non sono stati nemmeno in grado di accordarsi per un patto sociale condiviso con le imprese – confermano la loro miopia e la profonda distanza dal Paese reale e dalle rivendicazioni dei lavoratori, autocondannandosi a una inevitabile irrilevanza.