C’è una parola che bisogna conoscere per capire davvero la narrativa politico-mediatica israeliana. Si tratta di “hasbara”. Molti la traducono con un generico “propaganda”, i più ingenui la chiamano “diplomazia pubblica”, il quotidiano Haaretz traduce il termine con un democristiano “accurata selezione della verità”. Nella sostanza però cambia poco: si tratta di un’attenta manipolazione dei fatti funzionale a proiettare, soprattutto all’estero, un’immagine utopistica dello status quo israeliano e israelo-palestinese.
Hasbara è un dovere civico, cui tutti i cittadini sono chiamati. Se non ti adegui sei un “lefty”, il peggiore degli insulti, o, ancora più grave, un traditore della patria, un semita antisemita, se una cosa del genere può esistere in un universo razionale. Chi si oppone a questa dinamica non se la passa bene. Perché in Israele, spesso, c’è una strana visione del patriottismo, drastica e manichea: o sei con noi al 100% e ti bevi tutto quello che abbiamo da dirti, o non abbiamo più nulla da spartire, se non qualche occhiata sospettosa.
Breaking The Silence appartiene alla seconda categoria, quella dei coraggiosi e sospetti. Si tratta di un Ong israeliana fondata nel marzo del 2004 da un gruppo di ex soldati di stanza a Hebron, che ora raccoglie e diffonde centinaia di testimonianze di veterani e arruolati che hanno prestato servizio militare a partire dalla Seconda Intifada del 2000. Ogni testimonianza viene verificata da altre fonti e sul sito dell’organizzazione si può trovare tutta la documentazione che ne attesta la trasparenza. Ma questo non basta per sfuggire alle polemiche, come era del resto più che prevedibile. Dopo che gli attivisti del gruppo nazionalista Ad Kan hanno filmato un membro di BtS mentre faceva domande sugli aspetti operativi dell’IDF (l’esercito israeliano) in Cisgiordania e a Gaza, sono arrivate anche le accuse di spionaggio.
Poi c’è Bibi, il lucido ed equanime Benjamin Netanyahu, che nel febbraio 2017 incontra Theresa May e le intima di bloccare tutti i fondi targati UK indirizzati al gruppo Breaking the Silence. Non pago, dichiara di non voler incontrare diplomatici che abbiano anche solo il minimo contatto con l’organizzazione. E così il Ministro degli Esteri tedesco viene snobbato con estremo garbo. Eppure i rapporti con la Germania sono ancora “forti, importanti”, dice Bibi.
Ma perché si odia così tanto Breaking The Silence? Per quale motivo questo gruppo è diventato la nemesi del governo israeliano?
Forse perché il loro operato è quanto di più disturbante si possa inserire in un contesto dominato dalla logica della hasbara. Breaking the Silence non fa diplomazia pubblica, non seleziona meticolosamente la verità. La loro versione domanda con insistenza la tua attenzione per distoglierla dai locali di Tel Aviv, dai pamphlet del Ministero del Turismo o dalla narrativa secondo cui l’esercito israeliano sarebbe “il più morale al mondo”. L’ha fatto con me, che per anni ho creduto a questa narrativa, lo fa con migliaia di israeliani abbastanza razionali da riuscire a oltrepassare il proprio scudo di suscettibile emotività, ma non riesce a farlo con il governo di Netanyahu. Breaking the Silence fa a pezzi l’hasbara, rovina la festa del Likud.
Trovate tutto nel libro Our Harsh Logic: Israeli Soldiers’ Testimonies from the Occupied Territories. Per darvi qualche anticipazione, potrei iniziare con il protocollo del “dimostrare la presenza”, amichevolmente denominato “Happy Purim”. Il Purim è il carnevale ebraico, giorno in cui i ragazzini israeliani si riversano per le strade tra scherzi e casino. Che è più o meno quello che fa l’esercito israeliano, ma il casino arriva dai TAR-21 e lo scherzo è che un plotone può arrivarti in casa nel cuore della notte, occupandola per “avere una posizione strategica”.
Qui un estratto di una testimonianza del 2004: “Di solito l’Happy Purim serve a svegliare la gente. Significa andare in un villaggio nel mezzo della notte, lanciando granate stordenti e facendo casino”. E ancora: “Se un villaggio dà inizio a un’operazione noi diamo inizio all’insonnia”.
Oppure potremmo parlare anche del “neighbor protocol” o “protocollo del vicino”, illustrato perfettamente in una testimonianza del 2002, da Ramallah: “[…]Ci avevano chiamato in un posto. Avevano trovato dei razzi Qassam in un minareto o una moschea. A quel punto che fai? Trovi qualcuno che entri nella moschea e prenda i Qassam, perché per noi è troppo pericoloso farlo. Poi si inizia a bussare alle porte delle case della zona. C’è sempre qualcuno con noi che parla arabo, c’è un’unità dell’esercito che parla arabo a fare da mediatrice. Bussano alle porte e alla fine trovano qualcuno. È ritardato. Gli dicono ‘vai nel minareto, ci sono dei tubi, portali giù’. Non gli dicono nemmeno che sono esplosivi. […] Questo è successo perché la ‘neighbor procedure’ era una procedura standard per le unità di combattimento. Credo lo sia tuttora.”
La “dimostrazione della presenza” è un tema ricorrente anche nelle operazioni a Gaza. In questo video, un soldato racconta di aver distrutto un oliveto “semplicemente perché non avevamo altro da fare”. Tutto questo dietro incoraggiamento del suo comandante, che gli chiede “dove ti va di sparare?”. Il soldato è al suo primo giorno, non si sente ancora di sparare a una casa, gli sembra “moralmente sbagliato”. Che fortuna. Anche se c’è un’ottima possibilità che in un paio di settimane tutti questi suoi crucci morali saranno magicamente dissolti.
In una testimonianza video sull’operazione “Margine Protettivo” del 2014 un soldato dice che “per l’esercito israeliano, se una persona si trova entro 200 metri da un carro armato, non è innocente. Non ha nessun motivo per essere lì. Quindi anche se avessimo trovato una persona a due chilometri di distanza avremmo comunque aperto il fuoco, perché non era previsto ci fossero civili nella zona. Se avessimo trovato qualcuno, non sarebbe stato un civile. Per noi non esistevano civili. Se vedevamo qualcuno, gli sparavamo”.
Ne parlo con un mio contatto, ex carrista nell’IDF, gli domando cosa pensa dell’operato della Ong. Per ragioni facilmente deducibili preferisce che non venga riportato il suo nome. Chiedo se ci sono ordini particolari che proibiscono ai soldati o ai riservisti di parlare di ciò che hanno visto durante gli anni di servizio militare. “Posso parlare di qualsiasi cosa, nessuno mi ha mai detto altrimenti. La maggior parte dei soldati combattenti può raccontare quello che vuole, a meno che non sia coinvolta in operazioni segrete”. Allora perché nella maggior parte delle testimonianze video le persone compaiono con il volto pixelato? “Ottima domanda”, risponde lui. “Forse vogliono evitare di essere giudicati, oppure stanno raccontando stronzate esagerate.”
Chiedo conferma di quanto riferito ad Amira Hass, corrispondente di Haaretz, che in una mail mi scrive: «Mi domando cosa intenda con operazioni segrete. Però sì, in generale direi che ha ragione. Almeno in teoria. È comunque un esercito di persone e le persone parlano. I soldati possono raccontare cosa mangiano, come o dove dormono. Possono persino parlare di determinati comportamenti che non condividono. Ma di fatto lo fanno? E quanti di loro lo fanno? Alcuni si pavoneggiano per atti che sappiamo essere illegali. Loro non lo sanno o non gli importa. Per la stessa ragione altri non parlano. Il problema qui non sono le missioni segrete, ma piuttosto la routine quotidiana di un esercito occupante. Se parlano o meno è comunque per lo stesso motivo: pensano che siano comportamenti accettabili e giustificabili».
Che i soldati siano liberi de facto di parlare è tutta un’altra questione. I video del gruppo di Ad Kan in cui si sostiene che il materiale rivelato sia confidenziale hanno destato scalpore. Breaking the Silence sostiene che tutte le testimonianze siano approvate dal censore militare, Bibi non è d’accordo e dice che l’Ong “ha oltrepassato un’altra linea rossa.” Ad oggi rimane quindi il dubbio sulla legalità delle testimonianze.
L’operato di Breaking the Silence rimane controverso agli occhi degli israeliani, per alcuni si tratta di spionaggio, addirittura di diserzione. Che le dichiarazioni da loro raccolte cozzino con la narrativa di purezza e moralità dell’IDF è lapalissiano, e molto, molto scomodo. I membri dell’ONG però rimangono convinti che ciò che stanno facendo sia a beneficio del proprio Paese. “Mettiamo la nostra società di fronte a uno specchio”. E ancora troppa gente vorrebbe che questo specchio gli fosse levato dagli occhi.