In Italia, raggiungere una vita adulta e indipendente è un desiderio sempre più irrealizzabile - THE VISION
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Ormai lo ripetiamo in loop senza più stupirci: in Italia, i giovani raggiungono un’indipendenza economica ed esistenziale più tardi rispetto alla media europea. Secondo una statistica effettuata da Eurostat, nel 2021 l’età media dei giovani che erano andati via da casa dei genitori era di 26,5 anni, mentre la media italiana era prossima ai 30. Un divario consistente che rischia di aumentare a causa di una serie di concause, tra cui spiccano il carovita, gli stipendi che spesso non riescono a garantire un tenore di vita al di sopra della soglia di povertà, l’impossibilità di pensare alla costruzione di un futuro a causa di un presente la cui unica certezza, ormai, sembra essere l’assoluta precarietà, che nel nostro Paese ha perso la sua accezione transitoria diventando una condizione con cui convivere e alla quale sopravvivere, consapevoli che non ne verremo fuori. 

Se sempre più giovani rimandano il passaggio a una vita autonoma sotto ogni punto di vista, il motivo non può essere rintracciato in un’intrinseca tendenza all’inazione; l’immagine del bamboccione, compiaciuto della sua condizione di eterno figliolo, tanto in voga fino a qualche anno fa, ormai non è più credibile, ma sintomatica di una lettura molto superficiale di ciò che sta accadendo. Ammesso che la gran parte dei giovani abbia smarrito la voglia di investire energie, fisiche e mentali, nella costruzione di un futuro stabile e indipendente – con una casa di proprietà, una famiglia, una professione sicura e tutte quelle condizioni che ci rimandano all’idea di una vita adulta –, non possiamo attribuire la colpa di questa perdita di stimoli ai giovani. È sbagliato sostenere che chi non si affranca dalla famiglia d’origine lo fa perché “non ha voglia di fare nulla”, poiché ci riferiamo a un Paese in cui la totale assenza di prospettive realistiche è una problematica strutturale, talmente cristallizzata da indurre i giovani a sviluppare un diffuso e radicato complesso di inferiorità.

Lo psicoanalista austriaco Alfred Adler, allievo di Sigmund Freud, è stato tra i primi a indagare il complesso di inferiorità – distinguendolo dal concetto di senso di inferiorità – nell’opera del 1907 Studio sull’inferiorità degli organi. Secondo Adler, l’individuo avrebbe per natura un senso di inferiorità – che emerge in età infantile – di per sé non patologico, ma sano e funzionale a dargli la spinta all’autoaffermazione, all’affrancamento e alla costruzione, durante la maturazione, di un progetto di vita indipendente. Questo senso di inferiorità, che Adler individua come primario, è una qualità intrinseca del bambino che avverte la propria condizione di dipendenza dai genitori, o in generale da chi si prende cura di lui e della sua crescita. Nel formulare la sua teoria, poi, Adler individua un senso di inferiorità secondario, proprio degli adulti eterni bambini, imprigionati nella loro condizione di dipendenza da figure accudenti, che percepiranno sempre come esseri “superiori”. 

Quando il senso di inferiorità secondario non viene superato, poiché si interrompe il percorso di affrancamento dalle catene della dipendenza, l’individuo sviluppa un vero e proprio complesso di inferiorità. Stimandosi incapace di badare a sé stesso, rinuncia a quel percorso verso l’autonomia materiale, affettiva ed esistenziale, rintanandosi nel suo stato eternamente infantile che lo condanna alla mancanza di autostima e di fiducia nel proprio valore. Le conseguenze del complesso di inferiorità teorizzato da Adler sono spesso dannose non solo per chi ne è affetto, ma per tutte le persone che entrano in relazione col soggetto. È frequente che il soggetto tenti di sopperire all’inferiorità percepita e al senso di frustrazione che ne consegue con un complesso di superiorità ostentata che si manifesta con arroganza, tendenza a sfidare gli altri e a dimostrare di essere migliori di loro, o ancora con un bisogno di gratificazione e approvazione costanti, con la dipendenza dalla competizione o la tendenza a sopraffare chi ci sta intorno. Tutti comportamenti volti a provare la propria superiorità rispetto agli altri e a tentare, invano, di dimostrare a sé stessi di valere qualcosa.

Va detto che chi non riesce a liberarsi dal proprio complesso di inferiorità, talvolta, è stato vittima durante l’infanzia di dinamiche familiari abusanti ed è per questo che non è in grado di compiere un processo che lo porti ad affrontare la vita e a risolvere le problematiche quotidiane in autonomia. Bisogna poi dire che, in linea di massima, il processo che porta all’età adulta è di per sé costellato di ostacoli da superare con fatica, sforzi e  sacrifici, passaggi obbligati per non restare vincolati alle catene dell’età infantile. Uscire dalla propria comfort zone e affrontare rotture, talvolta traumatiche, con il passato sono tappe fondamentali e spesso dolorose durante la crescita, e per affrontarle abbiamo tutti bisogno di sufficienti energie psichiche, ma anche di fiducia nel fatto che, con l’impegno necessario, potremo ambire a un miglioramento delle nostre condizioni di vita. La possibilità di accedere a un status sociale più alto, di conquistare una stabilità economica e affettiva, di potersi permettere di costruire una famiglia, costituiscono stimoli fondamentali ad affrontare per esempio le fatiche dello studio; una prospettiva di vita appagante nutre le nostre ambizioni e ci motiva ad affrontare anche gli ostacoli più onerosi, perché teniamo lo sguardo verso i nostri obiettivi; ma quando questi appartengono a uno scenario irrealistico, le nostre ambizioni rischiano di sgretolarsi e a quel punto è facile cadere nel complesso di inferiorità.

Gli obiettivi troppo ambiziosi e irrealistici molto spesso vengono abbandonati in fretta; inseguirli ci fa percepire costantemente il fallimento e ci prosciuga dalle energie fondamentali per affrontare qualsiasi sfida o difficoltà. Lo stress che ne deriva fa sì che il nostro corpo produca cortisolo, che causa disturbi del sonno, riduzione della memoria e stanchezza cronica, rendendoci inefficienti e inibendo ancor di più le nostre prestazioni. Il circolo vizioso che si innesca ci impedisce di affrancarci da un senso di fallimento che ci rende inattivi e che può farci rimanere “bamboccioni” a vita. La nostra società è una delle principali cause di questo problema: per molti ventenni, trentenni e quarantenni, il proposito di raggiungere una vita adulta e indipendente è sempre più inverosimile. Anche per chi ha completato il proprio percorso di studi con il massimo dei voti, per chi è disposto a sottoporsi ad anni e anni di praticantato e di stage non retribuiti o sottopagati, o di master e corsi di perfezionamento costosissimi, pagati da mamma e papà, che spesso non garantiscono nulla di concreto e poi non si traducono in un effettivo aumento dello stipendio.

L’aumento inarrestabile degli affitti e del costo della vita, unito a stipendi troppo bassi, è un motivo sufficiente a spingere i giovani a non allontanarsi dal nido familiare; per non parlare dei mutui quarantennali con interessi ormai altissimi, che scoraggerebbero i più impavidi e che ormai quasi non ci fanno nemmeno prendere in lontana considerazione l’idea di avere, in futuro, una casa di nostra proprietà. Ma anche le spese che dovrebbero essere del tutto accessibili in un welfare state, come quelle per le terapie psicologiche, per un trentenne di oggi possono costituire un onere troppo grande. Il risultato è che, se si vuole intraprendere un percorso di psicoterapia, bisogna farsi sostenere dai genitori e, di conseguenza, la percezione di non saper badare a sé stessi e di non poter essere autonomi aumenta ancora di più, con conseguente senso di colpa. L’assenza di prospettive si aggiunge alla diffusa disparità socio-economica e al facile accesso che tutti, a causa dei social, possiamo avere alla vita degli altri. Se sappiamo di avere davanti a noi una strada troppo lunga e impervia per raggiungere l’indipendenza e tutti i giorni restiamo dietro uno schermo ad ammirare le realtà patinate – spesso fasulle – di chi vive nell’agio, il nostro complesso di inferiorità può solo aumentare a dismisura.

Per far fronte a questa situazione ormai cristallizzata, che può solo andare a peggiorare, è necessario un cambiamento strutturale e repentino che sia attuato dall’alto. Se non vogliamo ritrovarci tra vent’anni con una società di adulti inadeguati, insicuri, fagocitati dai bisogni infantili e incapaci di essere autosufficienti, bisogna che lo Stato crei le condizioni per garantire delle prospettive di vita soddisfacenti e realisticamente raggiungibili, così che ritrovino le energie, gli stimoli e la fiducia per affrontare le fatiche di una maturazione a tutto tondo, necessaria oggi più che mai per affrontare il futuro.

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