Se abbiamo paura di invecchiare, è per i pregiudizi che la società impone alla nostra vita - THE VISION

Lo scorso gennaio ho compiuto ventisei anni. Un’età di mezzo, che non aspettavo con l’impazienza dei venti, né mi causa l’aumento di sudorazione che ho sempre pensando ai trenta. Nessun presagio di quella che poteva essere una svolta epocale della mia vita, l’unica cosa che è davvero cambiata è la frequenza crescente con cui mi sento dire, da uno dei miei coetanei, “eh ma ormai sono troppo vecchio per fare questo o quest’altro”. Di solito si sta parlando dell’eventualità di fare le quattro per due giorni di fila, magari infrasettimanali – impresa che io stessa considero impraticabile –, oppure, ancora più spesso, della concreta possibilità di modificare qualcosa che non li soddisfa della loro vita, in un momento in cui la danno per instradata in un percorso preciso e apparentemente immutabile di studio o lavoro, ma il discorso vale anche per le relazioni affettive. Come se avessimo tutti stampata addosso una qualche data di scadenza, capace di indicarci il termine massimo entro cui dobbiamo per forza aver già fatto determinate cose o completato una serie di task

Sembra paradossale, ma in una società in cui oltre a vivere sempre più a lungo, ci troviamo a essere considerati “giovani promesse” fino a quarant’anni, subendo la deminutio di chi non ci vorrebbe mai davvero adulti, questa dilatazione dei tempi non contribuisce ad allontanare la nostra paura dell’invecchiamento, bensì ad acuirla. È come se i motivi per sentirci sempre troppo vecchi rispetto a quello che vorremmo fare si fossero moltiplicati, perché non riguardano più soltanto l’inevitabile cambiamento a cui il nostro corpo è sottoposto con il passare degli anni, ma anche altri aspetti, altrettanto intimi, di ciò che siamo. Nonostante l’invecchiamento fisico rimanga profondamente stigmatizzato nella realtà attuale, tanto da rappresentare uno dei pochi argomenti relegati a una profonda zona di censura anche per quanto riguarda il “mercato dell’intimità” social, mi pare che la “vecchiaia” che temiamo maggiormente, oggi, sia quella legata alla perdita di una certa reattività, della prontezza che ci permette di rispettare la rigida calendarizzazione dell’esistenza a cui gli standard sociali ci hanno abituato.

La corsa a perdifiato a cui siamo costretti, in un contesto per cui esistiamo soltanto quando siamo in movimento – che sia per lavorare, o per raggiungere uno dei tanti goals che dovrebbero rappresentare l’anticamera del successo – ha infatti reso la vecchiaia uno status, che si può acquisire o perdere, più che un evento fisiologico circoscritto a una fase della nostra vita, rendendo sempre più ambiguo il rapporto che ha con l’età anagrafica. Ciò che ci rende vecchi, o a “costante rischio invecchiamento”, infatti, non è tanto il passare degli anni, quanto l’enorme sproporzione che si è creata tra il nostro ritmo interiore, che vorremmo scandisse le nostre esperienze e aspirazioni, dandoci la possibilità di viverle nei tempi che riteniamo più giusti per noi; e quello, molto più rapido, imposto dalle pressioni sociali, per cui dovremmo essere tutti laureati entro i venti e miliardari prima dei trenta, per entrare nelle rinomate classifiche di Forbes. Questo rigido scadenziario, che spezza la nostra vita in “obiettivi” – l’ingresso nel mondo del lavoro, il raggiungimento di un titolo di studio, ma anche l’incontro con il partner adatto a costruire una famiglia, o quanto meno una relazione stabile – tende a farci sentire sempre in ritardo, fuori tempo massimo, con tutta l’angoscia che ne deriva. Così, la vecchiaia diventa una forma di esclusione trasversale alle generazioni, che tocca a chiunque non si dimostri pronto alla prossima delle deadline che lo riguardano, con il rischio di venire superato, lasciato indietro e poi dimenticato da chi invece riesce ad attenersi alla tabella di marcia. 

Il fatto che la società ci voglia tutti giovani, adulti o anziani in un certo modo, plasma le nostre esperienze, appiattendole su un iter preconfezionato e tarandole su una serie di traguardi che magari nemmeno vorremmo raggiungere, ma che finiscono per indicarci quali dei nostri desideri siano o non siano consoni all’età che abbiamo, esattamente come accade per l’abbigliamento o i tatuaggi. Questo meccanismo, a partire dal nuovo significato che conferisce all’invecchiamento, ha delle conseguenze deleterie sul rapporto che instauriamo con il tempo, portandoci a viverlo in modo sempre più conflittuale. Nel momento in cui non riusciamo a ritrovare le coordinate e gli obiettivi dettati della nostra temporalità interiore nei percorsi socialmente imposti, ci troviamo infatti a volere più tempo, o un tempo diverso da quello che stiamo attraversando, cercando di ovviare al senso di affanno che ci separa dalla prossima scadenza con dei tentativi che non possono che deludere le nostre aspettative.

Uno di questi è rappresentato dal fenomeno psichico chiamato “età soggettiva”, che negli anni recenti ha interessato sempre più psicologi e sociologi per la sua diffusione. Con questo termine si fa riferimento a una sorta di scollamento dal tempo cronologico che porta molte persone – circa il 70% di chi si sta avvicinando ai trent’anni, secondo gli studi – a non riconoscersi più nella propria età effettiva, assegnandosene un’altra, quella che percepiscono, e che quindi ritengono più adatta a sé, spesso inferiore. La forbice tende ad allargarsi proprio con l’aumentare dell’età anagrafica, tanto che in media gli adulti sopra i quarant’anni arrivano a sentirsi circa il 20% più giovani di quel che sono, come se un loop alla Christopher Nolan potesse riportarci sempre un passo indietro alla nostra reale collocazione temporale, dandoci una sorta di vantaggio rispetto agli obiettivi in calendario – e quindi una sensazione di sollievo. Anche se può sembrare una forma di illusione innocua, nello scenario attuale la proiezione nell’età soggettiva finisce per rappresentare una strategia di autodifesa, una distorsione – come afferma la psicologa tedesca Anna Konradt, che nei suoi studi la chiama “età pretesa” – a cui ci aggrappiamo per allontanare l’ansia legata alla scadenza successiva. Non è un caso che molti – me compresa – abbiano fissato momentaneamente la loro in coincidenza con l’inizio della pandemia, per sopravvivere a una situazione in cui mentre il tempo continuava a scorrere, la corsa per le nostre ambizioni, reali o indotte, era stata messa in pausa.

A livello sociale, invece, gli effetti più tangibili sono quelli che agiscono sulla nostra percezione del futuro, lasciandoci vagare nel limbo che il filosofo francese Marc Augé ha chiamato “tempo senza età”. La riflessione di Augé, soprattutto nel suo libro del 2020 Che fine ha fatto il futuro?, si concentra infatti su quanto il nostro presente ci metta davanti a una realtà sempre più sbriciolata, discontinua, perché attraversata da rivolgimenti storici repentini, dalla tempesta di stimoli del fast content e, non da ultimo, dai ritmi convulsi a cui si rifanno le logiche della prestazione, comprese le continue scadenze legate “all’invecchiamento sociale”. In questo contesto, abbiamo finito per smarrire gli scopi individuali su cui dovremmo basare la nostra vita, perché non abbiamo più il senso della durata, del tempo che serve per elaborare e poi realizzare un obiettivo davvero nostro. La stessa vecchiaia, come condizione imposta, contribuisce infatti a troncare qualsiasi progetto personale o alternativo ai binari già tracciati, soprattutto se a lungo termine, perché lo priva dello slancio di cui avrebbe bisogno per rappresentare una prospettiva credibile, soffocandolo in mezzo a mille altri traguardi anonimi, a cui però sentiamo di doverci attenere. Questa atmosfera di disillusione è una tra le principali ragioni che portano sempre più giovani studenti e lavoratori ad abbandonare il percorso che hanno intrapreso, perché vi riconoscono soltanto una toppa mal cucita sulla loro sensazione d’ansia, che può funzionare al massimo nel breve periodo; non di certo uno strumento per raggiungere il futuro che realmente desiderano o un’opportunità in cui poter riporre fiducia. Perciò, placare la paura che proviamo per questa particolare forma di invecchiamento significa in primis riappropriarsi del proprio tempo, utilizzandolo come fondamento per costruire uno scenario futuro che possa sincronizzarsi con i nostri desideri.

Se è vero che la tentazione più forte quando ci troviamo su una strada che non sentiamo appartenerci è proprio quella di abbandonarla, sperando che la nostra scelta possa rappresentare un cambiamento significativo, a volte questo non basta. Lo scadenziario che ci convince dei nostri ritardi sull’esistenza è infatti un sistema pervasivo, che rischia di farci rimbalzare su un percorso altrettanto limitante, riproducendo l’avvicendarsi delle deadline. Quello che serve, forse, non è un’ulteriore cesura, anche se di certo più profonda di tutte le altre, ma un lavoro di ricomposizione, che ci permetta di riprendere in mano la durata delle nostre esperienze, liberandole dell’etichetta su cui qualcun altro ha indicato per noi una data di scadenza. Non poter credere nella nostra età soggettiva, infatti, non significa dover rinunciare a una temporalità soggettiva, che imprima ai diversi momenti che affrontiamo un ritmo tale da farci sentire a nostro agio con gli anni che passano, che si tratti di ricominciare l’università a trenta o di cambiare settore lavorativo a quaranta, spostando quello che non ci convince nell’equilibrio che la nostra vita ha assunto, anche quando ci sembra definitivo. 

In questo modo l’idea di immaginare un calendario che tenga traccia delle nostre esperienze può diventare un’operazione che non si riduce al momento della deadline, ma valorizza tutto il tempo che ci siamo presi per arrivarci, ovvero la prima cosa che dovremmo preoccuparci di rispettare. Abbandonare l’ossessione per le scadenze, infatti, può darci la possibilità di dedicare la giusta attenzione a ciò che accade nel mezzo, tra un tratto e l’altro del percorso, per capire che cosa desideriamo davvero fare in quel preciso momento e quale altro presunto traguardo, invece, può essere rimandato, o addirittura dimenticato. Anche i miei prossimi trent’anni, a ben vedere, perdono quell’aura da evento storico che tendo ad attribuirgli, se penso che certi obiettivi potrò spostarli anche molto oltre, con buona pace dei redattori di Forbes

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