Roberto Saviano ha una grande fortuna: è ancora vivo. Allo stesso tempo Roberto Saviano ha una grande sfortuna: è ancora vivo. Una cosa che non va giù alla mandria da bar – trasformata ormai in una mandria virtuale – che, sostanzialmente, non gli perdona proprio questo: non essere stato ucciso. Nell’italica accezione delle lacrime postume, e degli infiniti coccodrilli strappa mutande, Saviano sarebbe diventato un martire, un eroe, sarebbe il protagonista di statue imbrattate dai piccioni nelle rotonde in periferia, tante scuole della nostra penisola avrebbero il suo nome; questo se fosse stato ucciso dieci anni fa durante un agguato in stile Gomorra.
Per fortuna non è successo e Roberto ha assistito alla metamorfosi di quel “poverino, potrebbe essere mio figlio” in bile repressa di individui livorosi (ovvero una larga fetta degli italiani).
Ma come si evolve questo processo di canonizzazione al contrario?
Iniziamo da un dato inconfutabile: Saviano può risultare antipatico, o stucchevole, come qualsiasi altro essere umano. Può anche essere uno stronzo. D’altronde John Lennon ha scritto Imagine, ma poi era un violento. Questo non ha escluso l’opportunità di ergerlo a mito di intere generazioni (e giustamente, aggiungerei). Possibilmente anche uomini che vengono considerati degli eroi/martiri dei nostri tempi- e penso a Falcone, a Peppino Impastato o a Martin Luther King – avevano le loro debolezze, i momenti di antipatia acuta, i difetti come tutti noi esseri umani. D’altronde anche i premi Nobel per la pace possono raccontare barzellette che non fanno ridere o bestemmiare. E dunque?
Saviano è uno scrittore e un giornalista. Può ogni tanto scrivere articoli poco interessanti, rilasciare interviste retoriche o addirittura sembrare culo e camicia con Fazio, il conduttore che ha sdoganato il Saviano televisivo. Può anche guadagnare una vagonata di soldi, alla faccia nostra. Può dire cose sbagliate, attaccare una forza politica o pontificare tutto il giorno dal suo imponente attico. Questo non dovrebbe essere il motivo di attacchi barbari.
Si entra nella logica secondo la quale un immigrato dovrebbe per forza avere gli occhi da cane bastonato, le costole di fuori e una bontà innata. Oppure un individuo su una sedia a rotelle dovrebbe essere placido e tranquillo, e mai-mai-mai farla fuori dal vaso.
Sta qui la differenza, parlando di Saviano, tra il giudizio sulla persona e quello sul personaggio.
“Sta da dieci anni sotto scorta, coi nostri soldi!”, e immaginatevi la frase “coi nostri soldi” pronunciata con la bava alla bocca.
“È un servo del PD”, che va bene per tutte le stagioni, ed è il marchio che ormai hanno sulla pelle i Roberto Benigni di turno.
“È un buonista sinistrorso radical chic”. Il radical chic buonista, si sa, è quella figura mitologica che imperversa nei commenti su Facebook, una di quelle frasi generate a caso e ripetute per ogni occasione, più o meno come “risorse boldriniane”. È il nuovo lessico virtuale e virale.
Sarebbe necessario giudicare Saviano come un Formigli qualunque, e non come un appestato dal morbo del martire mancato. Personalmente, mi cala la palpebra dopo mezz’ora di una sua trasmissione, non lo considero certo un Tolstoj dei giorni nostri (ma nemmeno una mezza calzetta: i suoi libri sono interessanti e ben scritti) e mi viene il latte alle ginocchia durante i servizi di Saverio Tommasi a lui dedicati. Però lo rispetto, come possono essere rispettati i giornalisti che rischiano la propria pelle senza avere il suo stesso successo e i riflettori puntati addosso. Quelle persone di cui tutti ignorano il nome e che dunque sono estranee al tritacarne mediatico, ai giudizi da bar e all’odio bieco.
Saviano invece ha sfondato, i suoi libri vanno via come il pane, le sue opinioni hanno un peso rilevante in ambito politico e sociale, Gomorra inanella un trionfo dopo l’altro anche nelle vesti di serie tv.
C’è una differenza abissale tra non essere sopportato ed essere un mascalzone, tra non condividere le sue idee ed esprimersi in un rigurgito di miseria umana.
Uno scrittore-giornalista ha il diritto e il dovere di esporsi, mettendo in conto il rischio di incappare in critiche feroci e disapprovazione. Ormai però, Saviano si porta addosso la macchia del pregiudizio; dunque Mentana può scrivere un pippone a favore delle ONG e ricevere applausi o pernacchie secondo le modalità ordinarie. Saviano no: il suo pippone a favore di Medici senza frontiere sarà sempre analizzato in modo diverso, seguendo dietrologie subdole alla ricerca della polvere sotto il tappeto. Damilano può lanciare una stoccatina ai Cinque Stelle e al massimo sarà tacciato di servilismo nei confronti della kasta brutta e cattiva, da parte di quella corrente fanatica che assume i tratti degli adepti di una setta. Saviano no: entrerebbero in gioco altri livelli di pensiero, riconducibili alla sua storia, al suo status. Una colpa che è condannato a espiare per tutta la sua esistenza, volente o nolente.
Allo stesso tempo esistono personaggi dotati di un’armatura perenne, in grado di proteggerli dalla macchina del fango. Possono essere criticati, ma cavalcano l’onda del malcontento generale e dunque sono paladini. Di cosa, non si sa.
Prendiamo Travaglio: il suo egocentrismo, rispetto a quello di uno come Scanzi, è meno esplicito, più subdolo, strisciante. Assorbe i dolori intestinali del popolo e li trasforma in sagaci invettive contro i suoi nemici prediletti. Ed è quello che il popolo ama: sottomettere il potente, in una rivincita sociale che ha antiche radici. Travaglio, con tutti i difetti del mondo, è “uno di loro”. Saviano no. Saviano campa “coi nostri quattrini”, è protetto grazie ai nostri portafogli, deturpa l’immagine dell’Italia nel mondo. Saviano non è “uno di noi”. Per quale motivo ha scritto un libro sulla camorra e non sulla fulgida bellezza del Maschio Angioino?
Questi sono i discorsi dei suoi detrattori più agguerriti – mentre è giusto riconoscere anche la presenza di critiche costruttive da parte di una fetta di pubblico più moderata – e l’opinione raggiunge lo status di dogma. Non se ne esce: Saviano ha questa spada di Damocle perenne sulla testa, il fiato di milioni di italiani sul collo, il pregiudizio nei confronti di ogni cosa che fa, giusta o sbagliata che sia.
Vogliamo lasciare a Roberto la libertà anche di scrivere articoli che non piacciono, di non risultare simpatico, di avere idee rivedibili o non condivise?
Vogliamo preservare quel sacrosanto diritto di stare sul cazzo, che vale per tutti gli esseri umani?