Il 4 novembre 2020, a seguito del nuovo Dpcm per contenere la seconda ondata di Coronavirus in Italia, Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta e Calabria venivano dichiarate zone rosse. Con la differenza che, mentre Lombardia e Piemonte registravano migliaia di nuove infezioni al giorno, la sanità calabrese rischiava il collasso con 6.092 casi complessivi e soli 26 posti occupati in terapia intensiva.
Stando ai 21 parametri varati dal ministero della Salute e dal Comitato Tecnico Scientifico, il principale fattore di criticità in Calabria non è mai stato il numero di contagiati, ma il suo sistema sanitario, considerato il più disastrato non solo d’Italia ma dell’intera Unione europea. Ultima persino per livelli essenziali di assistenza, che la sanità calabrese non sia un esempio di eccellenza è innegabile. Tuttavia, il motivo della sua fragilità non può essere ricondotto – come dichiarava nel 2017 la leghista Susanna Ceccardi – a una presunta incompetenza del personale medico, ma a un problema strutturale del sistema stesso, provato da decenni di cattiva gestione e sommerso da debiti.
Se come afferma Roberto Saviano “controllare la sanità significa avere in mano una regione”, nel caso della Calabria, dove la ‘ndrangheta si è ormai sostituita al governo dello Stato, era semplice immaginare cosa – o chi – si nascondesse dietro i 187,5 milioni di euro di debiti che nel 2010 hanno spinto il governo a disporre il commissariamento del sistema sanitario regionale. Non è certo una coincidenza che nel 2006 l’Asl di Locri fosse stata sciolta per infiltrazioni mafiose, così come quella di Reggio Calabria nel 2008, quella di Vibo Valentia nel 2010, l’Asp di Reggio Calabria e Catanzaro nel 2019. Complessivamente, si stima che il 40% del sistema sanitario territoriale calabrese sia presidiato dalla ‘ndrangheta.
La sanità calabrese è commissariata da ben dieci anni, durante i quali non solo il deficit accumulato dal servizio sanitario regionale non è diminuito, ma aumentato, arrivando nel 2020 a circa 225 milioni di euro. A questi bisogna aggiungere i debiti delle aziende sanitarie con i fornitori che, complessivamente, porterebbero il debito a circa due miliardi di euro. Per ridurre le spese, dal 2010 al 2017, il personale sanitario regionale ha subito un taglio del 17%, 18 ospedali pubblici sono stati chiusi, mentre i posti letto, nel 2013, erano il 40% in meno rispetto al 2000.
Inutile dire che già durante la prima ondata di Coronavirus la Calabria era impreparata ad assistere i malati Covid e si è salvata solo grazie al lockdown nazionale. Nonostante questo, all’arrivo della seconda ondata i 400 posti in più in terapia intensiva – da attivare parallelamente all’assunzione di 270 infermieri e 200 operatori sociosanitari –, voluti dall’ex presidente della regione Jole Santelli, erano stati realizzati solo sulla carta: di fatto, erano ancora 152, soltanto 6 in più rispetto a marzo.
Il nuovo governatore facente funzioni della Calabria, Antonino Spirlì, si è quindi visto costretto a correre ai ripari ed emettere una nuova ordinanza per l’aumento dei posti letto Covid-19 e la creazione di “ospedali Covid”. Se l’ex commissario alla sanità Saverio Cotticelli non avesse ammesso, di fronte alle telecamere di Titolo V, di non avere la più pallida idea di dover preparare un piano Covid – mentre il suo vice lo rimproverava di non essersi adeguatamente preparato all’intervista –, forse l’Italia non avrebbe mai scoperto che, per esempio, per quanto molti ospedali in Calabria versino in stato di abbandono, in altri i reparti Covid sono rimasti chiusi durante tutta la durata dell’emergenza nonostante fossero perfettamente agibili.
Attualmente, mentre viene allestito un ospedale da campo da un milione di euro a Cosenza – che insieme a Catanzaro e Reggio Calabria è uno dei tre hub in tutta la regione in grado di gestire i casi più gravi – altre strutture continuano a rimanere vuote come Paola, Praia a Mare e Lungro. Nell’intera provincia di Cosenza – la più popolosa in Calabria – fino alle prime settimane di novembre veniva inoltre usato un solo macchinario per processare i tamponi effettuati, con considerevoli ritardi sulla consegna degli esiti e non pochi disagi per i cittadini.
Dall’episodio Cotticelli, l’intera storia della sanità calabrese si è trasformata in una barzelletta agli occhi di tutto il Paese, dalla nomina di Guglielmo Zuccatelli, passando per Eugenio Gaudio, fino alla convocazione di Emergency – che al momento gestisce l’ospedale da campo di Crotone. Sulla vicenda è stato addirittura interpellato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri prima che il governo riuscisse a nominare un nuovo commissario della sanità per la Calabria: l’ex prefetto e questore Guido Longo.
Considerati i presupposti, si può capire perché il sistema sanitario calabrese fosse in crisi da molto prima dell’emergenza Covid. Eppure, a essere colti di sorpresa dal Dpcm entrato in vigore il 6 novembre sono stati proprio i calabresi. Prima del caso Cotticelli, pochi in Calabria riuscivano a spiegarsi perché una regione che registrava poche centinaia di casi al giorno – annoverata addirittura tra le poche “zone verdi” d’Europa – fosse equiparata, per gravità dell’emergenza, alla Lombardia, tanto da mobilitarsi su Facebook per dire “no” alla zona rossa.
Con una sanità al limite e durante una pandemia globale, potrebbe sembrare assurdo che il primo pensiero sia stato quello di protestare contro la chiusura delle attività e non quello di affermare il proprio diritto alla salute. Tuttavia, sarebbe altrettanto assurdo pretendere che, nella regione più povera d’Italia – e terza più povera d’Europa –, i cittadini abbiano come principale desiderio quello di ricevere cure dignitose.
Non si spiegherebbe, altrimenti, perché i calabresi abbiano accettato per un decennio il commissariamento della propria sanità senza mai opporsi o, al massimo, dando la colpa delle proprie disgrazie al “governo ladro”. Oppure il motivo per cui in Calabria manchi chiaramente una coscienza anti-mafia, tanto che i suoi abitanti provano tuttora timore nel pronunciare nome e cognome di ‘ndranghetisti. In effetti, non potrebbe essere più complesso parlare di “Stato” ai cittadini della regione con il maggior numero di comuni sciolti per mafia, che nel 2011 presentava la più grande percentuale di “mafiosità” in Italia e dove, nel 2020, il presidente del consiglio regionale Domenico Tallini è stato arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio politico mafioso.
Non solo. La Calabria è nelle ultime posizioni in gran parte degli indici del Paese che misurano parità di genere, istruzione e occupazione. Una situazione ben sintetizzata dal presidente facente funzioni Antonino Spirlì che, in occasione di un raduno leghista, aveva rivendicato il suo diritto a pronunciare termini omofobi e razzisti come “frocio” e “negro”. Lo stesso che, in un recente intervento, non si è fatto alcuno scrupolo a dichiarare che “il governo sta annacando il pecoro” in dialetto – che ancora dieci anni fa era l’unica lingua con cui si esprimeva il 31,3 % dei calabresi. Non va meglio, purtroppo, con gli indici dell’analfabetismo funzionale.
Finora, la strategia che la regione ha seguito per porre rimedio a simili mancanze è stata contrapporvi le bellezze naturali e paesaggistiche del luogo. Puntare sul turismo non sarebbe neanche così sbagliato se questo non si traducesse in una forma di negazionismo avanzata dai cittadini di fronte al degrado politico, sociale e culturale del territorio. Quando in una pubblicità di Easyjet la Calabria venne descritta come un luogo simbolo della mafia, molti calabresi e diversi politici si limitarono a mostrare disappunto, invece di cogliere l’occasione per riflettere sull’immagine che il resto d’Italia ha della loro regione, una terra meravigliosa se ci si ferma pochi giorni come turisti, ma che costringe i calabresi a emigrare sempre di più, per studio, lavoro e anche per ricevere prestazioni sanitarie.
La regione Calabria parte da una situazione di svantaggio nota da più di un secolo, vittima di un divario tra Nord e Sud a cui lo Stato dovrebbe, una volta per tutte, porre rimedio. Ma è anche vero che in Calabria, il potere, e soprattutto quello che scende a patti con la criminalità organizzata, non è un macchina che opera all’oscuro dei suoi cittadini. Spesso sono proprio i cittadini che, per rassegnazione, paura o la sensazione di essere abbandonati dallo Stato, preferiscono tacere, accettando di essere governati da rappresentanti che non hanno mai agito nel loro interesse.
Con l’ordinanza del ministro della Salute Roberto Speranza del 28 novembre, la Calabria è passata da zona rossa a zona arancione. Ma finché non saranno i calabresi a riprendere in mano il governo della propria regione, è difficile pensare che la nomina di un commissario alla Sanità possa risolvere un’arretratezza che, come capì il politologo Edward Banfield 70 anni fa – e più di recente Robert Putnam – oltre a essere politica, economica e sociale è anche civica e morale.