La Calabria ha un problema di illegalità enorme. Ma l’Italia la ignora.

In un Paese in preda all’ansia del coronavirus, i recenti risultati elettorali dell’Emilia Romagna e della Calabria sono durati il tempo dell’indignazione per gli sconfitti e qualche ora di homepage per i giornali. I media nazionali, nel clamore iniziale, avevano paragonato la vittoria della coalizione di centrosinistra in Emilia alla battaglia di Stalingrado e la vittoria di Santelli in Calabria alla caduta del Muro di Berlino. Tuttavia, a essere sinceri come il buon Giancarlo Giorgetti, delle elezioni regionali calabresi non “importava quasi nulla a nessuno”. Il vice-segretario nazionale del Carroccio con la sua affermazione aveva denudato la narrazione traboccante di sentimenti di legalità e speranza presentata dai quattro candidati che, fra impresentabili, trasformisti e membri abbastanza casuali della società civile prestati alla politica, avevano messo in campo una delle offerte politiche più desolanti della storia politica di questa regione.

Eppure, le ragioni per interessarsi alle elezioni regionali calabresi erano molte: la Calabria è infatti l’ultima regione italiana rispetto ai livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA); è quella che riceve più fondi europei ed è anche la prima per numero di comuni sciolti per infiltrazione mafiosa. Ma, soprattutto, in Calabria opera la più grande holding italiana, capace di fatturare più di 300 milioni di euro alla settimana, che può contare su più di 60mila dipendenti e ha basi operative in più di 30 Stati: la ‘ndrangheta.

La ’ndrangheta, multinazionale del crimine esportata dalla Calabria in tutto il mondo, ha una struttura organizzativa di tipo orizzontale che agisce su più livelli – imprenditoriale, finanziario, politico. Il 19 dicembre 2019, a dieci giorni dalla presentazione delle liste elettorali, l’operazione “Rinascita-Scott” del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri sulla ’ndrangheta vibonese piomba sull’opinione pubblica calabrese con 416 indagati e 334 arresti, 15 milioni di beni sequestrati e una sfilza di nomi illustri della borghesia popolare – composta da imprenditori e liberi professionisti che hanno costruito la loro fortuna, non grazie a lasciti generazionali, ma grazie al lavoro – ai domiciliari. Gianfranco Pittelli, noto avvocato del vibonese, ex parlamentare di Forza Italia, è accusato da Gratteri di essere il tramite fra la famiglia Mancuso, la massoneria deviata, la magistratura e il mondo degli affari.

Giancarlo Pittelli

Il giudice afferma che Luigi Mancuso, detto “Il Supremo”, numero uno indiscusso dell’omonima ’ndrina egemone nell’area del vibonese, gode di “entrature in ogni settore sociale, anche in più alti e insospettabili, grazie soprattutto alla dedizione assoluta assicuratagli negli anni da dall’avvocato ed ex onorevole Giancarlo Pittelli”. Quest’ultimo, avrebbe “messo sistematicamente a disposizione della Famiglia Mancuso il proprio rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale, del mondo imprenditoriale e delle professioni, fungendo da passepartout del Mancuso per lo sviluppo nel settore imprenditoriale ed acquisire informazioni coperte dal segreto d’ufficio”. Le informazioni venivano passate a loro volta da Giorgio Naselli, ex comandante del Reparto operativo nucleo investigativo dell’Arma di Catanzaro, diventato amico di Pittelli durante i suoi undici anni di servizio in città.

L’operazione “Rinascita-Scott” ci mostra come la mafia, grazie alla complicità della massoneria deviata, si annidi nelle istituzioni pubbliche, in quella zona grigia fatta da colletti bianchi, professionisti, servitori dello Stato: persone apparentemente perbene. Paolo Borsellino diceva che “Mafia e politica sono due poteri che governano lo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. In una sorta di darwinismo criminale, la ‘ndrangheta si è evoluta: ora preferisce il tacito compromesso alla guerra. Capace di cavalcare le enormi praterie lasciate dalla quarantena della politica calabrese e nazionale, la mafia calabrese non si contrappone allo Stato, ma governa il disordine sociale. Si presenta con due facce: guarda alla disperazione della popolazione, che controlla nelle forme più varie; guarda al potere, in un rapporto di interscambio dal quale emerge che, nella storia, è spesso il potere ad avere bisogno delle ‘ndrine e non viceversa.

Paolo Borsellino

Secondo il sociologo Francesco Calderoni tale interpretazione è, tuttavia, semplicistica, in quanto legata alle componenti diacroniche e diatopiche che ne denotano la materia in oggetto: la ‘ndrangheta, come ogni organizzazione politica, criminale o economica, subisce dei mutamenti, cambia i suoi attori e si ramifica dove si presentano nuove opportunità. La ‘ndrangheta globalizzata, infatti, agisce come una società di servizi che scivola nella zona grigia dell’economia capitalista-neoliberale passando dall’estorsione, come dinamica sostituiva alla tassazione dello Stato, all’imposizione di acquisto di prodotti. Grazie alle società di comodo, le ‘ndrine impongono l’acquisto dei loro prodotti al mercato europeo. È quello che l’ultima operazione “Helianthus” della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri ci mostra. Il clan Labate, una delle famiglie storiche di Reggio Calabria, imponeva con la forza ad alcuni titolari di imprese l’acquisto di prodotti dell’edilizia presso le aziende legate al clan. A un commerciante è stato impedito di aprire una pescheria perché dava fastidio al titolare di un’altra pescheria, affiliato alla cosca.

Giovanni Bombardieri

Finita l’epoca dello stragismo di Cosa nostra, la ‘ndrangheta, grazie a un sistema criminale strutturato sulla coesione dei legami interni e sulla forza delle relazioni esterne, ha creato una politica criminale vincente. Nell’operazione “Rinascita-Scott”, la procura racconta della stretta collaborazione tra la mafia calabrese e la massoneria deviata. Il rapporto fra le logge di potere e la criminalità organizzata non è storia nuova. La Santa, uno dei gradi maggiori nella gerarchia della Ndrangheta, come racconta Gratteri, è lo spartiacque tra la vecchia e la nuova ‘ndrangheta; nata nel 1969-1970, consente la doppia affiliazione di un ‘ndranghetista, cioè far parte della ‘ndrangheta e partecipare a una loggia massonica deviata. In concreto, entrando nella loggia massonica un ‘ndranghetista è in grado di avere contatti diretti con i quadri della pubblica amministrazione.

Il procuratore Gratteri, in un’intervista rilasciata tempo fa al Fatto Quotidiano, rievoca un episodio giudiziario: “Un collaboratore di giustizia mi ha detto che all’orecchio del Gran maestro c’erano tre incappucciati e tra questi c’erano anche dei magistrati. Quindi capite il grande salto di qualità della ‘ndrangheta, che cosa voglia dire essere un santista”. “E se un santista viola le regole si deve avvelenare”, racconta il procuratore calabrese. Infatti nel rito di affiliazione della dote della Santa, gli si dà anche una dose di veleno”. Il mondo della massoneria è quello che Massimo Carminati, ex terrorista dei Nar, killer della Banda della Magliana e dominus dei quartieri bene di Roma, arrestato nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale,  definirebbe “il mondo di mezzo”, nel quale insospettabili professionisti, padrini, rispettabili imprenditori, criminali e politici, si scambiano favori e appoggi. Nel dicembre 2017 la commissione antimafia ha dedicato un report alla presenza della massomafia all’interno degli enti locali sciolti per mafia.

L’attività mafioso-delinquenziale è solo una delle forme con cui si presenta l’illegalità nelle realtà mondiali. Essa agisce tramite il nepotismo, il clientelismo, il riciclaggio, la corruzione. Il problema delle ‘ndrine infatti non è come fare soldi, ma come riciclarli. Senza il riciclaggio, il denaro delle mafie sarebbe un ricavato inerte; è necessario che rientri in circolo. Nell’indagine “Martingala” del 2018, la DIA di Reggio Calabria e la procura di Firenze spiegavano come la ‘ndrangheta utilizzi società “cartiere” con base all’estero, con lo scopo di mettere in piedi operazioni commerciali inesistenti grazie a documenti fiscali e operazioni di pagamento fittizie. A due anni dalla costituzione di questa società, la sede legale viene trasferita nel Regno Unito dove poi cessa l’attività, evitando così accertamenti, anche ex post. Uno stratagemma che consente di schermare trasferimenti di denaro, da e verso l’estero, funzionali per riciclare il denaro sporco.

Nicola Grattieri

I politologi John G. Peters e Susan Welch, nei loro studi sulla corruzione, affermano che gli atti illegali non sono necessariamente corrotti, come tutti gli atti di corruzione non sono necessariamente illegali. Le clientele rientrano nella seconda categoria. Il sociologo Raimondo Catanzaro ha sostenuto che il rapporto clientelare ha elementi in comune con la relazione di tipo mafioso. È proprio la clientela che ha creato e crea le potenzialità sociali, economiche, politiche ed istituzionali all’interno delle quali il comportamento mafioso ha trovato e trova alimento e modalità di riproduzione, trasformazione e stratificazione. Il sistema clientelare apre le porte degli enti pubblici ai mafiosi: una volta entrati ne diventano egemoni perché hanno a disposizione l’arma della violenza. Nel suo libro, il professore di sociologia dei fenomeni politici dell’Università della Calabria Piero Fantozzi, spiega che nella mafia e nel clientelismo l’iniziativa del soggetto avrebbe lo stesso fondamento: suscitare aspettative di privilegi o speranze di vantaggi. Ma attenzione, sebbene possa esserci corruzione senza mafia, sicuramente non c’è mafia senza corruzione.

Nel precedente contratto di governo, tra Lega e M5S, alla lotta alla mafia veniva destinato un trafiletto di 69 parole. Da quel momento, ci sono state soltanto troppe comparsate politiche in stile Maria De Filippi e blitz elettorali alla Silvio Berlusconi post terremoto de L’Aquila. Da Matteo Salvini a Zingaretti fino a Giorgia Meloni, sembra che tutti si siano accorti che la ‘ndrangheta c’è e va combattuta, soprattutto se e quando questa lotta astratta fa capitalizzare consensi. Eppure, molti partiti avrebbero tanto da combattere già al loro interno. Il recente arresto del sindaco di Sant’Eufemia D’Aspromonte Domenico Creazzo, vicino al centrosinistra, fresco dell’elezione al consiglio regionale con Fratelli D’Italia con 8mila voti e accusato per voto di scambio, dell’ex onorevole Pittelli, deputato di Forza Italia, e il divieto di dimora per Nicola Adamo a causa di traffico di influenze illecite, sindaco di Catanzaro, sono chiari campanelli d’allarme che la politica non intercetta.

Ciò che sfugge anche a chi guarda da fuori quello che avviene in Calabria è il cambiamento nella percezione della ’ndrangheta che l’inchiesta di Gratteri provoca soprattutto nella borghesia urbana: una mafia non più solo locale-globale, ma infiltrata nel tuo posto di lavoro e nella scrivania di fianco alla tua, tra le persone normali. Nel caos generale, parte dei calabresi ormai non riesce più a cogliere quando un comportamento è corrotto o meno; a volte le pratiche corruttive mafiose sono percepite come semplice mancanza di integrità e di etica, non come veri e propri atti criminali. Numerosi studi sostengono che più è grande il livello di corruzione meno il Paese è sviluppato. Daniel Treisman, professore di scienze politiche della University of California, guarda alle cause della corruzione a livello culturale evidenziando come in aree meno sviluppate, un atto viene identificato corrotto quando l’opinione pubblica lo determina come tale e di come solo una governance solida possa arginare i tentativi di corruzione. Ma in una regione dove la politica latita, le procure sono iperattive e la maggior parte dei giovani residenti non lavora, non studia o si dà al malaffare,  la soluzione a questi problemi sembra restare ben lontana.

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