Siete studenti dell’università di Catania, di Foggia, di Sassari. Studiate Giurisprudenza, Ingegneria, Economia. Vi impegnate per anni su manuali di duemila pagine, perdendo le diottrie e passando le serate in biblioteca, attorniati dalle cartacce degli snack che avete mangiato per cena. Superate una trentina di esami con il massimo dei voti, perché ve lo meritate: vi siete appassionati alla materia e avete sudato per ottenere quel risultato, mandando a memoria centinaia di nozioni o leggendo libri che non erano neanche nel programma d’esame. Siete contenti di fare il vostro dovere, sapete che i sacrifici in futuro verranno ripagati, o almeno lo pensate. Poi vi laureate, forti della vostra preparazione iniziate a cercare lavoro, magari in qualche grande città come Milano o Roma. Quando compilate il curriculum, mettete in primo piano il titolo di studio e il voto di laurea, con queste credenziali avete intenzioni di partecipare a un concorso pubblico. Mentre scorrete la sezione del sito del Miur dedicata ai bandi, vi accorgete che in molti casi campeggia la dicitura “concorso riservato a laureati in atenei di serie A”. In un’altra situazione avreste protestato, ma poi ricordate: il vostro titolo di studio non ha alcun valore legale.
Può sembrare un brutto sogno, eppure è un caso che potrebbe diventare realtà, visto che Matteo Salvini ha dichiarato di voler abolire il valore legale del titolo di studio. Lo ha detto chiaro e tondo in un intervento alla Scuola di Formazione Politica della Lega: “Dobbiamo rimettere mano alla riforma della scuola e dell’università, l’abolizione del valore legale del titolo di studio è un tema che va affrontato”. Secondo il leader della Lega: “Negli ultimi decenni sia la scuola che l’università sono stati considerati serbatoi elettorali e sindacali, semplici fornitori di documenti”. Questa volta la dichiarazione del leader leghista non appare come una delle solite sparate sui social, tanto che il ministro Bussetti si è affrettato a smorzarne gli entusiasmi: “È un tema di cui si dibatte da tanti anni, per adesso non è in programma ma non è detto che in futuro non possa essere analizzato”.
A dire il vero non è la prima volta che la Lega si esprime sul tema, già qualche anno fa aveva prodotto un documento in cui si accusava gli atenei meridionali di “Offrire un servizio nettamente inferiore alla media.” Secondo i leghisti, laurearsi in una università del Sud è più facile, questo penalizzerebbe i più preparati laureati del Nord che dovrebbero confrontarsi, nei concorsi pubblici, con concorrenti che hanno avuto un percorso universitario facilitato. La rozzezza della divisione evocata da Salvini – quella fra atenei del Nord e del Sud – mistifica una divisione molto più significativa, ovvero la frattura che intercorre tra gli atenei di “serie A” e quelli di “serie B”.
A definirli in questo modo fu Matteo Renzi qualche anno fa, esplicitando il funzionamento a due velocità del sistema accademico italiano: da una parte i grandi atenei – quelli con affluenza di massa come Bologna, Roma, Milano; dall’altra i piccoli centri universitari – sotto i 10mila iscritti – che spesso forniscono servizi poco appetibili a causa della scarsa liquidità. Ai primi, non per meriti didattici ma solo per meriti “di bilancio”, sono destinati maggiori finanziamenti ed è concessa più capacità di manovra. I secondi sono lasciati a se stessi, a spartirsi le briciole dei finanziamenti. Anche lo stesso Renzi propiziò una disuguaglianza del genere con la Legge di Stabilità del 2016, che allocava più risorse alle università capaci di competere a livello internazionale.
Adesso Salvini rincara la dose, evocando uno scenario da Hunger Games in cui tutti gli atenei competono fra loro per attirare gli studenti e ricoprirsi di prestigio. Abolire il valore legale della laurea non stimolerebbe le università a fare meglio, ma semplicemente favorirebbe l’innalzamento delle tasse. L’aumento delle disuguaglianze ricadrebbe sugli studenti, che dovrebbero spendere molto di più pur di frequentare un’università di supposto “prestigio”. Così, quelle di serie A sarebbero immediatamente avvantaggiate, e il mercato selezionerebbe con più facilità i loro laureati. Gli atenei di serie B faticherebbero ancora di più, e perderebbero ulteriore appeal. Chi non ha le possibilità – economiche o logistiche – di frequentare un polo di prestigio sarebbe svantaggiato nel mondo del lavoro.
Come nel caso dell’abolizione del numero chiuso a Medicina, sembra che il governo agisca paventando manovre populiste e inutili per problemi la cui soluzione dovrebbe passare da un’attenta riflessione, nonché da un intervento che interessa parecchi anni. Per migliorare la situazione del sistema universitario italiano è necessario ridurre il gap tra eccellenze e fanalini di coda, e di certo non si può raggiungere un obiettivo del genere attraverso una politica di deregulation piuttosto confusa e saltuaria. Bisognerebbe puntare su investimenti mirati, maggiori interventi statali, evitando di addossare agli atenei tutti gli oneri della propria amministrazione. Questo immaginario darwinista della vittoria del più forte va di pari passo con lo smantellamento del welfare statale: non è un caso che, come ha rilevato il rapporto Ocse 2018, l’Italia investe nel settore dell’istruzione il 28% in meno rispetto agli altri Paesi dell’area europea. Lo stesso Bussetti, da poco insediatosi, riguardo possibili investimenti aveva dichiarato: “Non possiamo e non vogliamo fare facili promesse, non possiamo fare finta di non conoscere la difficile situazione dei conti dello Stato.”
La battaglia leghista sull’abolizione del valore legale del titolo di studio segue la scia di un’altra proposta grillina. La deputata pentastellata Maria Pallini ha depositato in Parlamento un progetto di legge in cui si propone di vietare la richiesta del voto di laurea come requisito d’accesso nei concorsi pubblici. Per i Cinque Stelle il voto di laurea non sarebbe un certificato di eccellenza, ma risulterebbe un ulteriore discrimine per chi vuole accedere a un impiego statale. Anche stavolta ci vanno di mezzo le università del Sud, che sarebbero ree di elargire voti troppo alti. Il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia ha dichiarato: “Oggi il Paese e soprattutto i giovani necessitano di una riforma che garantisca la possibilità di accedere ai pochissimi e sempre più rari concorsi pubblici senza alcuna discriminazione di sorta”. Per Sibilia, dunque, lo Stato piuttosto che rivedere i concorsi o puntare su un maggior numero di assunzioni, deve semplicemente ritoccare i requisiti d’accesso, come se non bastasse il numero esorbitante di candidati che già oggi si registra per ogni concorso indetto. Nell’ultimo maxi-concorso dell’Inps, per 365 posti ci sono state 10mila richieste, cosa succederebbe se i requisiti da presentare fossero ulteriormente abbassati?
La presunta volontà di democratizzare l’istruzione e alleggerire la burocrazia del settore pubblico, con cui questo governo si fa bello di fronte al proprio elettorato, nasconde invece un tentativo di mistificazione: si individuano falsi problemi da risolvere e si fanno forti dichiarazioni in merito, in modo da passare per illuminati interventisti. In realtà non si toccano le questioni più spinose, come quelle dei tagli alla scuola, e si perpetua lo stesso sistema di disuguaglianze. Si fa passare il messaggio che non serve a nulla studiare, perché basta informarsi – magari attraverso il blog di Grillo e la pagina Facebook di Salvini – per acquisire una visione del mondo o delle competenze. I gialloverdi screditano sistematicamente la cultura: un giorno liquidando il valore dello studio, un altro attaccando i giornalisti. Restituiscono all’elettorato una versione semplificata del mondo, togliendo loro i possibili strumenti per interpretarlo. Finiremo bloccati in uno stanzone, in migliaia a cercare di passare dalla porta di un ufficio in cui si tiene un concorso, mentre qualcun altro, passando da una via laterale, ci sfilerà il posto, forte di non meglio precisati agganci. A nulla varrà agitare il nostro diploma di laurea, perché in quel caso – come vuole lo stereotipo – sarà davvero “solo un pezzo di carta”.