Abolire il numero chiuso è il colpo di grazia all’università italiana

Ogni anno, migliaia di ragazzi passano l’estate su quiz e test di ogni sorta: il loro obiettivo è entrare alla facoltà di Medicina. Almeno fino a oggi. Nel 2018 sono stati in 67mila a tentare la fortuna nelle aule universitarie italiane, un dato che conferma i numeri dell’anno precedente. Solo 1 studente su 7 è riuscito a passare, per poco meno di 10mila posti disponibili. Ebbene, per tutti quelli che ci proveranno in futuro, sembra che le ore di studio matto e disperatissimo – coronate da una buona dose di incertezza – stiano per finire.

A quanto pare, infatti, il governo gialloverde vuole orientarsi verso l’abolizione del test di ingresso a Medicina, ma – come accade spesso per ciò che interessa l’entourage bicefalo di Salvini e Di Maio – la questione è alquanto confusa. Nella sera di lunedì 15 ottobre, il governo ha rilasciato un comunicato stampa nel quale si riassumevano i principali cambiamenti apportati dalla Legge di Bilancio. Il punto 22 recita: “Abolizione del numero chiuso nelle Facoltà di Medicina – Si abolisce il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina, permettendo così a tutti di poter accedere agli studi.” Un testo stringato, che è subito rimbalzato su tutti i media. Nel pomeriggio del giorno seguente, Palazzo Chigi ha precisato : “Si tratta di un obiettivo politico di medio periodo per il quale si avvierà un confronto tecnico con i Ministeri competenti e la Conferenza dei Rettori delle università italiane, che potrà prevedere un percorso graduale di aumento dei posti disponibili, fino al superamento del numero chiuso.” Non sarà, dunque, una misura che verrà attuata già dal prossimo anno.

D’altronde, a favore dell’abolizione si erano espressi favorevolmente sia il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, che aveva parlato di “Trovare un’alternativa al test,” sia il ministro della Sanità Giulia Grillo, che paventava “Un sistema alla francese”, ovvero accesso libero per il primo anno e sbarramento a partire dal secondo. Anche il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, con il consueto tono pacato e misurato, si era dichiarato favorevole: “Metterei il numero chiuso nelle facoltà umanistiche, da dove ne sono usciti tanti di laureati. Ma a MEDICINA c’è bisogno di ossigeno. Abbiamo bisogno di medici e di ingegneri.” Nelle parole di Salvini, sembra esserci quasi del risentimento per i laureati delle facoltà umanistiche – come se costituissero un peso per la società – a fronte del prestigio di medici e ingegneri.

Marco Bussetti
Giulia Grillo

Quella sul numero chiuso è una discussione faziosa: non è di certo quello il nodo da sciogliere quando si parla di istruzione universitaria. Se l’accesso a Medicina fosse libero, le strutture universitarie verrebbero inondate da un numero di studenti 6 volte superiore rispetto a quello attuale. Il numero chiuso è stato istituito nel 1997 per ovviare alle carenze del sistema universitario. Le università, infatti, non hanno strutture sufficienti per accogliere un così grande numero di studenti: a partire dalle aule di capienza inadeguata, passando dal personale, alla serie di servizi specifici – come laboratori e aule studio – che sono necessarie per un percorso altamente formativo come l’educazione alla professione medica. La miopia della politica odierna si manifesta tutta in questo paradosso: l’eliminazione del numero chiuso per Medicina viene propagandato come una misura per rendere effettivo il diritto allo studio, ma, di fatto, quel diritto degli studenti verrebbe leso e compromesso. L’università non potrebbe fornire neanche le aule per ospitare così tanti iscritti, né servizi e agevolazioni adeguate come le borse di studio, i posti nei collegi e studentati, o le attrezzature – fisiche ed economiche – per i portatori di handicap. In nome di un’affluenza maggiore si perderebbe l’efficacia dei servizi minimi predisposti dal sistema universitario. Non potrebbe essere altrimenti in un Paese che ogni anno vince la maglia nera per la spesa pubblica del comparto educativo. Secondo il rapporto OCSE del 2018, la spesa italiana in questo settore cruciale è del 28% inferiore rispetto a quella degli altri Paesi dell’area.

Criticità che sono state sottolineate anche da Enrico Gullini, coordinatore nazionale dell’Unione degli Universitari: “Il governo continua a parlare per slogan e a fare una continua campagna elettorale anche sulle manovre della Legge di Bilancio. Si parla di eliminazione del numero chiuso a Medicina: bene l’intenzione, sosteniamo da anni che l’attuale sistema di accesso vada superato.” Per Gullini il problema è soprattutto di natura economica: “Non si dice in quale modo, non si fa un minimo accenno alla copertura economica e agli investimenti che si devono fare per attuare una simile manovra da subito.” Un pensiero che evidenzia le paure di chi, fra docenti e studenti, deve confrontarsi quotidianamente con l’università: “Così facendo si rischia solo di mandare in tilt le università, che senza ulteriori finanziamenti non potrebbero sostenere da subito tutti gli studenti.”

Il vero imbuto, nel percorso di formazione medico  – e quindi il segmento in cui si dovrebbe intervenire – è il periodo della specializzazione: mancano le borse di studio, le strutture che dovrebbero formare gli specialisti, un corretto inserimento all’interno del Sistema Sanitario Nazionale. Da questo dipende anche il numero esiguo di posti messi a disposizione per le varie specializzazioni. L’estate scorsa, l’Anaao Assomed, l’Associazione Medici e Dirigenti del Ssn, ha rilevato che, nel giro di 5 anni, andranno in pensione 45mila medici, e i neo-laureati non saranno sufficienti a sostituirli. Secondo Carlo Palermo, il segretario dell’associazione, servono “Circa 8.500 contratti di formazione specialistica all’anno.” Per le difficoltà riscontrate nella formazione italiana, molti ragazzi fuggono all’estero: sono mete ambite la Romania, la Repubblica Ceca, o altri Paesi dell’Est. I futuri medici sono attirati, in primis, dalle maggiori possibilità di portare a termine il percorso educativo, e, in secondo luogo, dal costo della vita più basso. Sono professionisti che poi, una volta formati, evitano di ritornare in patria, esercitando nel Paese che li ha accolti. Allo stesso modo l’Italia, trovandosi di fronte a buchi del personale, ricorre a medici stranieri: alla fine del 2016 si stimava che fossero 18mila unità, ovvero il doppio di quanti erano a inizio Millennio. La maggior parte proviene dall’Europa orientale, così come avviene per gran parte degli infermieri stranieri – che a oggi raggiungono le 37mila unità. A questi numeri si aggiungono le stime di fisioterapisti e farmacisti: rispettivamente 3.500 e poco più di 2mila.

Le associazioni di settore chiedono un incremento delle borse di studio specialistiche di almeno duemila unità all’anno. Occorre intervenire in questa direzione, piuttosto che affollare le aule di ragazzi appena usciti dal liceo che, dopo anni di fatiche, si ritroveranno la strada sbarrata dalle carenze strutturali dell’istruzione italiana. Aldo Grasselli – presidente dell’Associazione Veterinari Medici e Dirigenti Sanitari – parla di “Emergenza cronica”, da risolversi attraverso una “Proposta provocatoria”. La provocazione di Grasselli riguarda la durata del percorso di studi: “Se da quattro o cinque anni di durata si contenesse la formazione in tre o quattro anni, si libererebbero ogni anno il 20-25% di risorse utili per un equivalente incremento del numero di borse di specializzazione.” La riduzione avrebbe effetti positivi in termini sia economici che di occupazione: “Se si possono modificare i percorsi formativi, si concentra la formazione e si riduce la durata dei corsi di specializzazione, si riduce il tempo per avere un prodotto finito, e, contemporaneamente, con le risorse liberate si aumenta il numero di borse per avere medici specializzati ogni anno.”

La professione medica è percepita come prestigiosa, per questo molti tenterebbero la fortuna iscrivendosi al corso di studi, salvo poi accorgersi del faticoso carico di lavoro. Intanto, avranno perso uno o due anni, e nelle statistiche risulteranno “studenti” piuttosto che “in cerca di occupazione”. In Italia ci sono 2,2 milioni di Neet, molti dei quali pesano ancora sulle spalle di famiglie: aprire a tutti le porte dei corsi di studi più ambiti sarebbe un ghiotto escamotage per abbassare il dato. Ma, degli ipotetici 67mila studenti iscritti, quanti terminerebbero il corso di studi? E quanti invece si “parcheggerebbero” all’università, come avviene in tanti casi nelle facoltà ad accesso libero? Le lauree scientifiche sono ricercate perché capaci di dare un “lavoro sicuro”. È quindi prevedibile che, come accade oggi per altre facoltà come Giurisprudenza, un giovane in procinto di scegliere il proprio futuro universitario, ma ancora indeciso, faccia questo ragionamento:  fare il medico è un lavoro prestigioso, la facoltà di Medicina è a numero aperto quindi ci provo; se dopo due anni dovessi accorgermi che la materia non mi piace, o la mole di studio è troppo gravosa, saluto tutti e amici come prima. Sarebbe un ragionamento legittimo e del tutto razionale.

L’accesso libero in tutte le facoltà è una prospettiva giusta verso cui indirizzarsi, ma solo se coadiuvata da un serio piano di ristrutturazione del comparto educativo. Un piano a lungo termine che deve prendere in considerazione l’intero arco della formazione, a partire dalle scuole inferiori. Per mettere in atto un’operazione del genere servono investimenti: non mettere un freno agli iscritti senza prendere in considerazione i problemi strutturali non solo rivela ingenuità, ma anche una certa malafede da parte di chi preferisce parlare per tweet e slogan piuttosto che ragionare con i dati alla mano. Il governo si spende per trovare 10 miliardi di euro per il reddito di cittadinanza, ma non sembra dedicare la stessa attenzione alle carenze del sistema universitario, che andrebbe riformato e finanziato.

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