La realtà è che dopo un anno di lockdown siamo tutti distrutti - THE VISION
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Un tempo la funzione Ricordi di Instagram, l’Accadde oggi di Facebook, mi rimandavano immagini di me stessa, magari in viaggio, di solito anche ben vestita. Oggi, invece, l’algoritmo non ha solo memorie piacevoli da riportarmi con nostalgia, anzi: pare che ogni giorno lo spirito di Zuckerberg mi segnali – con ben poca grazia – che avevano ragione Christa Wolf e William Faulkner: “Il passato non è morto e non è nemmeno passato”. Dodici mesi fa ero esattamente dove sono adesso, nelle stesse condizioni: in casa, a scrivere e lavorare in pigiama senza sapere quando quando potrò dismettere le occupazioni, vestirmi e uscire, perché fuori c’è una città intera, compagnia migliore dei miei pensieri. La città c’è ancora, ma sulla faccia di ogni abitante che incrocio mentre vado a fare la spesa, e di cui vedo solo gli occhi, non una pausa dalle mie paure ma un possibile pericolo di cui, nel caso, posso trovare traccia in una app governativa.

Ho pensato molte volte a quanto accaduto nella mia esistenza e in quella degli altri nel corso dell’ultimo anno, ma oggi lo faccio poco, è un argomento che fa da trigger a valutazioni pessimistiche, tristi, rassegnate. Se guardo alla situazione con oggettività, non credo di potermi lamentare, eppure basta uscire appena fuori dalla prospettiva razionale e mi lamento eccome. Non mi manca niente, ma ho bisogno di tutto. Come molti altri ho necessità di qualcosa che non avrei mai detto: la percezione della folla per strada come un fatto gioioso, che sa di domenica mattina, di partita allo stadio, di concerto, di festa comandata, di passeggiata appena uscita dall’ufficio, perché per quanto sia stato pesante il carico di lavoro, oggi c’è il sole e allora tanto vale poggiare il peso da qualche parte e vivere, vedersi con un’amica per un aperitivo, parlare dei progetti per le vacanze estive e chiedersi reciprocamente: dove vuoi andare quest’anno? A sentirmi fare questa domanda oggi, risponderei con una parolaccia. A tuffarmi in una strada affollata, provo la sensazione di scontrarmi, disarmata, con un plotone.

La scorsa settimana, la newsletter di DiveThru, società canadese che si occupa di benessere mentale e che offre tramite app varie risorse per affrontare i momenti difficili, aveva come oggetto la scorsa settimana “abituarsi a stare di nuovo in pubblico” e come hashtag #divingthru la sfiducia verso gli estranei. Perché sì, a pensarci bene, se prima della pandemia non pensavamo troppo a chi fossero gli sconosciuti incrociati per strada, con cui scambiarsi una battuta rapida o magari allungare una mano per presentarsi, oggi queste due semplici azioni possono rappresentare un fattore di ansia e di rischio. Premesso che a seconda della regione in cui si vive si affrontano limitazioni varie, anche quando c’è la possibilità di sedersi al tavolino di un caffè, recarsi dal parrucchiere, salire a bordo di un treno, mangiare al ristorante, il blocco può farsi emotivo.

Conosco chi, prima e dopo un incontro con amici, ha preferito pagare e passare per la trafila del tampone rapido; all’opposto ci sono io che sperimento il languishing, un senso non di totale scoramento, non di burnout, ma di lento sfumare di motivazione. Passare più di un anno di pandemia con il costante richiamo a mantenere le distanze significa avere un allarme pronto a lampeggiare in un angolo del cervello non appena ci ritroviamo in presenza di altre persone. Vivere oltre questa paura è difficile, soprattutto se a provarla senza farci i conti è un Paese intero.

Durante quella che ci è stata presentata come la Fase 2 della gestione della pandemia, il richiamo alla produttività, l’idea della ripresa e della ripartenza, ha cozzato con la realtà emotiva di milioni di persone producendo una serie di conseguenze di cui oggi portiamo i segni: abbiamo creduto che fosse tutto finito quando non lo era; questo autunno i dati hanno confermato che non è andato tutto bene come ci eravamo promessi dai balconi durante il primo lockdown e ci siamo sentiti presi in giro, sfiduciati, stanchi. Da qualche tempo, l’insistenza di contagi, varianti e morti sono diventate parte di una normalità assurda, mentre il tanto atteso vaccino si scontra con lo scetticismo, soprattutto verso alcune tipologie. Nonostante si inizi a intravedere la fine di questa esperienza, per le persone e per la loro salute mentale questo potrebbe essere il momento più critico e complesso di un periodo che si è già guadagnato il posto nella storia.

A maggio 2020, il Washington Post riportava che la pandemia stava causando una crisi della salute mentale negli Stati Uniti, affermando che l’isolamento si stava trasformando in una spirale di ansia e depressione: un sondaggio della Kaiser Family Foundation mostrava che quasi la metà degli americani stava affrontando problematiche psicologiche, mentre una delle linee telefoniche di emergenza per le persone in difficoltà emotiva registrava un aumento di oltre il 1000% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Oren Frank, cofondatore e CEO di Talkspace, intervistato sulla crescente domanda di servizi, dichiarava: “La cosa scioccante per me è quanto poco ne parlino i leader. Non ci sono briefing della Casa Bianca a riguardo. Non esiste un piano”.

Anche in Italia ce ne siamo accorti. Il Centro di Riferimento per le Scienze Comportamentali e la Salute mentale dell’Istituto Superiore di Sanità è stato attivo sin dalle prime fasi della pandemia, ma l’isolamento sociale misto a paura del futuro non è sparito: si è addensato intorno a uno stato di precarietà totale, condizione che molti giovani già sperimentavano. L’incremento di accessi al pronto soccorso per attacchi di panico e picchi depressivi, l’aumento dei ricoveri per tentativi di suicidio, la previsione di un 42% di italiani a rischio di soffrire di depressione, ansia e disturbi del sonno porterebbero a credere che, a questo punto, vi siano strumenti e iniziative per arginare la complessità del periodo, ma non è così: vi è un sommerso di 4,5 milioni di persone che non riescono ad accedere ai servizi di cura per la salute mentale, e solo alcuni hanno la possibilità economica di rivolgersi a psicologi privati in assenza di una rete pubblica. Mancano personale e strutturem come spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute mentale Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano, che ha lanciato un appello a ricorrere ai fondi del Recovery plan.

Oggi, The Brussels Time, sito d’informazione belga che si rivolge principalmente a funzionari dell’UE, ricercatori, professionisti dello sviluppo e diplomatici, avverte che “ignorare i sentimenti delle persone sta peggiorando la crisi data dal coronavirus”: secondo Maarten Vansteenkiste, psicologo e membro del GEMS, il gruppo di esperti sulla strategia di crisi del Covid-19 che consiglia il governo, tra messaggi contraddittori vari che si scontrano con l’incertezza permanente, si è arrivati a una sorta di negazione del pericolo pur di riacquistare un senso di sé e della propria esistenza: “Molte persone pensano che le misure attuali non siano così necessarie, il che a sua volta fa vivere le restrizioni come un’ulteriore violazione della propria autonomia. A quel punto, cercano di riconquistare ancora una volta il loro senso di controllo violando le misure”.

Io rispetto le regole, ma se all’inizio del 2020 pazientare e stare attenta e chiudermi in casa mi è sembrata una scelta giusta, doverosa e condivisa, oggi, dopo i primi quattro mesi del 2021, le mie aspettative, i miei sogni e i miei propositi murati in un bilocale mi fanno stare male. La promozione della salute mentale in Europa in tempi di crisi è oggetto di una delle prossime call europee Horizon, principale programma di finanziamento creato dalla Commissione Europea, per sostenere e promuovere la ricerca; ci sono i dati forniti da Stefano Vicari, docente e primario di Neuropsichiatria infantile all’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che afferma: “Senza salute mentale non si va da nessuna parte: al Paese serve un Piano per l’infanzia e l’adolescenza mirato al benessere fisico e psicologico”, ma non ci sono strumenti e, talvolta, pare non ci sia nemmeno consapevolezza della situazione che tutti stiamo vivendo. Forse, anche per questo, la Fondazione Soleterre ha lanciato un sondaggio a cui si può partecipare anonimamente per contribuire a “mappare” lo stato di benessere psicologico degli italiani, raccogliere dati sulle conseguenze della pandemia sulla salute mentale, indagare presenza e gravità dei disturbi e, si spera, orientare l’intervento di assistenza psicologica sul territorio nazionale.

I fattori che attualmente regolano il rapporto tra noi, la nostra vita e il Covid sono gli stessi – in scala – di una relazione tossica. Il guaio è che qui non c’è nessuna amica di buon senso, nessun gruppo di auto-aiuto, nessun libro o possibilità di sfogarsi in palestra: siamo soli, con quella che non è più esistenza, ma un continuo giorno della marmotta come nel film con Bill Murray, sempre uguale. Non vi svelo il finale, anche perché scoprirlo da soli potrebbe essere una buona occupazione per la prossima ora e mezza.

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