Nel ritorno alla normalità dopo la quarantena sembriamo tutti affetti da Sindrome Post Traumatica
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Non ricordo più dove e quando, ma ho letto la lettera di una donna americana a un giornale. Raccontava di aver superato da poco e dopo molta psicanalisi un serio disturbo: la misofobia. Aveva paura dello sporco e, più precisamente, dei germi.  Dopo sette anni di compulsioni come il lavarsi ossessivamente le mani e darsi a pulizie maniacali ogni santo giorno, era riuscita a superarla. Si sentiva dunque pronta a tornare alla vita sociale senza rischiare, ogni volta, di mettere in crisi le sue relazioni personali e professionali a causa del suo disturbo. Purtroppo per lei – e per tutti noi –, però, era arrivato il coronavirus. La donna era riprecipitata nell’ansia, nel panico e, soprattutto, nella confusione. Raccontava che proprio quei comportamenti che le venivano contestati di solito, le cose per cui la gente la guardava in maniera strana e su cui alcuni “amici” facevano battutine sarcastiche, ora erano abitudini consigliate da tutti. Ogni mattina si svegliava chiedendosi quale fosse la realtà, quali azioni quelle giuste. Stava vivendo, di nuovo, da capo, una situazione molto difficile, la si chiamava PTSD, ovvero disturbo post-traumatico da stress.

Questa cosa mi ha ricordato un bel film di Jeff Nichols, Take Shelter, in cui Curtis, uomo tranquillo che vive in una piccola cittadina con moglie e figlio, un giorno, dal nulla, inizia ad avere degli incubi, terribili visioni di una catastrofe imminente. La cosa lo porta ad agire in modo strano e paranoide e, quando comincia a costruire una sorta di rifugio anti-tornado nel cortile di casa, la tensione nel matrimonio e con gli altri cittadini aumenta. L’uomo è trattato come un pazzo per buona parte della pellicola, e a un certo punto se ne convince lui stesso. Non dirò come va a finire la sua storia, ma suppongo che tutti quelli che, prima della pandemia, avevano una qualche fobia o forma d’ansia sociale, sappiano com’è veder confermati dalla collettività timori catalogati solitamente come irrazionali e i propri sintomi come prassi consigliate per la sicurezza della salute pubblica.

Personalmente, durante la Fase 1 della gestione dell’epidemia, mi sentivo assai più pronta di altri a restarmene tappata in casa e uscire solo per necessità non prorogabili tipo la spesa. C’ero già abituata, ero già in smart working, avevo già avuto una serie di problemi che mi avevano portata a restarmene sola nel mio appartamento. La differenza, stavolta, è che la mia situazione era condivisa con buona parte della popolazione. Per la prima volta, un mio periodo difficile, combaciava con quello degli altri. Per questo motivo, era assai più semplice esser sinceri sulle proprie paure e trovare solidarietà nel manifestare le proprie difficoltà. Questa sensazione però è durata poco. Non che io rimpianga il clima di terrore, l’ansia comune, le auto della Protezione Civile a ripetere di restare a casa, le canzoni dai balconi e i telegiornali con il bollettino di una guerra nuova, diversa da tutte le altre. È che anche la Fase 2 ha riportato alla mia memoria una storia lontana, del tutto privata e più difficile da spartire. Nel 2003, ho passato molti mesi dentro e fuori da un ospedale. Ero molto giovane e, in quel momento, mi interessava solo risolvere il mio problema – sperando vi fosse una soluzione – e tornare alla vita per come la conoscevo. Quello che non avevo messo in conto, però, è che l’anno successivo, prontissima per tornare alla tanto agognata normalità, avrei dovuto fare i conti con gli attacchi di panico connessi proprio al trauma che avevo vissuto senza riuscire a superarlo.

Il PTSD è noto anche come “nevrosi da guerra”, perché inizialmente fu riscontrato nei soldati reduci da operazioni belliche particolarmente cruente. Il film American Sniper di Clint Eastwood, basato sull’omonima autobiografia di Chris Kyle, mostra in maniera piuttosto particolareggiata cosa succede in questi casi, anche se in realtà la patologia può svilupparsi anche senza esser mai stati coinvolti in vere e proprie azioni militari: gli eventi traumatici sono vari, in genere si tratta di situazioni violente in cui si subisce o assiste a eventi percepiti come al di fuori del nostro controllo, cose come un incidente stradale, un’aggressione o, nel mio caso, un’improvvisa malattia. Ci si ritrova, allora, a evitare situazioni e contesti che ricordano, simboleggiano o sono in qualche modo associati all’evento traumatico. Le limitazioni dal punto di vista delle relazioni sociali vengono di riflesso, perché spesso si smette di frequentare i luoghi abituali. Le abitudini cambiano. Vivere momenti sereni è quasi impossibile. Si resta costantemente in tensione e in allerta, ipersensibili alle possibilità di pericolo e in uno stato del genere, rilassarsi o calmarsi, persino addormentarsi, diventa complicato. Per chi soffre di PTSD anche le cose più semplici sono accompagnate da ansia e paura. La sensazione è quella che stia per accadere, di nuovo, qualcosa di tremendo.

Questi sintomi possono comparire subito dopo il trauma e possono durare poco, ma di solito si sviluppano in seguito al superamento dell’esperienza, quando cioè ormai sembra tutto risolto o gli altri ci dicono che è effettivamente così. Proprio per questo motivo, l’ansia e la paura vengono nascoste, il problema sottaciuto, soprattutto per evitare di sentirsi dire ovvietà. Si cerca di convincersi che è tutto finito, che bisogna riaffacciarsi alla vita, che stia soltanto a noi. E purtroppo è una bugia. Una bugia che, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, ci stiamo dicendo in molti proprio in questi giorni. Anche se è difficile ammetterlo, infatti, è quello che sta accadendo a molte persone in questa Fase 2, di cauto ritorno alla normalità. Se durante la fase emergenziale avevamo imparato ad aprirci e a essere sinceri sui nostri timori, vuoi perché ci sembravano ampiamente condivisibili, vuoi perché li avevano e ammettevano di averli assai più persone del solito, in questa seconda fase è come essere tornati indietro, e risulta assai più complicato esprimere il proprio pensiero, la propria insicurezza e il proprio bisogno di procedere per gradi nella ripresa della vita pubblica e sociale senza subire giudizi di varia natura.

Il richiamo alla produttività, l’esigenza di riprendere la quotidianità proprio dove l’avevamo lasciata all’inizio dell’anno, l’idea della ripresa e della ripartenza, non sono accompagnate, come speravamo ai tempi dell’Andrà tutto bene, dalla possibilità di rilassarsi, finalmente, e riaffacciarsi alla socialità con un grande sorriso e senza alcuna paura. Le parole d’ordine sono responsabilità, distanza sociale, mascherina, guanti e cozzano tutte con l’ideale di serenità a cui aspiravamo. È un compromesso. E i compromessi non solo ci spaventano e hanno lo stigma dell’espediente, ma sono molto più complicati da gestire delle limitazioni, come ha spiegato Thomas Kean, ex governatore del New Jersey e presidente della Commissione sull’11 settembre. Anche affidarsi al buonsenso, proprio e altrui, non è così semplice. E non lo è non solo perché abbiamo tantissimi esempi di situazioni o comportamenti a rischio, ma perché, attenuata la paura del coronavirus, abbiamo ricominciato ad averla degli altri. Mentre si paventa la figura dell’assistente civico per far rispettare le norme, mentre si criminalizza un’intera generazione che, sulla base di messaggi contraddittori, è tornata a frequentare luoghi di ritrovo pensati appositamente per loro e nuovamente aperti proprio per accoglierli, in tantissimi stanno sviluppando la strana sensazione definita sindrome della capanna.

L’ex Governatore del New Jersey Thomas H. Kean

Scriveva Montaigne che “niente fissa una cosa così intensamente nella memoria come il desiderio di dimenticarla” e in Italia questo vale per moltissime cose, situazioni, avvenimenti che hanno segnato la storia del Paese. Siamo abituati a procedere per logiche emergenziali e, per ogni sconvolgimento, ci aspettiamo che una volta fuori dalla straordinarietà, sia risolto, mentre invece resta a farsi problema cronico. La verità è che per trasformare una ferita in cicatrice occorre non solo tempo, ma bisogna anche smettere di nasconderla. La verità è che non ci manca il lockdown, ma la possibilità di dare un nome alla nostra incertezza, chiamarla paura e sapere che nessuno ci giudicherà per averla perché, per la prima volta, la stiamo guardando in faccia tutti.

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