All’interno del contesto comunitario europeo, l’Italia si è spesso vista attribuirsi epiteti ben lungi dall’essere virtuosi dal punto di vista sociale ed economico. Crescita stagnante, scarsa produttività del lavoro, farraginosità burocratiche e livelli d’istruzione minimi: sono innumerevoli i titoli di giornale che utilizzano la locuzione “fanalino di coda” quando si tratta di statistiche europee comparate. Tra queste, ce n’è una che ha assunto particolare rilievo nei recenti dibattiti parlamentari: la mancanza di una legge sul salario minimo.
Concepita a partire dai moti socialisti Europei di metà Ottocento, l’idea di regolare i salari nazionali nasce in concomitanza al riconoscimento dei sindacati e verrà applicata per la prima volta in Nuova Zelanda nel 1894, in seguito in Australia e nel Regno Unito. Tra gli stati Europei, primeggia la Francia con l’approvazione nel 1950 di un decreto legislativo atto ad assicurare una retribuzione minima ai lavoratori francesi. A oggi, ventuno Paesi su ventisette in Europa adottano un salario minimo a prescindere dalla contrattazione collettiva e tra questi non figura l’Italia. Oltre a noi sono solo cinque i Paesi che non hanno ancora introdotto la misura a livello nazionale: Cipro, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia.
Nel nostro caso, il risultato dovuto alla combinazione della lacuna legislativa con il triste primato della diminuzione generalizzata di reddito reale negli ultimi trent’anni è rappresentato dall’insorgenza del paradosso dei cosiddetti working poors, lavoratori poveri. Questi sono definiti da Eurostat come occupati per almeno sette mesi l’anno che godono di un reddito familiare inferiore al 60% della mediana del reddito disponibile equivalente. Tale misura, tuttavia, tende a sottostimare chi, involontariamente, si trovi a poter lavorare pochi mesi all’anno, ovvero le fasce più fragili di popolazione.
Inoltre, il reddito considerato è unicamente inteso come familiare, non individuale, e quindi si presuppone una condivisione totale dello stesso all’interno del nucleo. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha pubblicato nel novembre 2021 una relazione economica che esamina il fenomeno della povertà lavorativa in Italia. Da questa si evince che il numero di lavoratori poveri è rapidamente cresciuto dal 10,3% al 12,3% in meno di dieci anni se si considera la misura Eurostat, arrivando a un totale di 13,2% tenendo conto di lavoratori attivi per periodi inferiori ai sette mesi, tra cui numerosi part-time e precari obbligati dal prevalere dei contratti stagionali. Quarta per tasso di working poor in Europa – dopo Romania, Spagna e Lussemburgo – l’Italia si trova quindi a dover affrontare un problema tanto allarmante quanto reale. Nonostante l’articolo 36 della Costituzione della Repubblica sancisca che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione […] sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, un quarto del totale dei lavoratori italiani si trova in una fascia di reddito familiare bassa o a rischio povertà. Tra le proposte avanzate dagli esperti appartenenti al gruppo studio del report sopra citato, l’estensione di livelli salariali minimi a tutti i dipendenti. Lo stesso Parlamento Europeo, nel novembre 2021 ha votato a favore dell’emissione di una direttiva comunitaria sull’obbligo di salario minimo.
Se fino a qualche anno fa il tema era considerato un tabù politico e accademico, a oggi sembra che i benefici indotti da tali misure siano più ampiamente riconosciuti. Nell’ambito del dibattito macroeconomico, infatti, la teoria classica per cui qualsiasi tentativo statale di modificare i salari avrebbe inevitabilmente alterato il meccanismo naturale di domanda e offerta generando un aumento di disoccupazione e inflazione sembra essere sempre meno fondata. Se nel 1978 il 90% dei membri intervistati dall’American Economist Association riteneva che la presenza di salario minimo accrescerebbe sostanzialmente la disoccupazione tra le fasce a basso reddito, nel 2000 lo stesso quesito riscontrò la metà del consenso. Nel 2014, un gruppo formato dai più importanti economisti internazionali, tra cui i Nobel Joseph Stiglitz, Robert Solow ed Eric Maskin,firmò una lettera al presidente degli Stati Uniti e al Congresso sostenendo i benefici economici di un ipotetico incremento salariale a 10,10 dollari. Questo, secondo loro, avrebbe concorso infatti a innescare un circolo virtuoso a partire da un innalzamento del tenore di vita delle fasce più povere, garantendo quindi ai ceti bassi un maggior accesso al consumo e al risparmio. Le teorie ortodosse esposte nella maggior parte dei testi universitari secondo le quali l’aumento di disoccupazione generato da un rialzo forzoso dei salari sia un effetto automatico e consequenziale dovuto all’intervento statale sono a oggi sempre più discusse da diversi studi.
Tra questi, la ricerca che ha insignito gli autori David Card, Joshua Angrist e Guido Imbens del premio Nobel per l’economia 2021. La teoria principale di Card, professore a Berkeley, viene concepita nel 1992, quando, insieme al collega Alan Krueger, tentò di confutare gli assunti tradizionali attraverso un’analisi empirica sull’industria dei fast food del New Jersey e della Pennsylvania. Lo stato del New Jersey aveva infatti incrementato il salario minimo da 4,25 a 5,04 dollari l’ora, mentre la confinante Pennsylvania, che non introdusse la misura, fu utilizzata come gruppo di controllo. Il risultato fu un vero e proprio colpo di scena che fece tremare le fondamenta del pensiero economico ortodosso per i decenni successivi. A dispetto di quanto la teoria (spesso non supportata da un numero sufficiente di esperimenti) aveva predetto, l’aumento di salario minimo nelle zone geografiche analizzate non solo non produsse aumenti di disoccupazione, ma fece riscontrare una leggera diminuzione della stessa. Alla luce dei risultati positivi riscontrati empiricamente, adeguarsi a una riforma sulla retribuzione minima significherebbe non solo armonizzare un processo legislativo comunitario, ma soprattutto progredire verso la realizzazione di uno stato moderno in cui concetti come la povertà lavorativa possano essere effettivamente considerati anacronistici.
Negli ultimi anni la questione è stata affrontata dai partiti di maggioranza attraverso una leggerezza propagandistica che ha dato luce a semplici misure redistributive come il Reddito di cittadinanza. A tre anni dalla presentazione della celebre carta gialla e dall’annuncio della futura abolizione della povertà da parte dell’allora vicepremier Di Maio, l’RdC rimane una chimera da quasi 20 miliardi (19,83 per l’esattezza) complessivi. Inutile dirlo, la povertà è tutt’altro che diminuita e dall’ultimo censimento Istat sono quasi sei milioni gli italiani considerati poveri. Al di là delle inefficienze amministrative e della mancanza di adeguati controlli, la causa risiede anche nella natura del provvedimento: a differenza di sussidi integrativi – come il salario minimo – rivolti a una platea di occupati, il Reddito di cittadinanza si limita a fungere da secondo assegno di disoccupazione senza agire alla radice del problema. Basta leggere gli ultimi report Anpal per confermare la natura provvisoria e superficiale della misura pentastellata: sul totale dei soggetti beneficiari a cui viene trovato lavoro, due terzi sono contratti part-time o stagionali.
In Italia, come in diversi stati dell’Europa meridionale tra i quali Grecia, Portogallo e Malta, il problema si sovrappone al non meno rilevante divario di retribuzione di genere: i lavoratori poveri all’interno di nuclei familiari sono infatti per la maggior parte gli unici percettori di reddito da lavoro, e quindi gli uomini. Il rischio di in-work poverty nei nuclei familiari in cui i percettori di redditi sono due o più crolla infatti a quasi il 5%. Per frenare il processo di crescita della povertà lavorativa occorre anche tenere conto di dinamiche individuali, ovvero quanto il mercato sia accessibile e favorevole al lavoro femminile. Se infatti si prende in considerazione il solo reddito da lavoro annuo (non familiare), la quota di lavoratori poveri si concentra per più di un quarto del totale sulle donne.
Come spiegato all’interno della relazione del Ministero del Lavoro citata in introduzione, la crisi occupazionale italiana non può essere affrontata attuando misure redistributive isolate e inefficienti, servirebbe una strategia complessiva in grado di coniugare elementi strutturali macroeconomici con interventi mirati a livello individuale e familiare. L’Italia – unico Paese in Europa che ha visto gli stipendi reali (al netto dell’inflazione) diminuire negli ultimi trent’anni – necessita di un intervento trasversale che renda il lavoro accessibile a tutti, prediligendo contratti stabili e duraturi rispetto ai troppo numerosi part-time e stagionali a cui appartiene la maggior parte dei working poors.
Secondo alcune stime, la presenza di una retribuzione minima coprirebbe circa tre milioni di soggetti dipendenti, più del 10% degli occupati totali. L’attuazione di riforme come quella del salario minimo potrebbe quindi essere la spinta propulsiva per tentare di ridurre il rischio di povertà in un Paese soffocato da una decennale stagnazione economica, bassa produttività del lavoro e conseguente blocco di crescita salariale. L’abbattimento di barriere sociali, familiari e di genere è infatti il motore primo per uno sviluppo non solo economico, ma nazionale e politico, che metta al centro del dibattito la necessità di progresso e il diritto alla libertà economica. Sarebbe necessario sganciarsi dalle logiche di partito che vedono proposte di riforma come arma elettorale da utilizzare all’occorrenza e concepire il cambiamento come un percorso a lungo termine atto alla ricostruzione del mercato del lavoro. La semplice “mancia” rappresentata da singole misure come il Reddito di cittadinanza non solo si rivela inefficace, ma agendo sui soli sintomi – povertà e disoccupazione – e non sulle cause che li generano finisce per risultare l’ennesima fonte di deficit che graverà sulle nuove generazioni.