Il reddito di cittadinanza non dovrebbe essere una vergogna, tutti possiamo restare senza lavoro - THE VISION

Un tempo Darwin sosteneva che il lavoro nobilitasse l’uomo, se non da un punto di vista socio-economico sicuramente da un punto di vista spirituale e morale. Eppure come ha dimostrato l’economista francese Thomas Piketty il lavoro sta progressivamente perdendo la sua capacità di determinare la traiettoria economica delle persone e la quota dei cosiddetti “working poor” (ovvero i lavoratori poveri) continua a essere alta nei Paesi del cosiddetto “capitalismo maturo”. 

Se, da una parte, in Occidente si osserva un indebolimento della working class e un deterioramento degli stipendi; dall’altra, non sembra essere tuttavia scalfita la forte morale lavorista introiettata dalla società, un sentimento talmente profondo da determinare una sensazione generale di fastidio e frustrazione nei confronti di tutti coloro che, nolenti o volenti, si trovino nella condizione di doverla negare chiedendo un aiuto allo Stato in un momento di difficoltà. Tra questi si possono annoverare i possessori del reddito di cittadinanza, discussa iniziativa tra chi la sostiene (Movimento 5 Stelle in primis) e chi la vorrebbe vedere abolita (tra cui Matteo Renzi, leader di Italia Viva, con la recente proposta di un referendum abrogativo), come poi deciso dal governo Meloni.

Giuseppe Conte
Matteo Renzi

Collocati come naturale antitesi della morale del lavoro, i sussidi statali – come il Rdc e la disoccupazione – nella narrazione dominante afferiscono alla sfera della vergogna e del parassitismo. Ciò è stato possibile anche grazie a una ridefinizione del concetto di lavoro stesso: soprattutto dopo la perdita di punti di riferimento collettivi – come partiti, sindacati o associazioni. La carriera è infatti diventata con sempre maggior intensità centrale nella vita degli individui, tanto da diventarne elemento costitutivo dell’identità e imperativo esistenziale finalizzato a dare senso e significato al nostro stare nel mondo.

Per quanto possa apparire difficile pensarlo, tuttavia, è doveroso sottolineare che non vi è nulla di oggettivo nella morale del lavoro perché, come ogni morale, anche questa è soggetta alle convinzioni storiche in cui è immersa. Come ogni convinzione anche quella per cui “il lavoro è lo strumento principale per determinarci e nobilitarci” scomparirà, un po’ come sono scomparse nel passato le virtù associate alla partecipazione a una crociata o alla pietas verso gli Dei. Per convincerci di questo ci basterebbe una sana contestualizzazione di ciò in cui crediamo, abbandonando la cieca fiducia nei nostri riferimenti morali. Insomma, per fortuna siamo molto di più della nostra carriera e forse verrà il giorno in cui i posteri sorrideranno guardando come, nel 2021, gli esseri umani erano soliti addobbare il proprio LinkedIn con eccesso di ossequiosità. 

L’aver fatto coincidere il lavoro con un valore morale ne ha inoltre cambiato le dinamiche e in alcuni casi ha fatto approdare gli individui ad atteggiamenti di sacrificio e colpevolizzazione: non avere un lavoro, o non averne uno prestigioso, è considerato innanzitutto un fallimento personale. In un’epoca di pesantissima disoccupazione, soprattutto tra i giovani e nelle aree meno ricche, ricevere un aiuto da parte dello Stato è ritenuto dunque riprovevole. Ovviamente, questo vale se l’aiuto è dato ai singoli, le aziende continuano a ricevere sussidi spacciati per “incentivi allo sviluppo” senza alcuna revisione etica e le loro richieste trovano spazio politico e mediatico ogni anno sui palchi delle lobby di categoria, a cominciare da quelli di Confindustria, senza destare particolare scalpore.

A dare manforte allo stigma sociale legato ai sussidi pubblici, in questi anni, ci hanno pensato i media. Titoli sensazionalistici riproposti con costanza hanno contribuito a consolidare la retorica “del furbetto con il lavoro in nero”, mettendo nello stesso calderone una misura che ha contribuito concretamente a ridurre la povertà e le pratiche non oneste di una minoranza di delinquenti. Il reddito di cittadinanza ha sicuramente peccato di superficialità in fase di progettazione, questo va detto, ma invece di essere abolito potrebbe essere migliorato. Sarebbe interessante immaginare cosa dovesse succedere se la stessa cassa di risonanza fosse stata dedicata all’evasione fiscale, stimata di circa 110 miliardi di euro l’anno (l’equivalente di circa 8 anni di reddito di cittadinanza); o – perché no – all’elusione di tasse all’estero delle grandi aziende multinazionali (per cui non esistono dati certi, ma che causa all’Europa perdite che oscillano tra i 50 e i 70 miliardi). Ci sarebbe un’ulteriore riflessione in merito da fare: se l’importo massimo del Rdc non è in grado di fare uscire dalla soglia di povertà le persone che abitano in aree dove il costo della vita è più alto, centri urbani in primis, è impossibile chiedere di non sottomettersi a lavori che, in cambio di sfruttamento e assenza di tutele, permettano di integrare le entrate. Quando si ha un bisogno fondamentale da soddisfare non è difficile trasformarsi in un “furbetto”, nemmeno per la persona più onesta di questo Paese.

Percepire un sussidio, dunque, non dovrebbe apparire come una vergogna, ma un fatto che dimostri come qualsiasi comunità sia tenuta a muoversi nei confronti di chi è in difficoltà. Mettere il disoccupato in una condizione di difetto in quanto incapace di trovare un’occupazione è sbagliato in primo luogo perché iper responsabilizza l’individuo colpevolizzandolo per una circostanza che non può governare e che spesso non dipende da lui – la mancanza di lavoro è spesso associata a delocalizzazioni e ai processi di automazione – e secondariamente deresponsabilizza le istituzioni perché permette loro di scaricarsi, quantomeno moralmente, dagli oneri a cui sono chiamate a rispondere. Un sano ribaltamento della morale lavorista e dei giudizi etici a essa correlati è allora necessario innanzitutto per riabilitare e riavvicinare i milioni di persone che oggi si sentono in colpa per essersi trovati vittima di un sistema pieno di contraddizioni, secondariamente per iniziare a parlare seriamente e senza pregiudizi ideologici del futuro del lavoro, la cui precarietà dovrebbe spingerci un giorno verso un reddito di base universale.

“Non esiste nessuna società, le persone dovrebbero badare a se stesse”. Con questa frase passata alla Storia Margareth Tatcher incarnò al meglio lo spirito del tempo neoliberistaa: lavora sodo, e se non sei in grado di farlo soccombi. Sono le regole del neo-darwinismo sociale che hanno fatto breccia persino in partiti nati dalla radice socialista, labour inglesi e democratici italiani compresi. Ma senza società non vi è benessere per i singoli e l’individualismo deve essere controbilanciato da forme di solidarietà organizzata se non si vuole rischiare di ampliare così tanto il divario socio-economico tra i cittadini da raggiungere l’oligarchia.

Margaret Thatcher

Non c’è nulla di intrinsecamente immorale nell’avere un bisogno, nel fallire o nel chiedere aiuto. Una vita dignitosa è sempre un diritto incondizionato che deve essere preteso e mai elemosinato con vergogna, perché ne va dell’equilibrio sociale della comunità. Comprendere un fenomeno complesso come quello della povertà o della disoccupazione è un dovere a cui ogni cittadino deve essere chiamato se si tiene alla tenuta stessa della democrazia. Per quanto riguarda la morale individualista invece la diagnosi è spietata: sparirà prima dell’uomo, è solo questione di tempo. Con buona pace della Lady di Ferro e di tutti i suoi piccoli successori.

Segui Alessandro su The Vision