Nelle ultime settimane in Italia si è tornati a parlare di salario minimo. Nel presentare il XX Rapporto annuale, il presidente dell’INPS Pasquale Tridico ha infatti dichiarato che il salario minimo sarebbe un primo passo verso un “approccio di equità e tutele universali piuttosto che di difese categoriali”. Ipotizzando un salario minimo di 9 euro all’ora, l’Istituto stima un gettito di 3 miliardi di euro, oltre a un miglioramento delle condizioni economiche degli attuali 4 milioni di lavoratori i cui stipendi sono al di sotto di questa cifra. Il salario minimo esiste nella maggioranza dei Paesi europei e il 28 ottobre scorso la Commissione europea ha presentato una proposta di Direttiva sul salario minimo, confermata anche dal Parlamento a febbraio. La Direttiva era stata accolta anche dalla Commissione Lavoro del Senato il mese successivo, ma il tema è tornato di attualità solo ora, tra le polemiche sulla cancellazione del reddito di cittadinanza e lo sblocco dei licenziamenti. In generale il salario minimo è visto come una proposta di contrasto alla povertà, ma la sua introduzione potrebbe avere effetti positivi anche per un altro tema di grande attualità ma spesso ignorato nelle politiche del lavoro del nostro Paese, quello dell’occupazione femminile.
Nel suo ultimo Global Wage Report, l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) si è occupata proprio del salario minimo e di come questa misura abbia influito durante il Covid-19. Il 90% dei Paesi che fanno parte dell’Ilo hanno una legislazione sul salario minimo (che può essere applicata a livello nazionale o con un minimo diverso per ogni settore) ma 327 milioni di persone nel mondo (circa il 19% del totale dei lavoratori) guadagnano ancora una cifra pari o inferiore a questa soglia, di cui 152 milioni sono donne. L’efficacia di questa misura dipende infatti da una molteplicità di fattori, non da ultimo dalla composizione della forza lavoro di un determinato Paese e dalle caratteristiche dei beneficiari del salario. Il salario minimo infatti spesso esclude il cosiddetto “lavoro informale”, come il settore agricolo e quello domestico, caratterizzati dalla stagionalità e dall’assenza di contratti regolari. Tuttavia, la letteratura suggerisce che le disuguaglianze che il salario minimo contribuisce a eliminare, se unite alla regolarizzazione, non siano solo quelle tra ricchi e poveri, ma anche quelle di genere.
In un Paese come l’Italia, che ha la più alta disoccupazione femminile in Europa, l’introduzione di questa misura potrebbe portare alcuni miglioramenti, specialmente nella situazione post-pandemica. La pandemia ha infatti peggiorato le condizioni lavorative di milioni di donne, che sono impiegate in maggioranza nei settori più colpiti dalla crisi e in particolare nei servizi essenziali. Le italiane nella prima metà del 2020 hanno perso il 9,7% dei loro guadagni, contro il 6,4% perso dagli uomini, non tanto a causa dei licenziamenti che sono comunque arrivati alla fine dell’anno, quanto più per la riduzione delle ore lavorate. A questo specifico problema di genere si aggiungono gli altri che riguardano tutto il mercato del lavoro italiano, in particolare la stagnazione degli stipendi, che sono aumentati di appena 904 euro lordi annui in vent’anni.
Se in Italia il problema dell’occupazione femminile è molto grave, la situazione è comunque deleteria per la maggior parte delle donne del continente: anche prima della pandemia le donne in tutta Europa avevano in media stipendi più bassi degli uomini proprio a causa della cattiva qualità del lavoro dal punto di vista contrattuale. Di queste, moltissime guadagnano una cifra inferiore almeno del 5% rispetto a quello che è considerato il salario minimo nei Paesi dove è in vigore. In particolare, secondo l’Ilo, nella regione Europa-Asia centrale il 53% delle persone pagate al di sotto di questa soglia sono donne.
Gli economisti hanno però notato un nesso positivo tra salario minimo e occupazione femminile, per il semplice motivo che l’introduzione del minimum wage è indirizzata ai lavori poco specializzati svolti in prevalenza dalle donne. In Indonesia, ad esempio, l’aumento del salario minimo ha ridotto il gender pay gap tra uomini e donne, specialmente in quelle istruite appartenenti alla classe media ma non altamente specializzate. Qualcosa di simile è successo in Polonia, dove si è osservata una sensibile riduzione del divario salariale di genere tra il 2006 e il 2009, in concomitanza con l’introduzione del salario minimo. Anche in questo caso a beneficiare sono state soprattutto le lavoratrici della classe media e in particolare le più giovani. In Germania il salario minimo è arrivato nel 2015 e si è calcolato che abbia ridotto il gap salariale del 2,5%. Lo stesso è successo nelle aree urbane della Cina, mentre a beneficiare del salario minimo in Irlanda sono state le lavoratrici più povere. Non si sono osservati cambiamenti rilevanti, invece, nel Regno Unito.
Chiaramente il salario minimo non può essere considerato la panacea di tutti i mali, almeno per quanto riguarda l’occupazione femminile: il fatto che a beneficiarne siano soprattutto le lavoratrici a salario medio ci dice che i due principali ostacoli legati alla carriera delle donne, il cosiddetto glass ceiling (il soffitto di cristallo) e lo sticky floor (il pavimento appiccicoso, che costringe la maggior parte delle donne alla base della piramide sociale), non possono essere superati soltanto da questa misura. Ma in assenza di altro, a maggior ragione in un Paese come il nostro in cui la contrattazione collettiva non riesce a interessare davvero tutti e tutte, il salario minimo potrebbe avere effetti positivi su tutti gli occupati e ancor più sulle donne. Per essere davvero efficace, come sottolinea anche l’Ilo, deve essere però abbinato a delle politiche che ne garantiscano l’applicazione in tutti i settori, indirizzate soprattutto a contrastare il lavoro informale e l’economia sommersa, dove lavora il 60% delle donne a livello globale.
Ancora più urgente sarebbe poi il rafforzamento della rete di welfare in Italia, dato che uno degli ostacoli principali all’occupazione femminile in Italia resta ancora la maternità: nel nostro Paese le donne con figli che lavorano sono solo il 53,5%, contro l’83,5% degli uomini a pari condizioni. Secondo un’indagine di Ipsos per la onlus WeWorld, l’11% delle donne lascia il lavoro dopo il primo figlio, il 17% al secondo e il 19% al terzo. Questo si traduce, su lungo periodo, in una perdita del 53% dello stipendio, con tutti i problemi di autonomia economica che ciò comporta.
Su questo versante, il Piano nazionale di ripresa e resilienza approvato il 13 luglio dalla Camera si rivela insufficiente: le politiche di genere si concentrano sull’incentivo alla partecipazione femminile nelle carriere STEM, sulla promozione di posizioni apicali di alto livello e sull’imprenditoria femminile. Il Pnrr stanzia 4,6 miliardi di euro per gli asili nido – una cifra più che raddoppiata rispetto ai 2 miliardi prospettati inizialmente – con l’obiettivo di coprire 228mila posti, anche se, come dichiarava l’ex premier Conte a dicembre, ne servirebbero 750mila. Attualmente solo un bambino su quattro (25%) trova posto negli asili nido pubblici e privati del Paese; secondo la simulazione di InGenere, se si arrivasse al 40% in 6 anni, l’occupazione femminile salirebbe al 60%, arrivando così alla media europea. Senza tutti questi investimenti, il primato italiano della disoccupazione femminile è destinato a resistere molto a lungo. Ma se è difficile per una donna accedere al mercato del lavoro, ancora di più è rimanerci, come dimostrano i dati sull’abbandono della professione e le fluttuazioni dei guadagni. Un salario sicuro, garantito e immune a giochi al ribasso potrebbe essere una garanzia che al momento molte donne non hanno.