Il peggior scenario possibile si è realizzato - THE VISION
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Nel secondo film di Ritorno al futuro, uscito nel 1989, l’immaginaria Hill Valley finisce nelle mani di Biff Tannen, il villain della saga. Con bizzarri capelli arancioni e attorniato da prostitute in una suite pacchianissima, Tannen ci viene mostrato come un mostro senza scrupoli, rozzo, ignorante, volgare, sprezzante della legge a tal punto da trasformare il tribunale in un hotel-casinò con il suo faccione che appare su tutte le insegne. Hill Valley non ha più regole, in lui prevalgono l’uso sconsiderato di armi, la violenza e l’ossessione per il denaro. Lo stesso Bob Gale, sceneggiatore del film cult, dichiarò di essersi ispirato per quel personaggio proprio a Donald Trump, all’epoca però ben lontano da essere anche solo immaginato come Presidente degli Stati Uniti. Ebbene, nel 2016 lo è diventato. È poi caduto: l’arresto, le condanne in più processi, la sconfitta nel 2020 contro Joe Biden, i suoi sostenitori aizzati fino all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Sembrava il normale epilogo di un delinquente, l’arco narrativo inevitabile. Eppure la vita non è un film, Hill Valley non sono gli Stati Uniti e oggi ci ritroviamo di nuovo con la più grande potenza economica e militare del mondo in mano a Biff Tannen.

Assalto a Capitol Hill, 2021

Le elezioni statunitensi sono quel momento in cui le persone spaparanzate davanti al televisore a Catania, Berlino o Kuala Lumpur si rendono conto che il destino del pianeta è in mano ai voti di qualche paesino sperduto in Pennsylvania. Diventiamo tutti esperti di New Hampshire e Connecticut, parliamo di grandi elettori e di GOP, ci addormentiamo con le voci di Mentana e Padellaro che riflettono sul futuro della Palestina e dell’Ucraina con Trump presidente, per poi svegliarci con un senso di nausea difficile da smaltire, convinti di essere in una distopia. E in realtà lo siamo davvero, la realtà è stata soppiantata dal mondo della post-politica, delle post-verità: quello dove il peggior scenario possibile si è realizzato, e le conseguenze saranno irreparabili.

La parola d’ordine di Trump è isolazionismo. A costo di mettere in discussione il ruolo degli Stati Uniti nella Nato e minacciare – come ha già fatto, addirittura augurandosi un attacco russo – gli Stati europei che a suo dire non forniscono abbastanza fondi all’organizzazione. Stati euorpei che diventeranno ancora più irrilevanti, in preda ai deliri di un uomo che crede che il Belgio sia una città. Sul versante ucraino è probabile che Trump ringrazierà i russi per le interferenze che lo hanno portato alla vittoria elettorale del 2016. Su quello israelopalestinese, invece, è più che certo il suo appoggio incondizionato all’amico Netanyahu. D’altronde, Trump inasprì pesantemente il conflitto riconoscendo Gerusalemme capitale d’Israele e firmando gli accordi di Abramo, con i palestinesi lasciati fuori da qualsiasi negoziato. Sorrideranno poco anche in Siria, bombardata da Trump tra il 2017 e il 2018 con centinaia di missili, e in Iran, dove l’accoppiata Trump-Netanyahu fu accusata di aver organizzato un raid all’aeroporto di Baghdad per uccidere il generale Qasem Soleimani insieme ad altre nove persone. Saranno poco felici anche i curdi, traditi dalle false promesse di Trump e consegnati in mano alla Turchia dopo aver fronteggiato l’Isis.

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Benjamin Netanyahu e Donald Trump

Eppure, l’elezione di Trump trascende la politica e tocca il costume, l’antropologia di un Paese-mondo costretto a fare i conti con quell’anatomia di una caduta che riguarda indirettamente tutti noi. Dei comizi di Trump mi hanno sempre inquietato due presenze: quelle di Elon Musk e di Hulk Hogan. La prima per la sublimazione del lato più egotico del capitalismo, del dark MAGA racchiuso in un solo uomo, lo stesso delle lotterie milionarie pro Trump e dei pensieri omofobi, transfobici e razzisti. È la filantropia del solipsismo, il suo, e il paradosso del progresso come arma per la regressione – culturale, identitaria, delle opinioni e delle libertà. La seconda perché l’America di Trump non è altro che un brutto spettacolo di wrestling tra ostentazione, finzione e prepotenza. I suoi supporter sembrano dei manichini lobotomizzati, pendono dalle labbra del loro padre-padrone e chiedono più muri, più armi, più odio. Verranno accontentati.

Elon Musk

Inutile dire come i democratici si siano suicidati. Il ritiro di Biden è stato tardivo, Kamala Harris è stata una scelta forse obbligata ma debole e molto distante dai sostenitori di Obama che invece rappresentavano (o avrebbero dovuto rappresentare) una svolta nel mondo dei blu. Invece, dopo l’ex presidente, sono stati candidati: Hillary Clinton, troppo guerrafondaia persino per i repubblicani; Joe Biden, che ha vinto prevalentemente perché la gestione della pandemia di Trump è stata scellerata; e adesso una donna che in Italia sarebbe considerata una politica di destra e che dichiara allegramente di avere un’arma e di essere disposta a usarla contro chiunque, come un leghista qualsiasi colto da sceriffismo. La realtà statunitense non può essere analizzata ragionando con le logiche europee del destra-sinistra, se lo si fa già si commette un primo errore di valutazione, in relazione a un luogo che non ha mai conosciuto il socialismo e che fa del maccartismo eterno il proprio motto, anche tra i dem. Inoltre, gli Stati Uniti che abbiamo in mente sono la raffigurazione di New York e Los Angeles, Beyonce, Oprah e le celebrity ricchissime che sostengono Harris ricoperte dai lustrini di un party. L’America è altro-e-altrove. Fuori dall’Hollywood Boulevard c’è la realtà dei piccoli centri, i redneck che se ne fottono di Gaza e Kiev e pensano solo alla chiusura delle frontiere con il Messico. Anche qui viene tirata in ballo la retorica dei centri rurali pro Trump e delle città pro Harris, come se non fosse ormai così in tutti i Paesi occidentali, Italia compresa. Più che un’analisi della sconfitta i Democratici dovrebbero fare un’autopsia, capire le cause di uno scollamento con il proprio popolo che ha causato una morte democratica, visto che è risalito al potere lo stesso uomo che quattro anni fa era pronto a una guerra civile con tanto di colpo di Stato al Campidoglio.

Kamala Harris

Nella stessa notte elettorale è fallito il referendum sull’aborto in Florida, segno di un vento oscurantista e retrogrado che soffia su una nazione autoreferenzialmente tronfia, smarrita nelle sue contraddizioni. Quelle per cui al supermercato non possono vendere l’ovetto Kinder per motivi di sicurezza, ma le armi sì. Quelle che riportano al potere un corrotto e corruttore, un uomo d’affari che nuota nel torbido, che non ha minimamente interesse per i temi ambientali, che ha basato la sua campagna elettorale sulla ferocia contro i suoi avversari, contro le minoranze, contro la democrazia stessa. Trump sembra una crasi tra Berlusconi, Briatore e suprematista texano, l’imprenditore arrivista che ce l’ha fatta ostentando prepotenza. È lo specchio delle ristrettezze di un mondo che non sa più come riumanizzarsi, accecato dall’individualismo e dalla vertigine della prevaricazione come motore sociale. In termini junghiani, è il negativo dell’archetipo dell’eroe, colui che invece che sacrificare se stesso per un bene comune condanna la comunità per innalzare il suo ego ipertrofico.

Ora è facile parlare della vittoria di Trump come prodromo di un’indignazione mondiale che toccherà i vecchi salotti europei, quelli dove ormai resta solo la tappezzeria di un lignaggio che fu, lo scheletro di una gloria passata. Lui indebolirà il nostro continente, e i politici nostrani che festeggiano – il Salvini amico di tutti e considerato da nessuno – non si rendono conto che il Make America Great Again non può essere applicato senza schiacciare gli altri Stati, economicamente e culturalmente. Entreremo ancora di più nell’era dell’edonismo politico, quella che permette ai Biff Tannen di turno di comprarsi le ideologie, poiché ridotte a merce, e polverizzarle. Trump tecnicamente non può nemmeno considerarsi un repubblicano. Nemmeno un politico: è l’ariete del capitalismo che sfonda le porte del potere senza suonare il campanello. Entra con la persuasione dei villani, con il verdone come chiave d’accesso e la violenza come linguaggio. Trasmette il verbo senza saper usare le parole, predica la giustizia insultando i giudici. I miliardari ormai non hanno più bisogno di avvocati, se possono piazzare i propri uomini tra le file della Corte suprema per ottenere un’immunità. Come per Berlusconi, Trump prende la politica per l’estensione delle sue aziende. Non c’è più alcuna differenza tra la Casa Bianca e la Trump Tower, tra il presidente degli Stati Uniti e un pluricondannato: pubblico e privato si fondono dietro la maschera di un malfattore per quella che sembra la puntata di uno scadente reality show a stelle e strisce. Eppure non è altro che la cultura e la politica americana, con la spettacolarizzazione di ogni aspetto della società. E allora a questo punto aspettiamoci per il 2028 una sfida per la presidenza tra Kanye West e l’ennesimo candidato sbagliato dei dem. Con la possibilità che nel mentre Trump trasformi la Casa Bianca in un hotel-casinò ed Elon Musk spedisca i messicani su Marte.

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