Nell’estate del 2008, mentre usciva I’m yours di Jason Mraz e il primo iPhone in Italia, quando la Lega era all’8% e Di Maio uno steward allo stadio, Silvio Berlusconi da neo-presidente del consiglio decretava: “L’emergenza rifiuti è finita, Napoli è pulita.”
Nelle settimane precedenti, le prime pagine dei giornali, all’estero come in Italia, erano coperte di fotografie apocalittiche di mucchi di spazzatura con il barocco di sfondo e la gente in motorino senza casco. Si parlava di puzza e di topi e di “che figura ci facciamo”. “È tempo che si abbia l’educazione di considerare le strade come le proprie case: dobbiamo avere la volontà, a partire da Napoli, di diventare come il Giappone, dove, in due giorni, al G8 di Tokyo non ho visto per strada un mozzicone, né una carta di caramella.”“A partire da Napoli, si deve aprire una nuova era di ordine e decoro,” continuava Berlusconi.
Sono passati dieci anni e Napoli non è diventata il Giappone (per fortuna), ma qualcosa è cambiato. È cambiata la percezione che si aveva all’estero di una città a metà tra la giungla e il far-west con un bel sole, la pizza più buona del mondo e un sacco di storia. Storia, sole e pizza rimangono e si danno per scontati, ma si aggiungono elementi di borghesizzazione, celebrazione pagana e nostalgica e innovazione internazionalista che stanno risistemando la città sulla mappa.
Questa svolta si deve in gran parte a dei libri. Da un lato a Gomorra di Roberto Saviano, il Salman Rushdie di Casal di Principe, che ha creato un mondo già esistente ma nascosto e silenzioso, e tirandolo fuori dal suo silenzio, lo ha reso più irreale della realtà; dall’altro il ciclo de L’amica geniale di Elena Ferrante che ha fatto scoprire agli americani, da James Franco a Hillary Clinton, che c’è qualcos’altro oltre la pizza (vi ricordate Julia Roberts in Mangia Prega Ama o le canzoni di Dean Martin?), e che, proprio in antitesi alla non-fiction savianesca, nessuno ti spara se entri in un negozio del centro. L’amica geniale dimostra agli americani che c’è un confine di classe anche in quello che lì si considera, con sprezzo e folklorismo, terzo mondo, e che Napoli non è una cartolina ma un pezzo di storia d’Italia.
Le rare volte in cui un libro sbanca, diventa televisione. Così di Gomorra c’è stato il film, firmato da Garrone, e poi una serie e un mondo. “Oggi, quando pronunciamo la parola Gomorra, nessuno pensa più alla Bibbia,” dice Alessandro Piperno. Ed è un mondo che ha dato adito a imitazioni comiche – come “Gli effetti di Gomorra sulla gente” e tentativi di emulazione considerati pericolosi da alcuni magistrati, anche per la mancata rappresentazione delle forze dell’ordine nella serie TV di Sky.
Per lo stesso meccanismo, l’anno prossimo uscirà, per HBO, la serie sull’Amica Geniale, che stanno girando adesso a Caserta, e già gli americani fremono.
La tetralogia di Ferrante ha dimostrato che il sud d’Italia è civiltà e non solo spiaggia, e anche qui, come nell’opera di Saviano, è sempre presente la manichea lotta alla camorra. Così, grazie alle scene nei bei palazzi del centro, seicenteschi, settecenteschi e ottocenteschi, con il portale, il vestibolo, il cortile e lo scalone, decorazioni con rocce magmatiche e trabeazioni, marmi e timpani arcuati, labirintici loggiati inquadrati negli androni, nessuno pensa più alla spazzatura, e sui giornali internazionali, dal Guardian a Le Monde, fino al New York Times appaiono le guide della Napoli di Elena Ferrante, “se amate Elena Ferrante, adorerete Napoli”. Certo, la città è sempre stata un hot-spot del Grand Tour romantico dell’Ottocento, ma nell’ultimo secolo, a parte per il turismo del lusso di Capri, gli stranieri preferivano le “percepite-come-più-sicure” Venezia, Firenze e Roma.
Non è un caso che in Usa la tetralogia sia conosciuta come Neapolitan novels. E qualche mese fa in America è uscito Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, morta nel ’98 e riscoperta anche in Italia grazie ad Adelphi, tradotta proprio da Ann Goldstein, traduttrice di Ferrante, con un titolo che sembra cavalcare l’onda del brand-Napoli: Neapolitan Chronicles.
Chissà se questa rinascita, o riscoperta, o ripulitura, di Napoli sia percepita solo dagli stranieri o si senta anche tra i suoi abitanti. Chissà quanto tutto questo sta contribuendo all’economia cittadina. La metropolitana viene considerata una delle più belle del mondo, e il museo Madre viene celebrato come luogo di incontro tra Pompei e la modernità.
Accanto alla New Wave della letteratura campana degli ultimi anni, capitanata da Erri De Luca, Domenico Starnone (che qualcuno pensa sia Elena Ferrante o, al massimo, suo marito, tradotto di recente in America da Jhumpa Lahiri) e Francesco Piccolo – ma anche Antonio Pascale, Diego De Silva e Valeria Parrella – si accosta un nuovo look cinematografico partenopeo.
Napoli è sempre stata ambientazione di pellicole, inutile elencarle, ma di recente sembra esserci stato un picco, e in particolare un cambiamento in cui rispetto al mare e alla contemplazione vince la città piena di ansia che sobbolle. L’austerità del senso di morte, il mistero e i fantasmi che ritroviamo ad esempio nella Napoli velata di Ozpetek, che ricorda, anche grazie alla figura del doppio, Hitchcock o Edgar Allan Poe, dove Napoli è fumosa e labirintica, lontana dalle sceneggiate tra caffè imperfetti o preparazioni del presepio di Natale a casa Cupiello o dai personaggi di Totò. Un po’ come nell’Amore Molesto di Martone dove sembra ricercare il lato pagano pre-borbonico della città.
Altro elemento di questa neo-napoletizzazione culturale è Liberato, fenomeno neo melodico R&B rap-elettronico, che piace agli indie. Volto nascosto – come Ferrante – e nostalgia.
Scennimmo a Mergellin’
Nun ne parlamm’ cchiù
‘E cinche d”a matin’
It’s me and you
Il suo Tu t’e scurdat’ E’ me è un viaggio nella città, nei suoi luoghi romantici, dove i luoghi non sono scenario ma protagonisti.
Ma forse il cambiamento è tutta percezione. In Storia della bambina perduta Ferrante parla di una rinascita di Napoli negli anni ’90. Prescinde dalla temporalità, perché sembra per lei ciclica. Ogni tanto Napoli rinasce, e poi rimuore. Non sembra potersi salvare da quest’anima di grande capitale in potenza. E razionalizzare su una città così de core sembra peccaminoso. Perché tutte le città – tranne Roma, che sarà sempre impero in rovine tra l’erba alta, che ci siano le pecore, i pastori o i barbari a governarla – cambiano. “Sono andata via da Napoli definitivamente nel 1995, quando tutti dicevano che la città stava risorgendo. Ma ormai credevo poco alle sue resurrezioni. […] Il trucco della rinascenza accendeva speranze e poi si spaccava, diventava crosta sopra croste antiche.”