Non si può certo dire che i leader di questo governo siano di poche parole. Forse solo Conte, che dovrebbe essere il leader di questo governo, non è particolarmente loquace. Gli altri due, Di Maio e Salvini, parlano abbastanza per tutti. Il ministro dell’Interno ha una media di 10 post al giorno, uno ogni due ore, e anche se detiene il record del politico più attivo sui social, il collega dello Sviluppo Economico non si lascia certo intimidire. Certo, l’uso creativo della lingua italiana non rende i suoi post sempre comprensibili, ma comunque sono dichiarazioni. Di Maio, Salvini e i loro compagni di partito sembrano avere un’opinione su tutto. Ci sono gli uomini che dicono alle donne cosa fare della propria gravidanza e periti aziendali che insegnano agli immunologi come vaccinare i pazienti, unendo l’utile – la visita domenicale al cugino ammalato – al dilettevole – una bella malattia esantematica. C’è un tema su cui però non si esprimono mai: la minaccia del cambiamento climatico.
L’8 ottobre scorso, a Incheon, in Corea del Sud, è stato presentato il più rilevante studio scientifico di quest’epoca storica. Redatto dall’Intergovernmental panel for climate change (Ipcc) dell’Onu, è una relazione che sintetizza i dati raccolti nell’analisi di oltre 6mila ricerche scientifiche, e illustra il mondo a cui a cui andremo incontro se non dovessimo raggiungere l’obiettivo fissato dall’accordo di Parigi, in vigore dal 2016, entro 12 anni. Con questo patto, detto anche Cop21, i Paesi firmatari si sono impegnati a mettere in campo misure significative per limitare il surriscaldamento del clima, mantenendo le temperature tra il grado e mezzo e i due gradi in più rispetto ai livelli pre-industriali. Al momento, il termostato segna già +1°C rispetto al suddetto limite, lasciandoci con un margine di manovra di solo mezzo grado. Ma proprio questo mezzo grado, spiegano gli oltre 90 scienziati incaricati dall’Onu – e vincitori del premio Nobel per la Pace nel 2007 – può fare un’enorme differenza. Può salvare tra il 70% e il 90% delle barriere coralline, che a 2°C cesserebbero di esistere; può ridurre l’innalzamento dei mari di 10 centimetri, permettendo a oltre 10 milioni di persone di scampare ai rischi correlati all’erosione della terra ferma; può diminuire la drammaticità di eventi climatici come le ondate di caldo, la siccità e i cicloni tropicali; può frenare lo scioglimento del permafrost e garantire la sopravvivenza di diverse specie animali e vegetali. Significa preservare il mondo, almeno in parte, come lo conosciamo oggi. Anche l’Italia ha ratificato l’accordo, seppur in ritardo, approvandolo in Parlamento nonostante la Lega (allora ancora “Nord”, è sempre bene ricordarlo) abbia votato contro.
Da allora molto è cambiato. Una delle novità più rivoluzionarie del Cop21 era stata l’adesione degli Stati Uniti, che però si sono ritirati il primo giugno 2017. D’altronde, è celebre lo scetticismo di Donald Trump nei confronti del cambiamento climatico – anche se, più che il monito cartesiano del cogito ergo sum, a spingerlo verso tali dichiarazioni sono gli interessi che rappresenta (allerta spoiler per tutti i detrattori del finanziamento pubblico ai partiti). Ora sembra che anche l’Australia ci stia ripensando, decidendo di dare priorità alla guerra contro l’inflazione dei prezzi dell’energia, piuttosto che al futuro della Grande barriera corallina, che ha ottime probabilità di scomparire nel breve periodo. Nemmeno la permanenza del Brasile sembra più così assicurata dopo la vittoria di Jair Bolsonaro al primo turno per le presidenziali. Nei prossimi anni, a capo di una delle economie più in rapida crescita del mondo, potrebbe esserci uno che ha dichiarato di voler costruire un’autostrada nella foresta amazzonica, riaprirla alle coltivazioni e abolire il Ministero dell’Ambiente.
In Italia? Tutta la questione dell’Ipcc è passata in sordina, se n’è parlato poco sia in politica che sui giornali, come ha scritto Emanuele Bompan su Linkiesta. Il ministro dell’Interno non ha espresso un solo pensiero a riguardo, e cercando le parole chiave “cambiamento climatico”, “clima” o “Ipcc” sulla sua bacheca Facebook non si ottiene alcun risultato pertinente. Il collega dello Sviluppo Economico invece, dopo essere stato sollecitato dai cittadini, ha pubblicato un video in cui finalmente dà prova di un dato importante: Luigi Di Maio sa leggere bene i testi che gli scrivono. A parte questo, si evince anche che il governo vorrebbe stanziare 250 milioni per il triennio 2019-2021 per le fonti rinnovabili, mettere già nella prossima legge di bilancio i soldi per efficientare a livello energetico gli edifici pubblici, incentivando i privati a fare lo stesso, e introdurre l’ennesima rivoluzione a Cinque Stelle: l’Ires verde, una tassa per le aziende inquinanti.
Tutto molto bello, speriamo anche vero. Tuttavia, mentre li “lasciamo lavorare”, possiamo cominciare a dare un’occhiata al contratto di governo, che dedica all’argomento ben 280 parole, 1.843 caratteri. Praticamente 6 tweet, meno di quelli che Salvini posta in un giorno. Oppure possiamo guardare all’ultimo decreto emanato dal governo, quello per la ricostruzione del ponte Morandi e la viabilità di Genova. Sarà che il ministro Toninelli ha particolarmente a cuore le sorti delle aziende che trattano le acque reflue, ma ora queste potranno sversare nei terreni agricoli fanghi inquinanti con una percentuale di idrocarburi pesanti di mille milligrammi per chilo; venti volte di più rispetto al limite precedente. E così, quello che finora erano riusciti a fare una trentina di sindaci lombardi, che si erano rivolti al Tar per contrastare la delibera regionale a firma leghista che avrebbe aumentato il limite da 50 a 10mila milligrammi, non è riuscito a farlo il M5S, da dentro palazzo Chigi. E ora, dopo aver emanato il decreto per “sbloccare una situazione di emergenza”, si propongono di modificarlo in Parlamento. Ah, giusto, lasciamoli lavorare.
Per comprendere quante reali speranze ci siano che questo governo metta l’ambiente tra le sue priorità, ci si può affacciare nella stanza accanto di Palazzo Chigi, quella occupata dai colleghi leghisti, che di verde non hanno più neanche le – istituzionalissime – mutande comprate coi soldi regionali. A guardare il territorio della pianura Padana, storica roccaforte del Carroccio, non si direbbe proprio che la tutela dell’ecosistema stia a cuore al partito oggi a guida di Salvini. Nella Macroregione del sogno padano, composta da Lombardia, Veneto e Piemonte, dagli anni Cinquanta a oggi si conta un’occupazione del suolo pari a otto metri quadrati al secondo. Per la destra settentrionale, le moschee non sono in linea con il paesaggio lombardo, ma evidentemente gli ecomostri sì. E non si tratta solo di scelte passate. Salvini si è recentemente allineato in maniera piuttosto chiara con il luminare d’oltreoceano Donald Trump. Se non ha negato nello specifico il cambiamento climatico, sempre per la linea “Zero dichiarazioni” di cui sopra, ha comunque deriso gli studi che collegano questo fenomeno alle migrazioni di massa. Con lo stile di un elegante statista, ha dichiarato: “Cos’è il migrante climatico? Dove va? Se uno in inverno ha freddo e in estate ha caldo migra? Siamo seri. Ne abbiamo già tanti. Il migrante climatico è anche uno di Milano a cui non piace la nebbia?”
Come no, è esattamente questo che intendono le decine di studi che ci dicono che, solo nel 2016, 24 milioni di persone hanno dovuto lasciare la loro casa a causa dei disastri ambientali, o che, in poche decine di anni, in 2 miliardi dovranno spostarsi per via dell’innalzamento del livello del mare. E tra questi è molto probabile che ci siano anche molti veneziani, ex legittimi residenti della città da anni stuprata da politiche del turismo irresponsabili e minacciata dalla sua stessa natura. Ma il ministro dev’essere un fan di Zenone, ed esattamente come chiede la redistribuzione di migranti alleandosi con chi, in merito, gli ha già fatto il gesto dell’ombrello, irride la questione ambientale che potrebbe portare in Europa decine di migliaia, se non milioni, di “immigrati clandestini” (anche detti profughi). A sguazzare in questo paradosso non è il solo, ma ben accompagnato dai leader sovranisti di tutto il mondo, dall’Australia – recentemente presa a modello di Salvini per le politiche immigratorie inumane – agli Stati Uniti.
C’è da dire che, in Italia, il tema del cambiamento climatico non ha mai scaldato i cuori delle masse. Paradossalmente, proprio i Cinque Stelle, nel loro stadio embrionale e durante i gloriosi anni dell’opposizione, avevano puntato molto sul tema – almeno a parole, visto che solo il 7% delle proposte di legge effettivamente presentate dal Movimento era inerente al tema. Ed è strano, visto che il nostro Paese, data la posizione e la conformazione geografica, si troverebbe a fronteggiare conseguenze più devastanti di altri, in cui tuttavia il tema della sostenibilità è molto più sentito. “I modelli di lungo periodo prevedono che entro un secolo l’aumento della temperatura media in Italia sarà compreso tra 1,8 e 5,2 gradi. La dinamica riguarderà in maniera pressoché uniforme tutto il territorio nazionale: aumenteranno fra l’altro vampate di calore e notti tropicali, che nel peggiore dei casi arriveranno a coprire più di due mesi l’anno.” Questo è quanto riporta lo stesso Ministero dell’Ambiente.
Un aumento di questo tipo sarebbe deleterio per l’agricoltura, in quanto renderebbe i terreni incoltivabili per via dell’assenza di piogge e del caldo eccessivo, creando un danno che, è ragionevole pensare, sarebbe di maggiore interesse per le regioni del Mezzogiorno. Queste, che già soffrono di un costante spopolamento, vedrebbero ulteriormente peggiorare il fenomeno in quanto, come già osservato altrove, esiste una correlazione più stretta tra variazioni del clima e migrazioni nelle economie fondate sull’agricoltura. Coldiretti ha valutato in 14 miliardi di euro i danni causati dal cambiamento climatico al settore agricolo italiano nell’ultimo decennio, ed entro il 2030 potrebbero salire a 20. Non sarebbero meno considerevoli le perdite nel comparto turistico e i costi legati al dissesto idrogeologico.
La verità è che, mentre Trump e Bolsonaro, e probabilmente anche il premier australiano Michael McCormack, parlano così perché rappresentano gli interessi di qualcuno, la politica italiana non ha un piano per l’ambiente perché semplicemente non ha un piano. In un clima di eterna campagna elettorale, il tema della sostenibilità non porta voti; viene percepito come lontano, e quindi poco importante. Forse per questo non è mai rientrato nelle liste delle promesse dei vari aspiranti leader, e così gli italiani hanno sempre preferito un condono oggi, piuttosto che un mare pulito domani. Ma se è vero che questa è una caratteristica diffusa della politica italiana, ad oggi, questo governo ha dimostrato più di altri di non voler porre mai fine ai proclami, alla propaganda, senza guardare alle conseguenze delle proprie affermazioni o azioni. Questo non fa ben sperare, perché se esiste qualcosa che ci riguarda tutti, da Trump a Toninelli, dal contadino al ministro, questa è proprio il pianeta su cui tutti, volenti o no, poggiamo il culo.