I vecchi ritmi sono insostenibili, inutile fingere: siamo cambiati e deve cambiare tutto il sistema - THE VISION
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Il tempo s’è prima fermato e poi s’è messo a correre. Nei giorni si sono aperte spaccature di ansia e dolore e poi, dalle stesse, è spuntata una piantina verde speranza. Ha gemmato sogni per un futuro senza data eppure vicinissimo: “Appena si potrà di nuovo”. Ha dato vita a piani più leggeri da sostenere, almeno sulla carta, ma poi la carta s’è spiegazzata, strappata. La pandemia è passata da essere un terrore mondiale, capace di unirci nella prospettiva di superarla, a un rumore di fondo, un’inquietudine sottile e individuale. Se si vuol essere davvero al passo coi tempi, bisogna fingere di sentirla appena o per niente. Ma, riconosciuto da pochi – perché in pochi ammettono di averci a che fare e ancora meno ne vogliono parlare – il trauma è lì. Lo si può chiamare, ad esempio, incapacità di sopportare gli stress. Poiché siamo stati allertati e in tensione per molto tempo, oggi siamo ipersensibili alla sola possibilità di una limitazione o di un pericolo. Non si tratta di un fenomeno sconosciuto alla società: molto vicino al disturbo da stress post traumatico, l’impatto della pandemia sulla nostra vita emotiva è attualmente oggetto di studio e discussione.

“Poiché siamo animali sociali, abitudinari e programmati come specie a dare risposte molto capaci in emergenza, l’adattamento a questa situazione, prolungato a tempo indefinito, provoca uno svuotamento emotivo”, ha dichiarato Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di Neuropsicofarmacologia e direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Neuroscienze del Fatebenefratelli-Sacco di Milano. Le conseguenze negative hanno un’onda lunga, impattando anche sull’immagine corporea, il rapporto con il cibo e con l’attività fisica e siamo tutti esposti: adulti, giovani e, soprattutto, giovanissimi. Il rapporto More in Common – Italia, progetto finanziato con il supporto della European Climate Foundation, dice che il Covid-19 ha influito in modo significativo sulla salute fisica e mentale degli italiani, e su quest’ultima ha avuto un impatto ancora più grave. Come si legge nel documento: “Le fasce d’età più giovani sono quelle che mostrano maggiore eterogeneità negli effetti”. I dati rilevati dalla Società Italiana di Pediatria e dall’ultimo rapporto dell’UNICEF sulla salute mentale dell’infanzia e dell’adolescenza in Europa, confermano: questa bomba sta già scoppiando, in relativo silenzio. Teoricamente, sappiamo; in pratica, non vogliamo sentirne parlare o agire di conseguenza.

Smania di divertirsi, di recuperare il tempo perso, di correre a far tutto quello che non si è potuto fare prima, prima che ci chiudano in casa di nuovo, prima che qualcuno ci ricordi che i numeri del contagio sono di nuovo in crescita. Ansia di correre in palestra e piscina o al parco per calmarsi i nervi, perdere cinque chili. Urgenza di spensieratezza, leggerezza, serenità e al tempo stesso la necessità di lavorare, subito, ora, qualsiasi lavoro perché bisogna riprendersi tutto, tamponare le perdite, recuperare le occasioni. Fossimo in Boris qualcuno ci direbbe che ci serve un qualche futuro e ne abbiamo, invece, una locura. L’idea di ripensare completamente la nostra esistenza, sia nel quotidiano che in prospettiva, dal lavoro alla vita privata, è venuta a tutti. Ma anche l’intenzione di migliorare la qualità della propria vita deve vedersela con delle difficoltà non indifferenti. Il desiderio di cambiamento, infatti, può anche essere drastico, ma per farsi azione vera e propria, direzione presa da cui non si torna indietro, ci vuole tempo. Quel tempo che nessuno è più disposto a “perdere”.

Il tempo è un paradigma del cambiamento. Ogni vera modifica alla catena delle nostre giornate richiede impegno per sganciarne gli anelli uno a uno. Secondo uno studio del 2009 pubblicato sull’European Journal of Social Psychology, una persona impiega dai 18 ai 254 giorni per formare una sola nuova abitudine. Inoltre, non possiamo astrarci dall’impatto delle nostre scelte sull’intera società. La nostra famiglia, il cerchio delle amicizie, la persona con cui condividiamo o vorremmo condividere la vita o almeno un periodo della stessa, sono le prime rappresentanze del mondo a essere investite dalle nostre decisioni e spesso ciò comporta degli scontri prima di un vero sostegno. A livello lavorativo, poi, le cose possono complicarsi.

Sia se siamo fortunati, e abbiamo cioè un lavoro stabile e coerente con i nostri interessi, sia che viviamo una condizione di insoddisfazione professionale, ciò che facciamo per vivere in maniera più confortevole prende il nostro tempo e detta i nostri ritmi in cambio di una remunerazione economica. Purtroppo, però, il report della Fondazione Di Vittorio fotografa nel corso del 2021 un ulteriore peggioramento delle condizioni occupazionali e salariali nel nostro Paese. Inoltre, nel secondo trimestre dello stesso anno, si osserva una forte ripresa del numero di dimissioni volontarie dettate, in parte, da aspetti che la pandemia ha prodotto sia dal punto di vista psicologico che della mobilità delle persone. Invece di darci qualcosa, il nostro lavoro oggi sembra toglierci tutto e l’unica cosa che ne guadagniamo con certezza, a parte i magri compensi, è un ulteriore stress, l’impressione che la società del profitto si stia a tutti i costi approfittando anche di noi.

Secondo lo storico Donald Sassoon, l’epoca che stiamo vivendo è il “trionfo dell’ansia” come da titolo del suo ultimo saggio sulla globalizzazione del capitalismo. La pandemia, con tutte le sue conseguenze, ha fermato il mondo per mesi mettendo in luce problemi e diseguaglianze, ma il processo di crisi era già in corso da prima. Oltre a ciò, bisogna fare i conti con la sostenibilità ambientale. Un recente sondaggio internazionale ha evidenziato che sempre più persone si dicono preoccupate per la crisi climatica, ma la maggior parte crede di star facendo già molto per preservare il pianeta e non è disposta ad altre modifiche dello stile di vita. Lo studio afferma: “piuttosto che tradursi in una maggiore disponibilità a cambiare abitudini, le preoccupazioni dei cittadini si concentrano in particolare sulla valutazione negativa degli sforzi dei governi” – che in effetti in molte parti del mondo stanno facendo ben poco.

Quello che emerge da tutti gli studi è che la pandemia ci ha costretti a far più attenzione al nostro comportamento e al suo impatto sugli altri e sul pianeta. Anche di recente, Nicholas A. Christakis, medico e professore di Scienze sociali e naturali a Yale, ha scritto che dovremmo fare appello all’altruismo, eppure le divisioni si accentuano ogni giorno di più. Per quanto l’impulso ad aiutare gli altri sia una delle più grandi risorse della specie umana, la nostra scorta sembra ormai in riserva. 

Donald Sassoon

Le  ragioni sono diverse e complesse, ma il distacco che in molti sembrano provare dalle sorti altrui non dipende unicamente dall’egoismo; siamo stati in qualche modo svuotati di empatia, coraggio e stimoli. Se nel bel mezzo della fase più nera dell’emergenza sanitaria abbiamo esercitato la fiducia e la speranza, dando nuovo valore a quelle che prima pensavamo consuetudini, questa capacità di riconsiderare abitudini e relazioni non si è tradotta in una scelta unitaria, pubblica e riconosciuta. 

Gli strumenti che stavamo trovando per superare la crisi ci sono stati tolti e in molti non sono riusciti a tenerseli stretti. Basta con la sensibilità e la generosità: dal farci comunità, distante ma coesa, siamo finiti in tanti naufragi personali di cui nessuno vuole tenere conto. E anche chi è ancora disposto a pensare non solo a se stesso ma al prossimo è alle prese con un’evidenza amara: governi, partiti politici, portatori di grandi interessi economici si sono mostrati disponibili ad aggiornare i loro approcci e le loro regole solo in linea teorica. Nella pratica si è ripartiti come se niente fosse. Molti schemi erano già ingiusti prima; oggi sono evidentemente anche anacronistici. Strutture di potere e, soprattutto, di guadagno, macinano il nostro tempo e consumano la nostra voglia. Questi modelli non hanno nulla a che fare con quanto viviamo dal marzo 2020, ma sono ancora imperanti e nessuno, fin qui, si è impegnato davvero a modificarli in maniera strutturata, equa e condivisa. L’altruismo, in quest’ottica, risulta poco remunerativo.

Nei Quaderni del carcere, Antonio Gramsci scriveva che i fenomeni morbosi più svariati nascono in un interregno in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Noi sappiamo bene cosa non funziona più. Per mesi ci siamo detti e abbiamo toccato con mano la necessità di ripensare totalmente gli spazi abitativi, quelli del lavoro e in generale l’organizzazione delle nostre città. Abbiamo sentito con maggiore forza l’importanza di trascorrere del tempo di qualità con le persone a cui teniamo. La famiglia si è mostrata in un’accezione assai più ampia di quanto alcuni sono disposti a riconoscere. Il nostro concetto di salute non ha più a che fare solo con il tenerci lontani da un virus o il superamento di una malattia. La nostra idea di futuro è strettamente connessa a quella che abbiamo del pianeta. È dunque chiaro che il sistema non può ripartire con le stesse modalità con cui è andato avanti per decenni perché noi non siamo più gli stessi. Il modello di vita preconfezionato ci sta troppo stretto e non siamo più disposti a sacrificare tutto pur di starci dentro. La ripresa non ci interessa se la locomotiva economica ci travolge buttandoci a terra. E se la scarsa fiducia, accompagnata alla forte stanchezza e combinata alla sensazione d’essere in ritardo per qualcosa non ha ancora un nome preciso – si parla di pandemic fatigue” e di languishing” – abbiamo la certezza di dover ridiscutere gli ambiti e i contesti che compongono le nostre giornate a livello non solo personale o di categoria, ma nazionale e internazionale.

C’è una necessità condivisa da tanti che emerge dagli ultimi dodici mesi: il bisogno di maggiore serenità per pensare alle cose per noi davvero importanti e alla direzione che ha preso la nostra vita. Eppure, questa istanza estremamente condivisibile non è ancora stata riconosciuta come una richiesta collettiva né una discussione ragionata. Il complesso e non ancora del tutto concluso periodo che affrontiamo – un evento dalle ripercussioni globali – vede tentativi di risoluzione nell’iniziativa dei singoli. In questo modo, però, si rischia di frammentare ancora di più una società già divisa. Il rischio non è solo quello di percepire il cambiamento come un lusso per pochi, ma quello di andare incontro a un blackout sociale in cui non si ha più la capacità di sostenere i ritmi del sistema e non si hanno né il tempo né le energie per abbracciare nuovi valori capacità di crearne uno più giusto.

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