La pandemia ha avuto il merito di rivelare l’inconsistenza di diversi luoghi comuni che hanno infestato per anni il dibattito pubblico: basti pensare alla riconsiderazione dell’essenzialità della medicina di base – che alcuni esponenti politici consideravano inutile e desueta – e all’importante passo indietro dell’Unione Europea, che ha ammorbidito la propria intransigenza sul fronte dell’austerity per promuovere soluzioni condivise e maggiormente improntate alla giustizia sociale e intergenerazionale, su tutte il Next Generation Eu, il programma comune di aiuti più ambizioso dell’intera storia comunitaria. Eppure, è resistito lo stereotipo più insopportabile di tutti: quello dei giovani italiani nullafacenti che non vogliono lavorare.
Quello dei “bamboccioni” è un leitmotiv imperituro che occupa le prime pagine dei nostri giornali già dal 2012, quando l’allora viceministro del Lavoro Michel Martone inaugurò questo filone narrativo, dichiarando che fosse necessario “dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato” – non importa se ad esempio magari nel frattempo fai due lavori diversi e mantieni una famiglia. Da nove anni a questa parte poi non è cambiato molto: quella retorica ha attecchito e si è trasformata in senso comune. Cos’, il 14 settembre di quest’anno, un articolo delirante pubblicato sul Messaggero portava avanti l’ennesima crociata nei confronti del cosiddetto “popolo del divano”, ossia quella compagine immaginaria composta da milioni di giovani refrattari alla fatica, che vogliono “restare ai margini” e che preferiscono continuare a gravare sulle tasche dei propri genitori o crogiolarsi nei sussidi statali – reddito di cittadinanza in primis – piuttosto che darsi da fare per ottenere un miglioramento della propria condizione.
Il risultato di queste rappresentazioni svilenti è la colpevolizzazione di un’intera generazione, che a dispetto dei luoghi comuni fonda la sua esistenza come tutti sul lavoro – nel migliore dei casi mal pagato, nel peggiore gratuito.
A mancare non è infatti la voglia di lavorare, ma semmai il lavoro dignitoso, seppellito da contratti a tempo pieno travestiti da part time, orari di lavoro massacranti, bassi stipendi e assenza di qualsiasi tipo di tutela. Una tendenza confermata anche dai dati Istat, che hanno evidenziato come, nel secondo trimestre del 2021, le retribuzioni medie siano scese del 3%, mentre l’unica tipologia di lavoro a crescere è stata quella “atipica” (formula con cui si intendono tutti quei contratti di lavoro non abituali, diversi dai tradizionali contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato e dalle forme di lavoro autonomo), ossia precaria.
Questi dati contrastano fortemente la narrazione dominante, che individua la panacea di tutti i mali dell’occupazione giovanile nel cosiddetto “skill mismatch” tra domanda e offerta di lavoro e, quindi, nell’incompatibilità tra le qualifiche richieste dalle imprese e quelle offerte dai candidati. Tuttavia, anche in questo caso i dati a nostra disposizione sembrano suggerire una realtà decisamente più complessa: come ha spiegato l’economista Marta Fana su Econopoly, secondo le rilevazioni dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps, tra il 2015 e il 2017, il 35% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato ha riguardato il settore dei servizi a scarsa produttività (commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli, trasporto e magazzinaggio, servizi di alloggio e di ristorazione).
Di conseguenza, in Italia, il problema non sarebbe tanto relativo all’offerta, quanto piuttosto all’assenza di domanda di lavoro qualificata – la mancanza, quindi, di un tessuto economico adatto a posizionare sul mercato del lavoro persone con titoli di studio e competenze elevate. Un fenomeno che finisce per incentivare la “fuga dei cervelli”, ossia il trasferimento di lavoratori da uno stato a un altro, nel quale trovano migliori opportunità occupazionali e retribuzioni più elevate; una tendenza confermata anche dall’ultimo report su Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, uno su tre dei circa 87mila cittadini italiani trasferitisi all’estero nel 2019 è infatti in possesso di una laurea.
Per chi rimane non resta che la routine avvilente della “formazione continua”, che di solito si risolve in un nulla di fatto, frutto di un’enfasi continua e ridondante sulla necessità di acquisire sempre nuove e più specifiche competenze per “restare sul mercato”. Questa retorica ha prodotto un risultato che è sotto gli occhi di tutti: la normalizzazione di tirocini non retribuiti che portano a non prevedere alcuna forma di stabilizzazione e che, in alcuni casi, vengono impiegati dalle aziende come veri e propri sostitutivi di contratti a termine. Come spiega Eleonora Voltolina di La Repubblica degli stagisti, il numero di persone impegnate in stage curriculari (ossia connessi al piano di studi) in Italia è sostanzialmente ignoto, data la penuria di indagini sul tema; tuttavia, si stima che siano tra i 150mila e i 200mila ogni anno, ai quali si aggiungono gli oltre due milioni di stage extracurriculari – quelli svolti al di fuori degli studi – attivati nell’arco di appena 5 anni, dal 2014 al 2019, registrati da Anpal nel suo secondo rapporto di monitoraggio dei tirocini extracurriculari. Questi strumenti hanno dimostrato la propria inefficacia da tempo, dato che nella stragrande maggioranza dei casi il periodo di stage non si risolve in un’assunzione. Secondo il Rapporto di Monitoraggio Nazionale in Materia di Tirocini Extracurriculari dell’ANPAL, infatti, tra il 2014 e il 2017 soltanto un quarto dei tirocinanti è stato assunto dall’azienda ospitante entro 6 mesi dalla fine dello stage.
La ripartenza post Covid dovrà rappresentare l’occasione per superare questa situazione rovinosa: bisogna rimettere in moto un Paese statico, che cresce poco e invecchia a un ritmo insostenibile (con un rapporto di 5 anziani per ogni bambino, secondo l’Istat); per riuscirci bisognerà che lo slogan “ripartire dai giovani” si concretizzi in una priorità a tutti gli effetti, a partire da un contrasto deciso alla piaga del lavoro povero, simboleggiata dalle stime dell’Inps, secondo le quali circa 2 milioni di italiani lavorano per 6 euro l’ora. Da questo punto di vista, uno strumento che potrebbe rivelarsi decisivo è il cosiddetto “salario minimo”, rilanciato nelle ultime settimane da Pd e Movimento 5 Stelle e tornato d’attualità anche grazie al reddito di cittadinanza, che in molti contesti ha funzionato come una sorta di “salario di riserva”, fissando una soglia ideale al di sotto della quale i cittadini non sono più disposti a lavorare. Il reddito minimo renderebbe questa soglia obbligatoria per legge, tracciando una linea di demarcazione ben precisa tra lavoro e sfruttamento e imponendo al datore di lavoro limiti ben precisi al di sotto dei quali non è possibile scendere. Si tratterebbe di un passo in avanti importante, che spingerebbe le imprese a programmare a lungo termine investendo in ricerca e innovazione, disincentivando lo sfruttamento del lavoro a basso costo.
Una volta delineata questa soglia di dignità, il passo successivo dovrà essere quello relativo alla previsione di norme che agevolino l’assunzione a tempo indeterminato e contrastino in modo deciso lo sfruttamento degli stagisti, anche attraverso la previsione di tassazioni agevolate per ambedue le parti del rapporto di lavoro – una strada già parzialmente percorsa dagli sgravi previsti dalla Legge di Bilancio 2021, che premia i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato (o stabilizzano) giovani al di sotto dei 36 anni di età, prevedendo per loro un esonero contributivo totale per un periodo massimo di 36 mesi e nel limite massimo di 6mila euro annui.
Questa ripartenza offre un’occasione senza precedenti per invertire il trend di un Paese gerontocratico come il nostro, che per ogni euro investito in ricerca ne spende 44 in pensioni. Non è più possibile rimandare, perché un Paese che non investe nei giovani è un paese senza futuro.