Si sa che l’Italia ha una grande passione per comitati, commissioni, tavoli tecnici, task force e commissari. Tra la Fase 1 e la Fase 2 dell’epidemia ben 450 esperti hanno espresso pareri e steso relazioni sulle rispettive materie di competenza. Nessuno di questi è però riuscito a organizzare un piano per la riapertura delle scuole adeguato, tanto che a meno di due settimane dal giorno di ripresa delle lezioni nessuno ancora sa se i bambini dovranno effettivamente tenere le mascherine in classe, se le classi verranno ridistribuite e gli ingressi contingentati, se e quando arriveranno i famosi banchi a rotelle, presentati per mesi come la soluzione a tutti i mali. Se nessuno può prevedere l’andamento della pandemia nei prossimi mesi, riaprire le scuole senza aver prima definito e condiviso i dettagli dei protocolli anti-contagio rischia di risultare azzardato.
I problemi che la scuola si ritrova ad affrontare oggi sono in realtà problemi strutturali già presenti ma che, in condizioni normali, sono sempre stati considerati di secondaria importanza rispetto alle altre urgenze del Paese, per cui la scuola si è trasformata in un serbatoio da cui attingere risorse, sempre pronta a subire tagli e contenimenti di spesa. A partire dalle stesse strutture scolastiche: sia gli edifici più vecchi che quelli più moderni spesso non possono garantire i criteri imposti dal distanziamento a causa delle loro dimensioni, senza contare che alcuni istituti sono fatiscenti, con parti inagibili che riducono ulteriormente gli spazi. Il ministero ha dato carta bianca agli istituti per organizzare diversi dettagli di tipo logistico, dettagli che sono però indispensabili per la sicurezza e la salute dell’intera comunità. A fine luglio, il ministero ha messo a disposizione alcune risorse economiche per riorganizzare gli spazi delle scuole, utilizzabili sia per lavori di edilizia leggera che per le forniture: 330 milioni di euro in fondi strutturali europei previsti dal Programma operativo nazionale (Pon) “Per la scuola, competenze e ambienti per l’apprendimento 2014-2020”, più 30 milioni aggiuntivi dal decreto Rilancio. Nonostante ciò, secondo il Corriere, mancherebbero gli spazi per 150mila studenti. Gli istituti si stanno organizzando anche per tenere lezioni al di fuori degli edifici scolastici, anche grazie a un bando da 70 milioni di euro per l’affitto di spazi esterni. Sono 400mila i bambini e i ragazzi che dovranno studiare in queste nuove aree, per un totale di circa 20mila aule. A inizio agosto, secondo l’Associazione nazionale presidi, non si era arrivati a trovarne neanche la metà. Quale sarà il destino di questo 200mila studenti quindi non è ancora chiaro.
Certo è che le aule, per come sono organizzate ora, non possono garantire il distanziamento sociale. A giugno la distanza prescritta era di due metri. Constatata l’impossibilità di mantenerla (in questo modo un’aula di dimensioni normali avrebbe potuto contenere al massimo 16 alunni), la distanza è diventata di un metro, in un perfetto esempio di pressapochismo all’italiana dove non c’è poi così tanta differenza tra le due misure. Ma anche il metro, in alcune scuole, può essere difficile da garantire. La soluzione trovata è quella delle mascherine obbligatorie nel caso gli spazi non siano sufficienti a garantire le distanze, mascherine che, secondo Agi, arriveranno direttamente dal ministero con una fornitura di 11 milioni a settimana. Su questa dibattuta questione, il Comitato tecnico scientifico si è espresso con una nota, differenziando le misure sulla base dell’età degli studenti e dando la possibilità all’Asl di imporre l’obbligo a seconda dei trend epidemiologici locali.
Tutte soluzioni che sembrano fattibili sulla carta, ma che non tengono conto della realtà dei fatti, come l’oggettiva difficoltà nel garantire che tutti i bambini la indossino correttamente per tutta la giornata, oppure gli spostamenti quotidiani previsti dalle attività, sia per gli insegnanti che per gli studenti. I docenti si spostano da un’aula all’altra al cambio dell’ora, le classi usano aule condivise per attività come l’informatica o l’educazione fisica, condividendo gli strumenti. Chi si occuperà della sanificazione di queste aree e degli strumenti utilizzati prima dell’ingresso di ogni classe? Anche pensare di privare i ragazzi di tutte le attività che non siano le lezioni frontali sembra molto limitante. Tra le altre soluzioni proposte c’è anche quella di fare lezione a turno, con classi ridotte e una durata minore, contingentando gli ingressi.
Questo implicherebbe una maggior disponibilità di personale, che al momento non c’è. Anche in questo caso si tratta di un problema sistemico della scuola che si ripresenta da anni, ma la cui urgenza oggi risulta evidente. Nonostante il piano di assunzioni firmato da Azzolina, che ne prevede 70mila tra docenti e personale Ata, 85mila cattedre resteranno vuote. Ciò è dovuto alla mancata pianificazione dei concorsi ordinari che si è trascinata nel corso degli anni, e che oggi presenta il conto: per l’atteso concorso ordinario per la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria (che si svolgerà a lezioni già cominciate) sono già pervenute oltre 430mila domande per 34mila posti. La penuria di professori e maestri potrebbe aggravarsi anche perché centinaia di cosiddetti “lavoratori fragili”, cioè il personale con alcune patologie pregresse, starebbero chiedendo l’esonero ai propri dirigenti scolastici.
Il corpo docente italiano risulta anche tra i più vecchi d’Europa. Secondo i dati Ocse tra i Paesi europei siamo quello con la quota più alta di docenti ultra 50enni e la più bassa di 25-34enni. Nelle ultime settimane, poi, nei confronti degli insegnanti si è visto un vero e proprio accanimento mediatico. Qualcuno ha sostenuto che i docenti stessero approfittando della situazione per non lavorare, mentre varie testate hanno rilanciato il dato, smentito dall’Associazione nazionale presidi, secondo cui più del 30% del personale scolastico non volesse sottoporsi ai test sierologici perché “ancora in vacanza”.
L’unico punto fermo sembra essere il protocollo per la gestione di casi e focolai, firmato dall’Istituto superiore di sanità, dal ministero dell’Istruzione e dall’Inail il 21 agosto. Il documento fornisce diversi scenari a seconda della persona contagiata e del luogo in cui si manifestano i sintomi (a casa o a scuola), anche se è davvero difficile prevedere cosa succederà quando i protocolli teorici si scontreranno con la realtà. È legittimo domandarsi come si comporteranno le scuole, specialmente quelle dell’infanzia, quando gli alunni si ammaleranno delle consuete influenze stagionali che hanno sintomi indistinguibili da quelli del Covid, specialmente nei casi in cui un componente della famiglia sia immunodepresso o esposto a un maggior rischio di contagio. In Lombardia, il Simpef (Sindacato dei medici pediatri di famiglia) aveva chiesto alla Regione una fornitura di test rapidi per ovviare questo problema ed evitare il blocco generale delle attività per ogni caso sospetto, come già previsto in Veneto e Lazio. L’assessore al Welfare Giulio Gallera ha però fatto sapere che i test rapidi messi a disposizione dallo Spallanzani alla Lombardia sono insufficienti a coprire le scuole e pertanto verranno utilizzati solo quando ce ne saranno abbastanza per tutti. Resta poi il problema della gestione della quarantena o dell’attesa dei risultati del tampone da parte dei genitori, che per come stanno le cose ora dovranno prendersi permessi dal lavoro non retribuiti o retribuiti al 30%.
L’Associazione nazionale presidi ha avanzato la proposta dell’autocertificazione, ma anche in questo caso si tratta di uno strumento basato sul buonsenso dei singoli che, come abbiamo avuto prova negli ultimi mesi, non è affatto una garanzia. La misurazione della temperatura va effettuata a casa, prima di uscire. Ma su questo punto alcuni esperti hanno espresso perplessità, dal momento che i termometri domestici non sono sempre affidabili e sarebbe più utile uno strumento unico di cui dovrebbe farsi carico la scuola e che desse risultati uniformi, visto che la temperatura viene già misurata per l’ingresso di molti altri luoghi al chiuso. È anche vero che provare all’ingresso la temperatura a centinaia di studenti comporta diverse problematiche, tra cui ancora una volta la garanzia del distanziamento durante l’attesa.
Anche sui trasporti è stato trovato un accordo, il 31 agosto, dopo giorni di incertezza. Giorni, non settimane, perché del problema degli autobus ci si è accorti tardi, forse pensando che gli alunni si teletrasportassero da soli da casa a scuola, o arrivassero tutti con l’autista privato. Le linee guida del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti prevedono l’aumento in sicurezza della capienza massima dei mezzi all’80%, che può diventare totale se i posti a sedere saranno separati. Sono inoltre previste le mascherine obbligatorie e i dispenser di igienizzante sui veicoli. Chi ha preso mezzi pubblici negli ultimi mesi saprà che queste misure non significano nulla: i mezzi una volta terminato il lockdown erano di nuovo pieni nelle ore di punta e il distanziamento non garantito, specialmente nelle grandi città, ma anche sui treni regionali. “La volontà di fare il bene dei nostri ragazzi ha fatto superare polemiche e ostacoli”, ha commentato il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia. E forse qui sta il vero nocciolo del problema: avere in tempi ragionevoli un piano per la riapertura delle scuole non è fare polemica – parola dietro cui si è trincerata più volte anche la ministra dell’Istruzione Azzolina – è vivere in un Paese civile in cui, a due settimane dall’inizio della scuola, si sa cosa succederà.