Lavorare 365 giorni all’anno da quando si è maggiorenni senza mai andare in ferie o trovare del tempo per se stessi. Sembra un incubo, o almeno dovrebbe, e invece, secondo il corto Gli Amigos del regista Paolo Genovese, è un sogno.
Lo spot scritto per Parmigiano Reggiano e da giorni è al centro di accese polemiche, ha tra i suoi protagonisti tale “Renatino”, un casaro che lavora nel caseificio da quando ha 18 anni, 365 giorni all’anno, come ci tiene a sottolineare il maestro della scuola di cucina, interpretato da Stefano Fresi, e come ripete poco dopo incredula una delle giovani chef in visita allo stabilimento.
“Ma davvero lavori 365 giorni l’anno?”, chiede stupita la ragazza. “Sì”, risponde imbarazzato Renatino. Rincarano la dose i compagni: “Cioè tu non hai mai visto il mare?”, chiede un’altra chef. “Parigi?”, “Sciare?”, continuano meravigliati gli altri. La risposta di Renatino è sempre un sommesso “no”. “E… sei felice?”, chiede infine l’ultimo del gruppo. “Sì”, risponde timidamente Renatino.
Renatino, nella testa di chi lo ha ideato, avrebbe dovuto personificare l’eccellenza dell’azienda emiliana, un orgoglio del Made in Italy. C’erano mille modi diversi per raccontare la storia e il prestigio di questo marchio e invece si è scelto di puntare su una narrazione che finisce per romanticizzare lo sfruttamento e su una visione infantile del lavoratore dipendente, con i presenti che lo chiamano con un affettuoso vezzeggiativo, con un eccesso di confidenza che si prende di solito chi appartiene a una classe sociale più elevata con chi sta più in basso. Privato del suo cognome e del suo titolo professionale, Renatino diventa l’emblema di tutti i lavoratori sfruttati e senza diritti.
Gli ospiti, un gruppo di giovani ‘radical chic’ che sembrano in visita allo zoo, si meravigliano dell’impegno 365 giorni l’anno di Renatino e, invece di biasimarlo, lo lodano, addirittura affascinati dal suo spirito di sacrificio che lo spinge a rinunciare a tutto, comprese ferie e vita privata, per il proprio lavoro.
Stefano Fresi, in un lungo videomessaggio pubblicato ieri sera sul suo profilo Instagram, ha voluto sottolineare come si trattasse di “una pubblicità, un’opera di finzione”. “E quando ‘Renatino’”, continua, “racconta di essere felice di non andare a Parigi e di non vedere mai il mare perché lavora 365 giorni al Parmigiano Reggiano, è una cosa che serve allo sceneggiatore per magnificare il prodotto”. Insomma, secondo Fresi, trattandosi di una pubblicità che è utile a vendere il prodotto, il messaggio che veicola a potenziali milioni di spettatori resta secondario, se non proprio insignificante. Spostando l’attenzione mediatica sulla sua brillante carriera, sugli insulti che ha ricevuto in questi giorni sui social, sempre da condannare, e sul diritto alla libertà di espressione artistica, l’attore ha finto di non vedere la problematicità dello spot, bollando le critiche come semplici attacchi strumentali, espressioni del temutissimo “politicamente corretto” che tanto spaventa i media e gli intellettuali italiani.
Diverse le parole di Carlo Mangini, direttore comunicazione e marketing del Consorzio Parmigiano Reggiano, che ha espresso dispiacere per l’incapacità da parte dell’azienda di rilevare una lettura differente del messaggio trasmesso dallo spot. Per questa ragione, ha aggiunto, si è deciso di apportare alcune modifiche alla campagna pubblicitaria.
Il fatto che ci sia voluta una “rivolta” social per far rendere conto ai manager dell’azienda di aver mandato un messaggio sbagliato e pericoloso, dovrebbe come minimo fare riflettere. Se il tema ha toccato nel vivo così tante persone, evidentemente c’è un fondo di verità in quella rappresentazione favolistica e idealizzata del mondo del lavoro messa in scena nel cortometraggio.
L’Italia è infatti l’unico Paese europeo dove i salari sono diminuiti rispetto a trent’anni fa, mentre il costo della vita continua a crescere, dove grandi aziende spesso sfruttano i lavoratori senza metterli in regola o pagandoli pochissimo, e dove ai giovani, perennemente precari, vengono offerti contratti-farsa e stage infiniti e sottopagati, quando pagati.
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Soprattutto sul lavoro dei para-schiavi, uomini e donne senza diritti che mandano avanti gran parte della nostra economia”, scrive a questo proposito la giornalista Valentina Furlanetto nel suo ultimo libro Noi Schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa. Sfruttamento, lavoro in nero, mancanza di diritti basilari: è questa la fotografia del mondo del lavoro in Italia, scattata ad agosto scorso dall’Ispettorato del lavoro. Dopo settimane di controlli alle aziende in tutto il Paese, l’Ispettorato ha denunciato un numero impressionante di irregolarità nelle assunzioni, turni non corrispondenti alle ore di paga, presenza di lavoratori in nero e violazioni in materia di sicurezza.
E poi c’è il problema del caporalato. Come ha rivelato il report pubblicato dall’associazione Terra! dal titolo E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia, la condizione dei braccianti in Italia, Spagna e Grecia è molto simile e allo stesso modo drammatica. In Italia, in particolare, l’attività agricola è caratterizzata da vuoti normativi, violenze, precarietà estrema, lavoro grigio o a cottimo resi possibili da accordi “contrattuali” irregolari e mancanza di controlli nelle filiere produttive. Si tratta, senza usare giri di parole, di nuove forme di schiavismo contemporaneo, con le differenze che in alcuni casi sono addirittura legalizzate.
Per tutti questi motivi è vergognoso che una grande azienda produca uno spot in cui viene promosso un modello di lavoro stacanovista che oggi tutti sappiamo essere dannoso per la salute, oltre che anti-produttivo. Invece di puntare sulla qualità delle materie prime, sull’illustre storia dell’azienda o ancora, sulle garanzie e i diritti che magari offre ai propri dipendenti, lo spot, probabilmente senza neanche accorgersene, ha finito semplicemente per riconfermare le storture e le ingiustizie del mondo del lavoro italiano.
Non a caso, i nostri modelli di riferimento sono multimiliardari come Jeff Bezos, Tim Cook o Elon Musk, che hanno fatto dello stacanovismo e del lavoro no-stop un loro mantra. Cook, succeduto a Steve Jobs come Amministratore delegato di Apple nel 2011, si sveglia prima delle 4 del mattino e alle 3.45 inizia già ad inviare le prime email, ha rivelato Luca Maestri, direttore finanziario di Apple. La sua media di ore lavorative settimanali si aggira attorno alle 100, ovvero più del doppio della media dei lavoratori statunitensi.
Nonostante il dietrofront di molti di questi CEO e dirigenti di grandi aziende, la negazione di quello stile di vita è arrivata forse troppo tardi e il messaggio che è passato fino a oggi è che più ore e tempo dedicherai al lavoro, maggiori saranno i tuoi guadagni e le tue soddisfazioni. A dispetto della salute, delle relazioni sociali e del proprio tempo libero, ovviamente.
Per fortuna, però, la tendenza nel mondo sta cambiando e le persone sono sempre meno disposte a lavorare così tante ore a settimana, spesso con straordinari e ore extra non pagate, per proteggere di più la propria salute e il proprio tempo libero.
Anche in Cina alcuni lavoratori stanno iniziando a ribellarsi al modello di lavoro “996”, ovvero quella cultura stacanovista che prevede giornate lavorative che vanno dalle 9 di mattina alle 21 di sera, per sei giorni la settimana. Una strategia che il fondatore di Alibaba, Jack Ma, ha avuto il coraggio di definire “una grande benedizione”.
Intanto, mentre sempre più Paesi e aziende sperimentano la settimana lavorativa corta con successo e risultati sopra le aspettative in termini di produttività, da noi si esalta l’annullamento della propria persona in nome del lavoro.
È arrivato il momento di smetterla con questa narrazione tossica del successo e dell’esaltazione della performatività lavorativa, che stigmatizza il fallimento e l’insuccesso, e porta a una competizione insana e ritmi di lavoro estenuanti. Dalla scuola alla vita privata, dall’università alle aziende, la retorica del successo, della velocità e dell’iper produttività è onnipresente e sta contribuendo a distruggere il nostro già fragile sistema di welfare, il tessuto sociale in cui viviamo e, come se non bastasse, il nostro Pianeta.
Le grandi aziende hanno una grande responsabilità, non solo nel processo di selezione e produzione delle proprie merci, nella qualità dei servizi che offrono e nel trattamento che riservano ai propri dipendenti, ma anche nella realizzazione di campagne pubblicitarie per promuovere il proprio marchio. Invece di portare avanti una narrazione banale e polverosa della propria storia e delle proprie eccellenze, potrebbero sfruttare al meglio questo mezzo di comunicazione per promuovere valori migliori, sani, e un’etica del lavoro che rispetti e difenda i diritti dei lavoratori, diventando un esempio da seguire per tante altre aziende e persone.