Le regole sul decoro della scuola italiana sono inutili, ipocrite e figlie di una mentalità bigotta - THE VISION
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Niente piercing, niente capelli colorati, niente minigonne, niente unghie lunghe: nella scuola italiana non c’è spazio per la libertà. L’ultimo caso è quello di Nuoro, dove i 400 studenti del Liceo delle Scienze Umane e Musicale “Sebastiano Satta” sono scesi in piazza, dopo una settimana di sciopero, per protestare contro le regole stringenti e i divieti imposti dalla preside della scuola sul “decoro” e sull’aspetto esteriore dei ragazzi, oltre che per la negazione dell’intervallo e per il ritiro dei cellulari prima delle lezioni.

“Non c’è solo il problema del piercing e delle unghie”, ha spiegato uno degli studenti durante la protesta, “vogliamo ricordare che siamo qui perché passiamo cinque ore seduti, non esiste la ricreazione e abbiamo 10 minuti di pausa ogni ora a discrezione del docente. Abbiamo un cortile molto grande e non ne possiamo usufruire, nella succursale abbiamo un bagno per cento studenti che dividiamo coi professori”.

La protesta si è conclusa martedì 7 dicembre, quando gli studenti sono tornati in classe, dopo esser riusciti a strappare qualche concessione alla dirigente scolastica sulla ricreazione, mentre l’uso dei cellulari continuerà a restare vietato durante le lezioni, così come le unghie lunghe e i piercing, banditi per “motivi di sicurezza” in palestra. Al posto delle note disciplinari, che influiscono sul voto di condotta, sarà però sviluppata un’alternativa allo sport di gruppo per tutti quei ragazzi e ragazze che non vogliono privarsi di quegli accessori e dettagli estetici che la scuola avrebbe voluto eliminare.

Casi di regole e restrizioni simili sul decoro si verificano, però, non solo a Nuoro, ma in tutta Italia. Il 27 novembre era stata la volta del Liceo Scientifico Statale “Piero Bottoni” di Milano, dove gli studenti di una quarta, che avevano deciso di vestirsi di rosso, indossando tutti, a prescindere dal sesso e dall’identità di genere, delle gonne, per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sono usciti dall’aula in aperto dissenso con l’insegnante di Storia, che si era opposto alla decisione degli studenti, definendoli dei “travestiti”. La preside, fortunatamente,ha preso dei provvedimenti, invitandolo a tornare a casa e inviando una relazione sull’accaduto al servizio scolastico provinciale.

Il professore, in realtà, era già noto per le sue idee misogine e sessiste, come quando aveva detto a una sua alunna: “Prova a leggere questo testo, ammesso che voi donne sappiate leggere”. Come se non bastasse, il suo profilo Facebook è pieno zeppo di teorie complottiste, tesi No-Vax, pensieri omotransfobici e razzisti. “Secondo un rappresentante (che non è un mio allievo) degli studenti che mi contestano, è giunto il momento di insegnare a scuola il transfemminismo”, scrive piccato in un post del 2 dicembre. “Ebbene,” conclude, “con me il transfemminismo possono già immaginare dove dovrebbero metterselo. Fuori le ideologie dalla scuola italiana!”. Non mancano neanche i ringraziamenti a Fratelli d’Italia e al senatore Pillon per il sostegno espresso alla sua “battaglia culturale, spirituale, educativa”. Viene da chiedersi che tipo di educazione e di insegnamenti possa trasmettere agli studenti una persona che usa gratuitamente un linguaggio così discriminatorio e che si mostra pubblicamente grata a figure che manifestano apertamente posizioni di odio verso le minoranze e che puntualmente si rifiutano di riconoscere alcuni dei più basilari diritti civili nei confronti di altri esseri umani.

Simone Pillon

Ma gli esempi di bigottismo e chiusura mentale delle scuola italiane, purtroppo, non finiscono certo qui. A febbraio, all’Istituto Professionale Servizi per l’Enogastronomia e l’Ospitalità Alberghiera “Carlo Porta” di Milano, uno studente è stato punito perché aveva i capelli tinti di blu: gli è stato impedito di tornare a scuola fino a quando non fosse tornato al suo colore di capelli originale; e nel settembre del 2020 al Liceo Classico e Scientifico “Socrate” di Roma la vicepreside ha invitato le ragazze a non indossare la minigonna perché “ai prof cade l’occhio”. In tutti questi casi, gli studenti si sono ribellati e hanno protestato contro regole e provvedimenti che sembrano figli di una mentalità bigotta e retrograda. Mentre la sensibilità delle nuove generazioni sul tema del decoro e dell’inclusività sta cambiando radicalmente, molti professori e dirigenti scolastici restano ancorati a una visione del mondo conservatrice e oscurantista. Le assurde regole delle scuole relative al decoro e al “buon senso” ne sono l’esempio più evidente: invece di educare gli studenti all’inclusione, al rispetto e alla libera espressione di sé, i docenti più nostalgici puntano al conformismo e all’omologazione dell’aspetto esteriore, nel tentativo fallimentare, di plasmare gli studenti secondo una serie di valori e di etichette che non hanno più senso di esistere.

Per fortuna, negli ultimi anni si sono moltiplicate le proteste contro il bigottismo delle stesse istituzioni scolastiche e gli atti dimostrativi a favore dell’abbattimento degli stereotipi di genere: come l’iniziativa “Zucchi in gonna”, lanciata da due studenti del Liceo Classico e Musicale “Bartolomeo Zucchi” di Monza e ispirata a manifestazioni simili che si sono svolte negli ultimi anni in Spagna e in Scozia. L’idea consiste nell’indossare tutti la gonna, maschi e femmine, per combattere gli stereotipi di genere e la sessualizzazione del corpo femminile. I due ideatori hanno spiegato a THE VISION: “Ci ha spinto a dare inizio a questa iniziativa la necessità di vivere in un ambiente più inclusivo per quanto riguarda le libertà individuali di ciascuno e nel quale si combattessero realmente la sessualizzazione del corpo femminile e la mascolinità tossica”.

Tutto è partito da un insegnante di matematica spagnolo, Jose Piñas, quando a novembre del 2020 ha postato sul suo account Instagram una foto in classe con la gonna con sotto l’hashtag #LaRopaNoTieneGenero (“I vestiti non hanno genere”). L’idea del professore è nata quando uno dei suoi alunni è stato espulso dalla scuola per aver indossato una gonna. “Molti insegnanti si sono voltati dall’altra parte”, ha scritto sui social Piñas, “Voglio unirmi alla causa dello studente, Mikel, che è stato espulso e mandato dallo psicologo per essere andato a lezione con una gonna”. Da quel momento in poi l’iniziativa ha preso piede in tutto il Paese ed è stata replicata da altri professori e studenti spagnoli, che hanno deciso di andare a lezione indossando la gonna al posto dei pantaloni, per sostenere la libertà di espressione e abbattere gli stereotipi di genere. Una decisione rivoluzionaria che invita gli studenti a riflettere su quanto i pregiudizi e i modelli rigidi e schematici con cui siamo cresciuti ci limitino. Il caso spagnolo ha poi superato i confini nazionali e ha raggiunto anche la Scozia, dove, nella capitale Edimburgo, una scuola elementare ha chiesto ai bambini e agli insegnanti maschi di indossare la gonna a scuola per “promuovere l’uguaglianza” e sfatare gli stereotipi di genere.

Castleview Primary School di Edimburgo, Scozia

Non è un caso che entrambi i Paesi siano fra i più avanzati in tema di educazione sessuale nelle scuole e per l’insegnamento della storia dei diritti LGBT+, educazione all’inclusività e campagne contro l’omotransfobia. Nel nostro Paese, dove ogni tre giorni viene uccisa una donna, la parità di genere è ben lontana dall’essere raggiunta e il 30% degli studenti LGBT+ ha subito episodi di cyberbullismo e hate speech online, l’educazione sessuale e affettiva, il contrasto alla violenza sulle donne e all’omotransfobia dovrebbero essere temi prioritari per il nostro sistema scolastico, ma l’ideologia del decoro e del presunto buon costume continua a primeggiare.

La scuola resta sorda alle richieste e alle preoccupazioni degli studenti, considerati troppo spesso come svogliati nullafacenti interessati solo a divertirsi. La stessa ossessione per il decoro urbano e la pubblica sicurezza che si è diffusa negli ultimi anni nelle nostre città si rispecchia nelle aule scolastiche dove gli insegnanti tentano di nascondere le mancanze e le falle del sistema con un finto perbenismo e il perseguimento di un’omologazione estetica degli studenti, che offra agli adulti un’immagine conforme della scuola, dove regnano decoro e disciplina.

Intanto continuano gli scioperi, le manifestazioni e le occupazioni delle scuole in tutto il Paese. Solo a Roma sono quasi 30 gli istituti superiori occupati. Gli studenti lamentano soprattutto i disagi degli orari scaglionati, la mancanza di spazi sociali e di partecipazione attiva, e chiedono maggiori investimenti da parte del Governo per l’apparato scolastico. “Stiamo vedendo la nostra scuola e il nostro futuro cadere a pezzi”, afferma Giulia, rappresentante del Liceo Classico “Augusto” di Roma durante un sit-in davanti al ministero dell’Istruzione. “Le condizioni dei nostri istituti sono pietose da tantissimi anni e non abbiamo più spazi per noi e per organizzare assemblee. Non c’è più socialità e la scuola sembra stia diventando un’azienda”.

Mentre presidi e docenti si preoccupano dell’abbigliamento e del colore dei capelli degli studenti, nell’anno scolastico 2020-202, come mostra l’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva sulla sicurezza delle scuole italiane, il 54% degli istituti è privo di certificato di agibilità, mentre si sono verificati 35 episodi di incidenti, per un totale di quattro feriti. 17mila le aule con più di 25 alunni, classificate come “sovraffollate”. È ora che la scuola italiana permetta agli studenti di esprimersi liberamente, senza imporre ipocriti e inutili divieti, investendo, piuttosto, sull’educazione sessuale e affettiva obbligatoria, sul contrasto alla misoginia e all’omotransfobia, sulla messa in sicurezza degli edifici che crollano a pezzi e soprattutto sulla formazione dei docenti, spesso impreparati e incapaci di cogliere la complessità del presente e le esigenze delle nuove generazioni.

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