Quando si parla di lotta alla violenza di genere, ci si concentra giustamente sulla prevenzione e sulla gestione dell’emergenza. Se della prima si discute tanto, senza tuttavia investire abbastanza (dei 132 milioni di euro stanziati nel 2019 nell’antiviolenza, solo 5,5 sono stati destinati alla prevenzione), la maggior parte delle iniziative politiche per gestire il problema fanno invece riferimento a una logica emergenziale, la cui priorità è mettere in sicurezza la donna. Il Codice Rosso del 2019, ad esempio, vede questa impostazione riflessa nel suo stesso nome. Pochi sanno, invece, che cosa succede a chi subisce violenza dopo la denuncia e come funziona la presa in carico in un centro antiviolenza. Uno dei passi più delicati è la riconquista dell’autonomia, anche economica, necessaria per lasciarsi definitivamente alle spalle la violenza subita. L’8 novembre, l’Inps ha presentato i dettagli del cosiddetto “Reddito di libertà”, una misura economica introdotta con un decreto a dicembre del 2020 pensata per favorire proprio questo processo.
Anche se non tutte le vittime provengono da una situazione di povertà, la questione economica resta ancora uno dei maggiori ostacoli alla fuoriuscita dalla violenza. Con una disoccupazione femminile al 51%, molte donne non dispongono di redditi propri ma dipendono da mariti e compagni. Secondo la Banca d’Italia, le donne in una relazione di coppia possiedono in media il 50% in meno della ricchezza rispetto ai loro partner. Quando una donna vittima di violenza non ha denaro che può utilizzare liberamente, sarà ancora meno incline a denunciare un partner abusante o a chiedere aiuto proprio per paura delle conseguenze a cui andrà in contro. Spesso, anche la mancanza di esperienze pregresse nei confronti dell’autonomia di vita e di lavoro, specialmente dopo i quarant’anni, è un forte deterrente: il 30,4% delle disoccupate nella fascia 45-74 anni non ha infatti mai avuto esperienze lavorative nella propria vita, cosa che per gli uomini accade solo nel 3,8% dei casi. Questa fase del percorso di fuoriuscita dalla violenza è quindi molto difficile e delicata da gestire.
Alle donne seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali, viene destinato il “Reddito di libertà”, che ammonta a un massimo di 400 euro mensili per dodici mesi. Possono usufruirne sia le italiane che le straniere in possesso di permesso di soggiorno, rifugiate o con lo status di protezione umanitaria. In risposta al preoccupante aumento di violenze domestiche durante i mesi del lockdown, il governo Conte per finanziarlo ha stanziato 3 milioni di euro, facenti parte del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità istituto nel 2006. I centri antiviolenza cercano come possono di garantire il reinserimento lavorativo delle donne che seguono, ma spesso il problema principale è quello dell’alloggio, specie se hanno anche figli a seguito. Il contributo del Reddito di libertà ha come obiettivo primario quello di aiutarle proprio nella ricerca di una casa. Questa non si tratta di un’iniziativa inedita: la Regione Sardegna la approvò nel 2018, su iniziativa di una proposta di legge regionale trasversale a tutte le forze politiche. Il sussidio sardo ammonta però a 780 euro, con l’aggiunta di altri 100 euro in caso di disabilità o di 200 per figli con disabilità.
Sulla carta si tratta di un’iniziativa lodevole – anche se 400 euro (sempre che spetti la cifra massima) per un affitto sono una cifra irrisoria, specialmente nelle grandi città – il problema è che per il momento ne potranno beneficiare pochissime donne. Secondo i calcoli di D.i.Re, la principale rete di centri antiviolenza in Italia, i fondi stanziati sono troppo pochi e il Reddito di libertà rischia di tradursi in un intervento di facciata – esattamente come accadde per i 30 milioni per le vittime di violenza annunciati in pompa magna ad aprile 2020: non nuovi fondi, ma soldi stanziati in precedenza e in ritardo di anni. Al Reddito di libertà, infatti, potranno accedere al massimo 625 donne in tutta Italia, quando quelle accolte ogni anno nei 302 centri antiviolenza del Paese sono circa 50mila. “Per beneficiare una platea significativa, diciamo anche solo un quinto delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza, ovvero 10mila, e fermo restando un contributo di 400 euro per 12 mesi, ci vorrebbero almeno 48 milioni di euro”, spiega la consigliera nazionale di D.i.Re del Veneto Mariangela Zanni. Per i centri antiviolenza, poi, c’è un altro problema: la misura prevede l’ottenimento di una certificazione dei servizi sociali, che invece non è necessaria per richiedere gli assegni familiari o il congedo dal lavoro a causa della violenza. Non tutte le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza vogliono infatti essere seguite anche dai servizi sociali.
I fondi per il Reddito, ripartiti su base demografica, saranno gestiti dalle Regioni, così come avviene già per la maggior parte dei soldi destinati ai centri antiviolenza. Questo sistema presenta però molte criticità, come sottolineato anche dal rapporto di monitoraggio dei fondi realizzato da ActionAid. I fondi ordinari destinati ai centri antiviolenza, ad esempio, vengono per la maggior parte gestiti dalle Regioni, che li trasmettono poi ai comuni dove sono presenti i centri, ma il passaggio da una cassa all’altra causa notevoli ritardi: al 15 ottobre 2020, solo il 10% dei fondi del 2019 è arrivato ai cav. Questo perché le Regioni stavano ancora distribuendo le risorse previste per il biennio 2015-2016, liquidate solo per il 72%. Il 67% di questa cifra, poi, risaliva al 2017. A distanza di 15 mesi, le Regioni avevano liquidato solo il 39% delle risorse del 2018, ovvero circa 7,6 milioni di euro a fronte dei 19,6 stanziati.
Da anni, i centri antiviolenza e le associazioni chiedono di superare questo sistema farraginoso, istituito con l’intesa Stato-Regioni del 2014, e di passare a una distribuzione centralizzata e diretta. A questi ritardi si aggiunge anche il fatto che il piano antiviolenza è scaduto nel 2020 e per quasi un anno non è stato rinnovato. Questo significa che per 11 mesi molti centri sono rimasti scoperti e hanno dovuto ridimensionare o sospendere le loro attività. Il nuovo piano 2021-2024, anticipato da Il Sole 24Ore, non ha però risolto la questione del superamento dell’intesa Stato-Regioni e i cav hanno scritto una lettera aperta alla ministra Bonetti, lamentando di non essere stati coinvolti in quello che dovrebbe essere un percorso di stesura necessariamente partecipato.
Dalle anticipazioni del nuovo piano si evince che il Reddito di libertà sarà abbinato ad altre misure per favorire l’autonomia delle donne, come ad esempio tirocini retribuiti vincolati all’inserimento lavorativo, microcredito e accessi prioritari alle graduatorie per il patrimonio immobiliare pubblico. Tuttavia, non sappiamo ancora quanto dettagliate saranno queste politiche, visto che nei piani precedenti la questione dell’empowerment economico era descritta in modo molto generico. Questo resta però uno dei nodi principali, da cui può dipendere l’intero percorso e a volte anche la tanto invocata denuncia, che non è comunque condizione necessaria per essere accompagnate da un centro antiviolenza. Proprio per tali ragioni la misura di un reddito universale e incondizionato, chiamato “Reddito di autodeterminazione”, è stata auspicata anche dal movimento femminista Non una di meno nel suo “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e contro la violenza di genere”, scritto in risposta al primo piano antiviolenza approvato dal governo nel 2015.
La parola usata per questa nuova iniziativa antiviolenza, libertà, è molto importante per una misura che può esserlo altrettanto, se potenziata e soprattutto se resa strutturale. Per il momento, purtroppo, essa risulta ancora insufficiente, così come lo sono state le politiche antiviolenza varate finora: il numero dei femminicidi è rimasto costante negli anni ed è anzi aumentato negli ultimi due. Sulle altre forme di abuso è difficile pronunciarsi: lo stretto monitoraggio sui fenomeni di violenza di genere previsto dai vari Piani non è mai stato fatto. Dietro i proclami sulla violenza di genere c’è un sistema che da tempo non funziona più, ma il tempo della retorica, come l’ultimo Piano antiviolenza, è ormai scaduto.